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Squid Game: le disavventure della libertà
La serie coreana, diventata in poco tempo uno dei prodotti Netflix più visti di sempre, interroga in maniera inesorabile la natura spietata della nostra libertà di scelta.
Una storia spietata, dove in ogni momento un uomo è chiamato a decidere della vita di un altro uomo. L’autore dà un chiaro avvertimento: chi accetta le regole del gioco «dovrà lasciare dietro di sé una sequela di cadaveri e una scia di sangue. Molti esseri umani moriranno. Saranno per lo più vittime innocenti coinvolte in situazioni bizzarre». Potrebbero essere le parole di Hwang Dong-hyuk, regista di Squid Game, la fortunata serie sudcoreana che sta facendo discutere da settimane per il suo contenuto violento e per l’incredibile successo che ha riscosso. Sono invece le parole introduttive del libro Uccideresti l’uomo grasso? di David Edmonds, un saggio di analisi etica che si propone di affrontare una serie di dilemmi morali con il rigore della razionalità filosofica. Fra i diversi casi di scelta morale discussi nel libro, quello che gli dà il titolo è senz’altro il più famoso e deve la sua ideazione alla filosofa statunitense Judith Jarvis Thomson: «Siete su un cavalcavia che si affaccia su un binario, vedete un carrello ferroviario sfrecciare lungo i binari e, più avanti, cinque persone legate alle rotaie. C’è un uomo molto grasso appoggiato alla ringhiera che guarda il carrello. Se lo spingeste oltre la balaustra, piomberebbe di sotto e si schianterebbe sui binari».
Morirebbe di certo ma salverebbe i cinque sventurati. Il quesito a cui si chiede di dare una risposta è ovvio: uccidereste quell’uomo, per salvare gli altri? Argomentare a favore di questa scelta, o dell’opzione contraria, si rivela un complesso rompicapo, che costringe il lettore a seguire un percorso argomentativo fatto di sottili distinzioni concettuali, che muovendo dal grottesco contesto dell’esperimento mentale di Thomson si spostano poi a casi di vita reale. Resta ora da capire: che c’entra tutto questo con Squid Game? L’accostamento fra questo saggio di filosofia e il thriller coreano può forse suscitare qualche perplessità, ma è certo che al netto dei morti, del sangue, delle scariche di mitra, la serie è una sorta di roman philosophique – in formato televisivo – che deve la sua originalità ai molteplici quesiti morali nascosti al suo interno.
Per chi non avesse già familiarizzato con la serie, Squid Game è la storia di un gruppo di persone, afflitte in vario modo da problemi economici, tragedie esistenziali e marginalità sociale. Ognuna viene contattata da una misteriosa organizzazione, che offre l’occasione di vincere uno strabiliante premio in denaro. Per poter sperare di vincere il premio, bisogna prendere parte a una competizione, costituita da una serie di sei tradizionali giochi per bambini. La competizione si rivela presto una perversa macchina di tortura e di morte costruita per divertire dei cinici multimiliardari e, uscendo dalla cornice finzionale del film, per intrattenere con il fascino della violenza i 110 milioni di spettatori che l’hanno seguita su Netfix: le numerose inquadrature dove i “VIP”, gli spettatori del gioco, rivolgono lo sguardo alla macchina da presa, e dunque a noi spettatori, svolgono infatti una funzione di rispecchiamento per mettere seriamente a disagio chiunque stia morbosamente seguendo le vicende dei malcapitati, curioso di vedere chi sarà il prossimo a morire.
In questo “survival game” chi supera una prova passa alla successiva; chi perde, viene giustiziato (o muore in modo violento nel corso del gioco). La partecipazione al gioco è libera e volontaria, ma implica regole implacabili: una volta che si acconsenta a partecipare, non si può lasciare il gioco, salvo che la maggioranza dei giocatori non decida di sospenderlo. All’interno dell’isola dove si svolge la vicenda, vige infatti un formale egualitarismo. Tutti i partecipanti hanno lo stesso vestito, le stesse condizioni di gioco, lo stesso diritto di voto democratico e, in linea teorica, le stesse opportunità di vincere. In molti hanno attribuito alla serie un significato di critica sociale, una pista interpretativa suggerita anche da Hwang Dong-hyuk in una recente intervista, dove precisa che il suo è un atto di accusa verso l’ingiustizia sociale prodotta dal capitalismo: «sono convinto che l’ordinamento economico globale è fondato sulla disuguaglianza e che al 90% gli esseri umani sono convinti della sua profonda ingiustizia».
Bisogna dire che la critica al modello economico capitalistico non è probabilmente l’aspetto più convincente della serie, che si fonda su distinzioni sociali troppo elementari (grassi ricchi uomini d’affari contro poveri disperati assetati di denaro) per poter seriamente illuminare la complessa natura della società capitalistica. La rappresentazione della ricchezza come forma di depravazione non offre maggior aiuto, tantomeno il fastidioso inserto nella serie di un trito topos omofobico per cui uno dei ricchi carnefici è rappresentato secondo il cliché hollywoodiano dell’”omosessuale degenerato”, come se l’omosessualità concorresse a comporre il quadro di degrado morale del soggetto in questione.
L’originalità della serie e forse anche la chiave del suo successo, risiede piuttosto nella capacità di costruire un sadico “laboratorio morale” dove è messa alla prova la capacità umana di scegliere in situazioni di estrema costrizione. Quella di Squid Game è una società distopica, semplice e schematica, priva di un reale contesto storico e fatta di personaggi che non mostrano particolare complessità psicologica, adagiati come sono su alcuni classici stereotipi cinematografici: l’ingenuo d’animo buono, il leader di intelligenza superiore ma senza cuore, il delinquente violento, la ragazza debole e misteriosa, il vecchio indifeso. Questo contesto astratto e formalizzato, che davvero ricorda gli esperimenti mentali dell’etica analitica, si dimostra particolarmente adatto alla formulazione di questioni etiche, sullo stile di quelle poste dalla Thompson. È come se il regista, dopo aver attirato lo spettatore in una torbida trappola di tensione, ansia e violenza insensata, riuscisse inaspettatamente a proiettarlo in un’arena metafisica, dove si trova costretto a partecipare al vero “Squid game”, uno scivoloso dialogo interiore che si innesca di fronte alle provocazioni etiche del film. Agiamo davvero liberamente? Chi è vittima e chi carnefice in questa guerra di tutti contro tutti? Che senso ha il merito in una società viziata dalla disuguaglianza?
Fra le questioni che si collocano al centro dall’opera c’è proprio quella del “merito”. Squid Game può essere interpretato come una feroce parodia della “meritocrazia” e di come essa si incarna nella moderna società coreana, con la sua mancanza di protezioni sociali, di eguaglianza sostanziale, di mobilità sociale. Nel quarto episodio della serie, tanto per fare un esempio, questo nero sarcasmo verso il modello meritocratico emerge dalle parole del “Front Man”, il capo dell’esercito di aguzzini che controlla il gioco, quando in modo tragicomico descrive la competizione come una sincera possibilità di riscatto offerta alle vittime della disuguaglianza: «queste persone hanno sofferto la disuguaglianza e la discriminazione nel mondo reale. Stiamo dando loro un’ultima possibilità di combattere lealmente e vincere». Il mito del successo individuale e l’etica meritocratica a esso collegata, è presentata dal regista come una mistificazione, come un costrutto ideologico che, offrendosi come rimedio all’ingiustizia, finisce in realtà per coprire la vera causa delle diseguaglianze sociali. Rappresentando la vita come gara, l’ideologia meritocratica giustifica la disuguaglianza come condizione necessaria per dare alla società dei “vincitori”.
Il tema della disuguaglianza è dunque uno dei temi di riflessione che con maggior insistenza si trovano nella serie. Ma la sfida etica più difficile, quella verso cui convergono tutte le altre, si svolge nel perimetro di due proposizioni contrarie e paradossali: la prima è che le nostre libere scelte, a un’attenta analisi, si rivelano in realtà scelte obbligate, determinate da moventi fuori dal nostro controllo; la seconda che ogni azione, anche quando siamo travolti dalla paura, dall’istinto e dalle passioni, si manifesta alla fine come “scelta”, come atto libero, che ci condanna all’immersione nelle fredde acque del senso di colpa.
Da un lato la falsa libertà scelta dei giocatori. Liberi di andarsene dal gioco, inevitabilmente vi fanno ritorno, senza costrizioni, nel pieno esercizio del loro arbitrio; ma evidentemente spinti dalla disperazione, spinti da una necessità che è oltre la loro possibilità di scegliere, persino quando si tratta di scommettere sulla propria nuda sopravvivenza. D’altro lato, la condanna a scegliere. Quando sono presi nella morsa della scelta fra la propria vita e quella di un altro concorrente, i protagonisti del gioco scelgono (quasi tutti) la propria salvezza. A volte con metodi subdoli, abbassandosi alle più orribili cattiverie. Altre volte in modo sottile, come nell’episodio in cui la giovane Ji-yeong si sacrifica per salvare l’amica Sae-byeok, semplicemente accettando che l’altro rinunci alla propria vita, senza dissuaderlo dal proposito suicida. Tuttavia anche l’alibi più forte, quello dell’istinto di sopravvivenza, sembra insufficiente per liberarli dal senso di colpa. L’eroe della serie, Seong Gi-hun dopo aver superato ogni prova, dopo essersi dimostrato l’unico concorrente caritatevole, capace di rinunciare alla propria sicurezza per assecondare sentimenti altruistici e compassione, non riesce a spendere il denaro che ha vinto, non riesce più a vivere, resta incastrato in una dimensione esistenziale insensata, fra le strade piovose e solitarie di Seoul.
Questa riflessione tragica sulla natura spietata della nostra libertà di scelta, fa risaltare, per contrasto, l’insufficienza dei modelli di libertà che dominano il nostro dibattito pubblico. Tutti quei discorsi prelogici sulla libertà, concepita infantilmente come possibilità di esercitare il proprio arbitrio indipendentemente dalle conseguenze indirette. In una prospettiva etica, se si può dire tale, capace nella migliore delle ipotesi di concepire soltanto l’effetto immediato delle scelte individuali. Oppure le varie forme “intimiste” di libertà, intesa come disvelamento del “vero Sé” o come rifugio nel mondo fatato dei valori dell’infanzia, di cui il personaggio del vecchio e malato Oh Il-nam è una geniale caricatura, messa in atto nelle inquadrature in cui l’anziano, che si scoprirà essere lo spietato e cinico organizzatore del gioco, si aggira fra i cadaveri con sguardo sognante, cercando di rivivere i momenti felici della sua infanzia. Un’ossessione che lo accompagna persino sul letto di morte dove confessa – come una sorta di grottesco Citizen Kane – che il denaro non rende felici e che partecipare all’atroce competizione gli ha permesso di rivivere i magici momenti di felicità della sua fanciullezza.