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MONDO
Stati Uniti d’America, l’immigrazione al centro delle presidenziali
Il 2023 ha registrato un record di arrivi sul confine meridionale degli Stati Uniti, con oltre 2 milioni di entrate. Nel frullatore elettorale, surriscaldato dalla demagogia sovranista Maga, l’antica emergenza immigrazione è tornata prepotentemente al centro del dibattito politico – senza vere prospettive di soluzione, ma con forte potenziale destabilizzante
Nell’estremo lembo meridionale della California, a metà fra il Pacifico e il Colorado River, la vecchia Highway 80 disegna un’ansa pigra che la porta a lambire il confine. All’altezza di Jacumba, una stazione termale semi-abbandonata, solo le rotaie dell’ex- ferrovia separano la strada dal muro dietro il quale sorge il villaggio messicano di Ejido Jacume. Negli anni, le due comunità sono state poli speculari di contrabbando, solo nominalmente ostruito oggi dalla barriera metallica di sei metri che si perde all’orizzonte verso l’Arizona e, ad ovest, fino a tuffarsi nell’oceano all’altezza di Playas de Tijuana.
I due minuscoli paesi, una volta dirimpettai separati da una passeggiata di dieci minuti, oggi si sono venuti a trovare su lati opposti della fortificazione fra nord e sud del mondo, una paradigmatica rappresentazione di un vecchio detto ispanico del Southwest: «Non abbiamo attraversato il confine, è il confine che ha attraversato noi». Il traffico però continua, anzi tira più di che mai, nella merce più pregiata e inesauribile: i migranti.
Per averne un senso, basta uscire dal paese fino al campo polveroso sul ciglio dell’autostrada, oltre il caseggiato. Appena dentro i primi 100 metri di Stati Uniti, la radura polverosa è da qualche mese il terminale del flusso di migranti che in questo settore scavalcano il muro e si consegnano alla polizia di frontiera per richiedere asilo.
Quando siamo passati, la scorsa settimana, un centinaio di persone infagottate contro il vento sferzante dei mille metri d’altezza, si stringevano attorni a miseri falò. Erano uomini, donne e bambini, compresi neonati, famiglie strette in abiti non adatti all’inverno dell’emisfero settentrionale, parlavano sommessamente in spagnolo ma anche Arabo, Portoghese, Cinese, Urdu, Bengalese, Francese dal forte accento caraibico e africano.
Un improvvisato caravanserraglio globale, emblematico di come, anche su questo confine, l’immigrazione sia mutata da quella storica, prettamente “economica,” di manovali e campesinos ispanici che attraversano “la linea” per lavorare in fabbriche e campi di “el Norte,” al flusso generalizzato di profughi da un Sud sempre più martoriato verso il benessere del Nord.
Ognuno, nel campo, era giunto qui al termine di rischiosi viaggi durati settimane, via mare e terra, ed era stato istruito, prima di saltare la barriera, di consegnarsi alle autorità. Sul lato americano però la polizia di frontiera ha smesso di “accogliere” i profughi in modo organizzato o in qualsivoglia struttura. A chi arriva viene detto semplicemente di aspettare in luoghi come il campo di Jacumba senza viveri o riparo. La gente aspetta all’addiaccio, senza nemmeno tende, a volte per diversi giorni, di venire prelevati in piccoli gruppi dagli agenti che passano ogni tanto.
È il sistema di fortuna applicato alle migliaia di migranti che scavalcano ogni giorno la barriera, o attraversano a nuoto il Rio Grande – un flusso che ha ripreso con ritmi record dopo che Trump aveva sostanzialmente abrogato unilateralmente il diritto di asilo. Con il pretesto del cordone anti-Covid, le procedute di accoglienza erano state soppresse implementando al loro posto l’espulsione immediata in Messico di tutti i “clandestini” o misure di “dissuasione” come la «separazione delle famiglieı – così veniva eufemisticamente denominata la tortura della sottrazione dei figli piccoli ai genitori (a oggi, centinaia dei quasi 4000 bambini sottratti, devono ancora essere ricongiunti alle loro famiglie). L’amministrazione Biden ha (in parte) ripristinato procedure consone ai trattati internazionali che prevedono quantomeno la valutazione della richiesta di asilo. In un sistema del tutto oberato: prima di un’udienza possono passare anni durante i quali il richiedente può rimanere nel paese con permesso di soggiorno provvisorio.
Ed è la base degli attacchi della destra a Biden accusato da Trump di aver spalancato i confini. Il giorno che ero a Jacumba era anche quello in cui giungeva al confine il convoglio “Take our border back.” Organizzato da militanti Maga (Make American Great Again) di matrice evangelica, il convoglio diretto in Arizona e Texas, doveva essere una «crociata di patrioti» decisi a sigillare la frontiera contro «l’invasione di trafficanti, terroristi e criminali» che avevano «fatto breccia» nel confine meridionale. All’atto pratico la crociata si era rivelata più simile a un’armata Brancaleone di qualche centinaio di infervorati (simili alla folla del 6 gennaio ma assai meno bellicosi) incensati da un patriottismo venato del consueto complottismo. Visti dall’accampamento di Jacumba, erano una carovana di un centinaio di veicoli imbandierati che erano sfrecciati, assieme a tanti altri, sulla vicina autostrada – un bizzarro siparietto, che alcuni dei bambini migranti hanno salutato come una colorita parata.
Gli anti-immigrati di ultima generazione non sono molto diversi a chi li ha preceduti. Quelli che negli anni ‘90 spinsero Clinton a erigere le prime barriere su un confine che era rimasto del tutto aperto per 150 anni, o i miliziani “Minutemen” che sotto Bush organizzavano da queste parti ronde di volontari armati prendendo il nome dai partigiani rivoluzionari del 1776. Fino ai paladini del muro di ferro di Trump.
La demagogia è sempre quella di una destra intrisa di equivoche nozioni storiche e di un patriottismo sfumato in religiosità e retorica bellicosa. L’altra costante è la puntuale strumentalizzazione di una fisiologica xenofobia a fini politici.
Dalle deportazioni di massa degli anni ‘30 e ‘50 (oltre due milioni di Messicani rimpatriati a forza sotto Roosevelt, poi Eisenhower) alla santa alleanza di Reagan coi teocon – perfino Obama si è guadagnato il nomignolo di “deporter in chief,” per le politiche implementate per tentare (invano) di placare i conservatori.
Sullo sfondo, la realtà ben più complessa di una nazione-crogiolo, costruita sull’assimilazione degli stranieri (40% discendenti delle immigrazioni europee via Ellis Island, 20% di Ispanici per citare solo due dati enormi).
Poi, nello specifico del Southwest, una regione indistinguibilmente bi-nazionale e bi-culturale (a partire dalla toponomastica) e infine l’azione storica USA nel “cortile di casa”, così determinanti per il martoriato destino dei vicini meridionali.
A questo riguardo sono state un promemoria paradigmatico le recenti elezioni in El Salvador. In quel paese, negli anni ‘80, il governo Reagan ha sostenuto il regime autoritario macchiatosi di efferati crimini alla radice di un’ondata di profughi proprio verso gli USA. Nel degrado urbano molti emigrati hanno formato, allora, bande giovanili come la famigerata Mara Salvatrucha (MS13). Negli anni ‘90 migliaia di giovani delinquenti sono successivamente stati rimpatriati in El Salvador dove hanno dato vita alla criminalità che ha destabilizzato il paese, spianando a sua volta la strada alla democratura securitaria di Nayib Bukele, assurto come autocrate, debellatore delle pandillas.
Il caso centroamericano sottolinea la difficoltà di una distinzione fra profughi economici e “perseguitati,” dunque meritevoli dell’asilo politico. La selezione è fondamentalmente ipocrita nel momento in cui l’occidente è partner integrante nell’operato di stati aguzzini, ingaggiati per il “controllo” dei migranti, e che sono al contempo causa di violenze soprusi alla radice della migrazione stessa.
Nel caso americano la “chiusura”, poi, è vieppiù risibile data la comprovata interdipendenza, confermata proprio questa settimana, quando il Messico ha statisticamente superato, per la prima volta in 20 anni, la Cina come principale partner commerciale degli USA. Senza dire della documentata dipendenza della prima economia mondiale dal contributo produttivo e demografico dell’immigrazione; il vantaggio al PIL e al bilancio nazionale è stato calcolato in1 trilione di dollari.
Complessità storico-economiche e geopolitiche in aperta dissonanza cognitiva con la retorica semplificata del sovranismo populista, e con il malcelato razzismo, utile al consolidamento della base elettorale, non solo negli Stati Uniti, ma attualmente in ogni democrazia occidentale alle prese con la contraddizione di un liberismo che ha bisogno fisiologico della manodopera e della crescita demografica, ma che contemporaneamente sposa la narrazione identitaria per vincere le elezioni.
La dinamica spiega le paradossali contorsioni in atto a Washington dove, sempre questa settimana, il GOP ha sabotato una legge compromesso con cui Biden concedeva la maggior parte delle loro stesse richieste – compreso un forte giro di vite sul diritto di asilo e una sistema di chiusura “algoritmica” della frontiera che avrebbe imposto lo stop a tutte le entrate ogni qualvolta che queste avessero superato le 5000 al giorno in una media settimanale.
La proposta bi-partisan, a cui rappresentanti dei due partiti avevano lavorato per mesi, avrebbe probabilmente calmierato la crisi, ma è stata cassata con poche parole da Trump che ha apertamente castigato i suoi per aver perfino considerato di «risolvere», durante una campagna presidenziale, un problema così elettoralmente utile. Dal canto suo, la disponibilità ad adottare un pugno duro conferma che l’immigrazione è per Biden un tallone d’Achille, lo strumento più efficace che i repubblicani hanno per controbattere la rabbia suscitata dall’abrogazione del diritto federale ad abortire.
Ora che il “pericolo” di una mediazione efficace è stato “sventato,” gli stessi repubblicani potranno tornare ad impugnare l’accusaa Biden di aver “spalancato i confini,” un mantra destinato a ripetersi di qui a novembre. Indicativo in questo senso è il tentativo di impeachment del ministro del Homeland Security Alejandro Mayorkas, una sceneggiata destinata a fallire, dato che non raccoglierà mai i due terzi dei voti necessari ad andare in porto, ma comunque recitata con plateale indignazione dallo stesso GOP che ha rifiutato ogni concessione di Biden per trarne un vantaggio elettorale.
Il dossier immigrazione torna quindi ad alternarsi fra rimozione ed emergenza permanente, di cui ci si ricorda cinicamente quando vi è un tornaconto politico. A dimostrarlo, negli ultimi mesi il confine e diventato meta di pellegrinaggi, non solo per Trump e Biden (o i loro surrogati), ma per parlamentari avidi di selfie e anche Robert Kennedy Jr., candidato indipendente anche lui salito sul carrozzone della chiusura del confine per salvare l’identità del paese.
Senza dimenticare Elon Musk, ormai regolare capotifoso della Alt-right più bieca, che per amplificare le tesi di sostituzione etnica e le farneticazioni eugenetiche che sostiene sulla propria piattaforma, si è calcato in testa uno Stetson ed ha preso il jet privato per gli obbligatori selfie davanti ai profughi chiusi nei recinti della Border Patrol.
Ma nessuna pantomima edificata sulla disperazione dei migranti supera quella inscenata dal governatore del Texas, Greg Abbott, il quale, per dar lustro alle proprie credenziali sovraniste, spinge alacremente per una crisi costituzionale. Da qualche mese Abbott ha fatto del confine sul Rio Grande il fondale per un cinico teatro della crudeltà. Nel nome della «dissuasione dei clandestini» e per polemizzare con un governo federale che avrebbe «criminalmente abdicato il proprio dovere di difendere la patria» il governatore ha prima fortificato il proprio confine con una barriera di boe anti-uomo, avvolte da filo lamettato a metà fiume. Successivamente ha mobilitato la guardia nazionale per prendere il controllo di una sezione di confine a Eagle Pass, vicino San Antonio, sfrattando gli agenti federali e impedendo i soccorsi ai migranti, in barba perfino a una sentenza della Corte suprema. Manovre costate diverse vite di persone annegate, ma che hanno fatto di Abbott l’eroe di un movimento “secessionista” che ha riscosso la solidarietà di ben 25 altri governatori repubblicani, disposti, apparentemente, a far precipitare uno scontro dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per il paese.
Immagine di copertina e nell’articolo di Luca Celada