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Usa al bivio #9: le manifestazioni di Washington

Testo e foto di Kami Fares sulla grande manifestazione di Washington contro il discorso di Netanyahu al congresso Usa. Fares è un narratore visivo italo-palestinese, autore di vari e premiati cortometraggi, fra cui “MinoTawra: exporting change”, sulla fine del regime di Ben Ali in Tunisia, vincitore del Prime Prize

Lo scorso 24 luglio uno dei tanti droni che sorvolano Washington DC mi mostra il bianco della White House e vicino un’oceanica componente rossa, in movimento, dagli spessi bordi neri. Quella macchia viva e multiforme, come gli stormi migranti in autunno, è composta da migliaia di manifestanti, accorsi nella capitale USA per formare quella Red Line da non superare, quella linea rossa già tracciata come monito e già oltrepassata troppe volte da Israele con la complicità di buona parte del mondo che conta.

Quella linea rossa che non si sarebbe dovuta attraversare in nome del diritto internazionale, dell’umanità e della dignità e che avrebbe dovuto essere tutelata dalla comunità internazionale. C’è tanta rabbia per strada, ma anche tanta speranza e creatività nel mostrare e comunicare il proprio disgusto per questa sagra dell’ipocrisia. Se i potenti del mondo vogliono restare indifferenti all’ abominio che si sta compiendo sotto i nostri occhi, ci dobbiamo pensare noi a essere quella voce e quell’argine.

La manifestazione del 24 luglio

Lo spesso bordo nero visto dall’alto è il gigantesco spiegamento di forze, composto da centinai di poliziotti vestiti nella tipica divisa nera americana. 200 sono appena giunti per l’occasione dal vicino stato di New York in supporto dei loro colleghi della Capitale federale. Tutti in tenuta antisommossa e con equipaggiamento da guerra spaziale.

Il corteo si è mosso da poco e già spruzzano in maniera indiscriminata spray al peperoncino su manifestanti e giornalisti, confermando la brutalità e tolleranza zero dimostrata in tutti questi mesi dalla polizia statunitense nei confronti delle oceaniche e diffusissime proteste generate dell’aggressione israeliana contro Gaza. Sembrerebbe che, seppur a un costo umano, e di umanità e sofferenza, immenso e inammissibile, questo genocidio sia servito in tutto il mondo, ma soprattutto qui negli USA, nel ventre dell’impero, a destare e rendere consapevoli molte coscienze, soprattutto di giovani, della situazione di oppressione e ingiustizia in cui versano i Palestinesi. Semi che stanno già germogliando e continueranno a farlo, questo sarà uno dei molti effetti boomerang che Israele ha innescato in questi 10 mesi.

Siamo qui oggi perché il Congresso USA sta accogliendo con tutti gli onori Netanyahu, il quale nel suo discorso ai rappresentanti della nazione più potente del mondo, oltre che più complice nel finanziare e armare questo genocidio, dà un ennesimo esempio di come vicende che possono cambiare le sorti del pianeta vengano gestite con propaganda, conclamate menzogne e ipocrisia.

La frase pronunciata al Congresso: «Give us the tools faster, and we’ll finish the job faster» (Dateci gli strumenti il prima possibile così che possiamo finire il lavoro più velocemente) può sintetizzare gli intenti dell’intervento. Dove con the job ci si riferisce alla pulizia etnica perpetuata da Israele: decine di migliaia di civili palestinesi uccisi, morti di stenti o malattie, sfollati, mutilati, orfani o nel migliore dei casi con traumi indelebili. Tuttavia, resta palese che uno stato figlio di un progetto colonialista non finirà mai il lavoro, nonostante le parole del suo rappresentante. Semplicemente perché lo porta avanti da quasi 80 anni ed è sempre più spudorato nel rivendicare la natura del progetto sionista e i suoi obiettivi: espansionismo colonialista e razzista che prevede uno stato di diritto per i soli cittadini identificabili secondo i canoni sionisti, mentre riserva per la popolazione nativa, ossia i Palestinesi, apartheid, occupazione e pulizia etnica.

Oltre il cessate il fuoco

Siamo veramente in tanti a gremire la Red Line per le strade di Washington, per cercare di dare a un conclamato criminale di guerra l’accoglienza che merita. Il problema sulla lunga distanza resta però la pace più che la guerra, perché quest’uomo e ciò che rappresenta non sono solo crimini di guerra, ma per la maggior parte del tempo crimini di pace o conclamata tale.

La pace che vivono i Palestinesi, fatta di ingiustizia endemica del sistema e di oppressione. Pace, libertà e dignità sono parole che non esistono da troppo tempo per loro, esattamente da quando è arrivato il sionismo. Speriamo che le bombe smettano di far rumore quanto prima, è ormai insostenibile la condizione a Gaza, questa è la priorità assoluta, ma non ci sarà comunque, su questi presupposti, pace per Gaza, né per la Cisgiordania, né per gli abitanti dei campi profughi, né per i prigionieri politici nelle carceri, né per tutti i Palestinesi,  soggiogati e asfissiati dall’occupazione e dalle sue infinite sfaccettature e conseguenze, dalla mancanza di diritti basilari e dalle sofferenze inflitte quotidianamente dall’oppressore.

Non può esserci pace senza giustizia, lo sappiamo tutti, sarebbe ora di ricordarlo a chi fa comodo dimenticare o strumentalizzare alcuni valori universali.

Israele non è più un pericolo solo per i Palestinesi, i suoi vicini o il Medioriente intero, ma è una di quelle società distopiche per cui il fine giustifica ogni mezzo e ha insito nel suo stesso compimento una matrice violenta, aggressiva, prevaricatrice, razzista e imperialista che sta portando il mondo intero, come già successo in passato, sull’orlo del precipizio.

GALLERIA di KAMI FARES

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Testo e foto di Kami Fares sulla grande manifestazione di Washington contro il discorso di Netanyahu al congresso Usa. Fares è un narratore visivo italo-palestinese, autore di vari e premiati cortometraggi, fra cui “MinoTawra: exporting change”, sulla fine del regime di Ben Ali in Tunisia, vincitore del Prime Prize.

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