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OPINIONI
«Sta emergendo un immaginario ecologista e di classe»: intervista ad Alberto Manconi
Pubblichiamo la traduzione ampliata e rivista dell’intervista ad Alberto Manconi, attivista climatico e dottorando all’Istituto di Geografia e Sostenibilità dell’Università di Losanna, apparsa in lingua spagnola per “Centro de Gravedad Permanente” (CGP)
“Centro de Gravedad Permanente” (CGP) è un programma tv che si propone come spazio di dialogo delle lotte in Europa e che è ospitato da “Canal Red”, l’ambizioso progetto mediatico ispanofono diretto da Pablo Iglesias. L’intervista si trova nella puntata “Clima y Capital: el Fin de Un Mundo” che ospita anche interventi del Collettivo di Fabbrica – Lavoratori ex-GKN e del World Congress for Climate Justice, a cui l’intervista si riferisce.
Evoluzione dei movimenti per il clima in Europa
Durante gli ultimi anni abbiamo assistito a un nuovo ciclo di mobilitazioni ecologiste. In questo senso potremmo dire che gli scioperi climatici e le azioni di disobbedienza civile di massa del 2019 segnano un prima e un dopo. Potresti chiarirci la tua lettura in termini di composizione generazionale e di classe, e del discorso di questi nuovi attori decisivi nel panorama europeo? Ma soprattutto, come sono evoluti i movimenti climatici da allora? Che tipo di convergenze tra questi movimenti e altri tipi di lotte si sono prodotti?
Effettivamente i dati del 2019 erano impressionanti: Fridays For Future e Extinction Rebellion avevano portato qualcosa di totalmente nuovo, attivando milioni di persone senza alcuna esperienza politica precedente. Bisogna però tener presente che lo stop della pandemia ha inciso negativamente sulla storica ondata del 2018-19, interrompendo una dinamica che era ancora crescente, e lo ha fatto in misura maggiore nei paesi come l’Italia – cioè, dove non vi era una forza accumulata precedentemente di movimenti climatici e dunque dove la composizione era esclusivamente giovanile.
Dentro Canal Red si mette a tema la guerra mediatica e sul significato dentro al regime di guerra. Questa angolatura è utile anche per vedere cosa è successo ai movimenti per il clima nei pochi ma decisivi anni trascorsi: nel 2019 l’attenzione mediatica era del tutto scontata, sembrava “regalata”. Tale attenzione era distorta dall’uso indecente (di esegeti e detrattori) della figura di Greta Thumberg e, soprattutto, cominciava già a incrinarsi alla fine del 2019, quando molti gruppi di FFF, in Italia e non solo, cominciavano ad attaccare ENI e le grandi compagnie fossili in quanto responsabili della crisi climatica. Ma con piazze pienissime e molti margini di crescita e maturazione, quella attenzione era un’arma. Poi arriva la pandemia, le piazze necessariamente si svuotano e qualsiasi discorso sulla transizione ecologica viene captato e rimodulato dall’alto. Tuttavia, sembrava essere ancora in piedi la possibilità di giocare la partita politica sugli ingenti fondi di rilancio del capitalismo green.
Come è ovvio, ci sono differenze tra paesi europei (e il caso spagnolo mi sembra molto particolare), su cui vale la pena tornare successivamente. Tuttavia, mi pare si possa dire che lo spazio apparentemente aperto per i movimenti nella partita della transizione ecologica si è chiuso con l’invasione russa dell’Ucraina. Le ragioni sono moltissime, ma su tutte va notato che i colossi del fossile, come testimoniato dai profitti record di ognuna di esse e dal legame intimo con l’industria delle armi, hanno recuperato un rapporto di forza molto favorevole. E, intanto, la crisi eco-climatica avanza, con siccità e inondazioni, incendi, ondate di calore, eventi estremi, ecc.
In questo quadro, i movimenti climatici non si sono arresi. Sebbene, certo, la dimensione di massa che legava speranza ed urgenza di agire (secondo i famosi “10 anni per agire” dell’IPCC) è sparita dai movimenti e dalla narrazione mediatica. La lunga interruzione pandemica ha lasciato spazio ad altri stati emotivi e sempre più persone consapevoli cedono ad immaginari apocalittici. La resistenza nella crisi climatica soppianta quella alla crisi climatica – dicendola con il linguaggio ONU, l’adattamento alla crisi sta prendendo lo spazio che si era aperto nel 2018 per la sua mitigazione. Eppure, la capacità organizzativa e l’intelligenza strategica di questi movimenti restano impressionanti. Tra i tantissimi momenti e campeggi di lotta, nell’ultimo anno abbiamo visto due esperienze come Lützerath e Saint-Soline. Esse sono state in grado di portare alla luce problemi e contraddizioni centrali del sistema economico e politico biocida, tenendo insieme giustizia climatica e ambientale. E lo hanno fatto mettendo insieme realtà e culture politiche molto diverse da tutta Europa. Tuttavia, questi episodi hanno anche mostrato che la mediazione democratica nel regime di guerra viene continuamente erosa.
I movimenti con cui mi relaziono per la mia ricerca sono diventati famosi a livello globale con l’imbrattamento dei Girasoli di Van Gogh avvenuto mentre mi trovavo a Londra. Mi sembra che abbiano capito come guadagnare attenzione mediatica anche in assenza di movimenti eccezionali e di massa, agendo quindi con numeri ridotti e azioni dirompenti (seppur a caro prezzo legale..). Queste campagne politiche nazionali, riunite nella rete A22, hanno conquistato un enorme spazio mediatico anche in Italia, dove si chiamano “Ultima Generazione”.
Sinceramente non mi aspettavo che riuscissero a ottenere anche nel Sud Europa questa capacità di perseverare e guadagnare forza e attenzione. Pensavo che fossero modalità di lotta “molto inglesi”. Infatti, la rete A22 è partita con campagne inglesi che si sono separate da XR (il quale era a sua volta nato da azioni di massa svolte a Londra). Seppure l’impronta dell’anglosfera sia evidente nelle pratiche e negli espliciti riferimenti (suffragette, Gandhi, Martin Luther King), è impressionante la “traduzione” operata nel difficile contesto italiano. Forse lo spaesamento politico generale di una “era Meloni” che sembra essere solo all’inizio, ha contribuito a dare spazio a queste pratiche e prese di posizioni che si presentano come etiche (e talvolta persino moraliste) ancor prima che politiche.
Le critiche più serie segnalano che con queste pratiche si esprimono composizione e valori da classe media, nonché posizioni marcate dal catastrofismo. Però, al tempo stesso, queste campagne sfidano “la normalità” degli stessi valori “da classe media”, a partire dalla sacralità dell’arte. Ma soprattutto, è evidente che siano nuovə attivistə: nessunə ha infatti esperienze di attivismo precedenti al 2019, neppure in UK dove la maggior parte delle azioni di disobbedienza civile sono svolte da persone in età adulta o anziana, mentre in Italia raramente superano i 30 anni. Emerge anche che abbiano capito come, nella militarizzazione dei media che viviamo, solo se generi odio non possono ignorarti. È la logica della polarizzazione. Fa schifo, ma non puoi ignorare questa dinamica fondamentale della comunicazione contemporanea se non vuoi che ti cancellino del tutto. In questo senso, la loro intuizione politica non è così diversa da quella di Pablo Iglesias…
Ma passiamo al legame del movimento climatico con altre lotte. Sotto la cortina mediatica che si è imposta con la pandemia, si registra un processo carsico nei movimenti climatici di tutta Europa: la “convergenza”, come l’ha chiamata in Italia il Collettivo di fabbrica – lavoratori GKN, con le lotte sociali e sindacali. Nel suo travagliato percorso, la lotta in GKN ha rianimato FFF Italia e dato un impulso nuovo alle lotte territoriali delle regioni circostanti. Ma soprattutto, quella fabbrica è diventata uno spazio di soggettivazione per la lotta di classe dentro la (urgenza di) transizione ecologica. La convergenza socio-ecologista è una realtà in tutta Europa: in Francia ha avuto espressioni chiare nelle innumerevoli rivolte di questi anni, in Germania nello sciopero congiunto di FFF e del sindacato Ver.di sul trasporto pubblico (che ci hanno raccontato in un incontro di alcuni mesi fa al presidio permanente della fabbrica ex-GKN), e in UK, dove i picchetti di questo anno segnato da una storica ondata di scioperi sono stati un’opportunità di ripensare l’azione per gli attivisti di XR e Just Stop Oil, i quali mantengono numeri e costanza d’azione impressionanti.
E, soprattutto, vi è la difficoltà oggettiva di resistere al pensarsi dentro un orizzonte di collasso necessario (che, anche io, ammetto di sentire sempre più spesso sulla mia pelle). In particolare, in un paese come l’Italia, dove la preoccupazione per la crisi climatica ha una marcata differenza generazionale (nonostante la spaventosa ascesa di eventi climatici estremi), ciò si traduce in due orizzonti di collasso diversi e che non dialogano: i giovani sul clima e gli anziani sulla guerra. E intanto, assistiamo rintontiti al collasso sociale e politico – fatto di assuefazione al genocidio razzista nel Mediterraneo, di guerra sessista quotidiana contro ogni differenza e libertà, di impoverimento economico, culturale e psichico.
Di fronte a questo, a mio avviso non possiamo che coordinarci a livello internazionale nel cercare vie d’uscita che stiano “a stretto contatto con il problema”: cioè, che abbiano a che fare con la transizione ecologica dal basso. Per coordinarsi e costruire orizzonti comuni, credo che momenti come il World Congress for Climate Justice, che sarà a Milano dal 12 al 15 Ottobre, siano fondamentali. Per capire cosa intendiamo come transizione, il progetto di reindustrializzazione nella ex-GKN è un caso più unico che raro a livello europeo, e forse globale.
Geografia del movimento climatico
Una peculiarità di questo nuovo ciclo di lotta è stata la sua presenza in molti paesi. Qual è e quale è stato, se esiste, l’epicentro geografico del movimento? Possiamo riconoscere tendenze differenti secondo la geografia? Esse rappresentano un ostacolo o no per la costruzione di una dimensione transnazionale della lotta?
Grazie per questa domanda. Mi permette di partire da un quadro generale per arrivare alle geografie che ci riguardano più direttamente e che io conosco meglio. In effetti, l’ampiezza degli scioperi per il clima nel 2019 è stata inedita: si parla di 150 paesi nel mondo. Questo però non significa che questo movimento non avesse un centro forte in occidente, e particolarmente in Europa – anche a fronte dell’attenzione mediatica di cui abbiamo parlato. I c.d. MAPA (most affected people and areas) erano centrali nel discorso di questi movimenti, ma è evidente che la componente principale di questa ondata sono stati i giovanissimi del c.d. Nord del mondo. Una categoria che subirà le conseguenze della crisi climatica pur stando in zone che finora ne erano relativamente toccate (rispetto a luoghi come Bangladesh, East Africa, ecc.).
La dimensione globale e la consapevolezza della continuità della relazione coloniale e del privilegio bianco sono comunque elementi essenziali nell’attivismo ecologista contemporaneo (più che in altri movimenti, almeno nella mia esperienza). Per descrivere l’articolazione che ho potuto osservare nelle mobilitazioni durante la Cop26 di Glasgow, usai la metafora di front-end e back-end, mutuata dall’informatica e dai movimenti tecnopolitici. L’interfaccia di quel variegato movimento era la voce dei rappresentanti delle popolazioni indigene e più colpite. I numeri, i rischi e l’organizzazione profonda erano sostenuti dalla componente bianca, sulla base di un senso di solidarietà, giustizia e urgenza di cambiamento.
Alcune differenze interessanti (e su cui sono in grado di parlare più nel dettaglio) riguardano invece le dinamiche interne al continente europeo. Nel 2019 l’Italia è risultata il paese con la partecipazione più alta in assoluto agli scioperi climatici. Ciò è inedito, poiché paesi come Germania e UK hanno storicamente un ruolo trainante e innovativo nelle mobilitazioni per il clima a livello continentale e globale. Un altro dato emerso dalle ricerche empiriche rende chiara la distinzione presente all’interno del continente: se in Italia la partecipazione agli scioperi era esclusivamente di adolescenti e giovani, nei paesi del Nord, con una forte e lunga tradizione di politicizzazione del clima, la maggioranza di giovanissimi era accompagnata da numeri significativi di tutte le altre fasce d’età. Ad ogni modo, le difficoltà riscontrate con pandemia, guerra e crisi economica hanno portato nuovamente nel Nord Europa il baricentro dell’innovazione in ambito ecologista: cioè, dove vi sono più strutture e risorse per far fronte a una chiusura degli spazi politici.
Eppure, il mediterraneo è un hotspot della crisi climatica, secondo i rapporti dell’IPCC. L’aumento della temperatura è doppio nei paesi mediterranei rispetto a quelli nordici. E così, sono più gravi i rischi e le conseguenze, tra cui le sempre più frequenti inondazioni e ondate di calore: esse costeranno sempre più caro in termini di vite (umane e non solo) e salute. Intanto, se il coordinamento tra movimenti è difficile a livello europeo, lo è ancor di più tra paesi del Sud Europa, dove le risorse sono più scarse e la spinta ecologista prevalente (se non unica, prima del 2019) è quella delle lotte per la difesa dei territori, che è differente dalla giustizia climatica.
La congiuntura politica europea è segnata dallo spostamento dei fondi per la transizione ecologica e per la coesione sociale verso armi ed energia fossile. La crisi della governance del clima è l’implosione del progetto di finanziarizzazione della natura, e particolarmente del mercato delle emissioni, come soluzione alla crisi climatica. Al contrario di quanto promesso da questo approccio neoliberale al clima, negli scorsi 30 anni di mercato del carbonio, le emissioni sono cresciute come non mai. Quell’approccio è ormai falsificato dall’esperienza. Secondo Emanuele Leonardi, sociologo e compagno della rete di Ecologia Politica, è in questo punto che la governance del clima che abbiamo conosciuto dal 1992 entra in crisi terminale e si apre lo spazio per i movimenti per la giustizia climatica del 2018-19. La débâcle di Glasgow ha certificato questa rottura. La scelta di svolgere le Cop successive in paesi dove non è possibile esprimere dissenso è la decisione più chiara sulla nuova direzione intrapresa.
Fuori dalle COP sul clima, la tradizione ecologista in paesi come Italia e Spagna è fatta di resistenze territoriali verso progetti aggressivi calati dall’alto, che vanno ad acuire le diseguaglianze territoriali incidendo sulle “zone di sacrificio”.
Così, nella Spagna rurale e nell’Italia meridionale vediamo oggi crescere le opposizioni a grandi parchi di energia rinnovabile. In questo modo, l’ingiustizia ambientale che vivono certi territori viene alla luce, ma appare in contrasto con la questione climatica senza riuscire a evidenziare tutti i problemi della transizione dall’alto. La politica energetica proposta non è solo ingiusta – essa non è affatto una transizione ecologica, ma piuttosto un’addizione energetica (anche nel caso spagnolo, dove al contrario di quello italiano le infrastrutture rinnovabili sono cresciute in maniera significativa negli ultimissimi anni). Per far sì che le infrastrutture di energia rinnovabile siano funzionali alla mitigazione della crisi climatica, esse dovrebbero sostituire l’abuso di energia fossile, che deve essere abbandonata subito! Invece queste tecnologie sono applicate nell’ottica di diversificare le fonti di approvvigionamento.
Si tratta insomma di recuperare un lato meno discusso ma ben presente nei movimenti territoriali: quello della progettazione alternativa, che viene spesso portato avanti al fianco della resistenza. Ancora una volta, l’ecologismo espresso dall’esperienza del Collettivo di fabbrica GKN propone strumenti utili per uscire insieme dall’ambiguità e giocare all’attacco sul tema della transizione: una produzione trasparente e cooperativa di pannelli solari che non necessitano delle principali terre rare potrebbe essere un punto di svolta nella relazione politica tra movimenti ecologisti, soprattutto nel Sud Europa, e tecnologie rinnovabili. Insisto che il Sud può e deve acquistare centralità nelle geografie dell’ecologismo europeo contemporaneo. La crisi climatica dal 2019 diventa una questione di tempo e di urgenza. E non credo sia cedere al catastrofismo registrare le accelerazioni che stiamo vedendo in modo particolare e preoccupante nel Mediterraneo. Per questo dobbiamo dare una svolta produttiva, materiale, all’urgenza di agire.
Ci sono altri esempi positivi oltre GKN e in questa direzione. In primavera, ho seguito l’assemblea europea di una rete universitaria che si chiama EndFossil e che ha occupato decine di università in tutta Europa per rompere la relazione tossica tra università e compagnie fossili. L’aspetto che mi ha impressionato è che i gruppi politici più forti di questa rete si trovano nella penisola iberica – fatto del tutto inedito rispetto alle reti europee che ho frequentato, e particolarmente quelle ecologiste. Finalmente anche in Italia è arrivato EndFossil, con una occupazione /accampata in Sapienza durata diverse settimane e iniziative in altre università italiane a fine maggio. In autunno ci sarà una nuova ondata europea di occupazioni. Qua e là si sta ponendo il tema di come usare i saperi e i luoghi del sapere per produrre transizione dal basso, affiancando le rivendicazioni rivolte ai vari atenei. Questa sembra una direzione, una cifra “produttiva” dei movimenti contemporanei che mentre lottano mettono in moto altri mondi. E credo che questo abbia a che fare tanto con gli immaginari ecologisti di classe quanto con il riconoscimento delle differenti geografie. Riconoscere le differenze dentro la stessa Europa può essere un passo importante per decolonizzare anche le relazioni globali del movimento ecologista.
Immagine di copertina di Patrizia Montesanti. Immagini nell’articolo di Luca Mangiacotti (Pisa, corteo settembre 2022) e Gaia di Giacchino