MONDO
#SOSColombia: perché non si può essere indifferenti
In Colombia si spara indiscriminatamente sulla folla. La polizia e le squadre antisommossa sembrano essere a caccia di vittime, si muovono tra le strade delle città catturando manifestanti, massacrano di botte chiunque sia in giro, non curandosi delle centinaia di cellulari che riprendono costantemente quello che succede, delle urla dai balconi, della presenza delle Nazioni Unite e delle organizzazioni che difendono i diritti umani
«Assassini!ı, «Perché ci state uccidendo??», «L’hanno preso! Lo stanno portando via!», «Aiuto, Dio mio! Aiuto!», sono lancinanti le urla che si ascoltano nelle centinaia di video che stanno circolando dal 28 aprile, prima giornata di sciopero nazionale in Colombia.
Alla musica, i cori, i cartelli e alle bandiere si è deciso di rispondere con repressione, violenza e omicidi. Nelle maggiori città colombiane le manifestazioni si sono convertite in scontri, con un bilancio di scomparsi, feriti e assassinati che indigna e spaventa. È bene contestualizzare i recenti avvenimenti per comprenderne il quadro generale.
È da più di 60 anni che un conflitto scuote e ferisce questo Paese, una guerra che inizia nelle campagne e che vede la gestione del territorio al centro. Negli anni, sono stati molteplici gli attori che si sono confrontanti per controllare le zone strategiche del territorio e per esercitare il proprio potere. Sono innumerevoli le stragi, i sequestri e le sparizioni che si sono susseguiti e che hanno segnato per sempre la storia della nazione.
Guerrillas, paramilitari, esercito, narcos hanno seminato il terrore nelle città e nelle zone rurali di tutto il paese, utilizzando la paura, le armi, il traffico illecito e il reclutamento illegale delle giovani e dei giovani, soprattutto delle campagne, per rimpolpare le file delle proprie “truppe”. Un ciclo infinito di morte, dolore, dove l’ideologia ha lasciato spazio al caos. Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato è costato la vita a troppe persone, abitare un territorio considerato strategico ha causato lo sfollamento di migliaia di cittadini, difendere l’ambiente e i diritti umani, una condanna a morte sicura.
Ogni anno, il numero di leader sociali che viene zittito a suon di colpi di pistola è sconcertate. Il conflitto si percepisce in modo più palpabile nelle campagne, dove le comunità contadine, indigene e afrodiscendenti vengono lasciate a sé stesse, senza una reale tutela di vita degna e sicura. Nonostante siano tante le organizzazioni nazionali e internazionali che vigilano e accompagnano le popolazioni rurali, i ricorsi e gli sforzi non sembrano mai sufficienti a stabilizzare un benessere reale e costante.
Uno spiraglio di luce si è aperto nel 2016 con la firma degli accordi di pace tra il Governo Colombiano e le Farc, una delle formazioni guerrigliere più influenti e storiche. Siglato all’Havana, sotto gli occhi speranzosi e ammirati della comunità internazionale, l’accordo è valso all’allora presidente Manuel Santos un Nobel per la Pace. Tutta la speranza riposta in questo incredibile traguardo è iniziata a crollare con il Referendum che si è tenuto nello stesso anno. Il 50,2 % dei colombiani accorsi alle urne ha votato NO alla pace. NO. Anche se può suonare incredibile, forti campagne di discredito e la maggioranza dei voti concentrata nelle grandi città, hanno fatto si che il risultato facesse perdere quel SI che sembrava scontato.
A far crollare in forma quasi definitiva le speranze di chi nella pace crede fermamente, è stata l’elezione nel 2018 dell’attuale presidente Ivan Duque, il delfino politico dell’odiato Alvaro Uribe, ex presidente di estrema destra, accusato di corruzione, censura, massacri e di avere stretti legami con il narcotraffico e il paramilitarismo.
Con misure sempre più impopolari e un evidente abbandono dei progetti inclusi negli accordi di pace dell’Havana, la presidenza di Duque ha aperto una nuova fase di violenza nel Paese. Solo nello scorso anno sono stati uccisi 310 leader sociali e 64 ex combattenti delle Farc. Sono stati compiuti 35 massacri e una ventina di persone ha perso la vita durante le manifestazioni del 2020. Sono numeri che corrispondono a persone, a famiglie distrutte dal dolore, a bambine e bambine rimasti orfani, a organizzazioni sociali che si sgretolano, a presidi di democrazia che crollano.
I motivi per manifestare in questo paese è evidente che non manchino. Se aggiungiamo alla violenza una disuguaglianza sociale tra le più ampie al mondo, una svendita dei territori biodiversi alle multinazionali e una riforma fiscale che incrementa i prezzi dei maggiori beni di consumo… eccoci allo sciopero generale di quest’anno.
Ritorniamo al 28 di aprile 2021, una manciata di giorni fa. Nelle più grandi città si radunano studentesse e studenti, insegnanti, camionisti, sindacati, associazioni, madri e padri di famiglia, collettivi femministi, lgbtqi, artisti, contadini, indigeni, afrocolombiani. L’arte la fa da padrona. Musica, danza, teatro, marionette, cartelli, travestimenti, perché è la risposta più sana al dolore, perché è solo con la cultura e con la creatività che si può dimostrare quanta speranza c’è ancora.
Poi il caos. Inizia il lancio indiscriminato di lacrimogeni e proiettili di gomma, alcune persone rimangono ferite in varie parti del Paese. Inseguimenti, fermi, pietre, vetrine spaccate, manganellate e ancora lacrimogeni. I comuni iniziano a emanare decreti per scoraggiare gli assembramenti e il prolungamento dello sciopero. Coprifuoco alle 3 di pomeriggio.
Chi non ci sta rimane in piazza, continua a cantare, ad accendere candele e a inneggiare a un cambio radicale di rotta. La violenza si fa più forte, le persone vengono caricate di peso su dei camion non identificati, si urla il proprio nome e il numero di documento, nel caso non si dovesse tornare a casa. Anche chi è con la divisa di varie organizzazioni a controllare che vengano rispettati i diritti dei manifestanti viene aggredito e portato via di peso.
A Pasto, nel sud del Paese, vengono sequestrate 250 persone che stavano prendendo parte alle manifestazioni pacifiche del 29 di aprile, trattenuti illegalmente per ore in un palazzetto dello sport, vengono schedati e minacciati. Non può finire qui. Si scende in piazza di nuovo, ovunque. Ed è a Cali, ancora nel sud del Paese, che i fatti da gravissimi diventano indescrivibili.
Si spara indiscriminatamente sulla folla, questa volta non lacrimogeni, non proiettili di gomma ma proiettili veri. La polizia e le squadre antisommossa sembrano essere a caccia di vittime, si muovono tra le strade delle città catturando manifestanti, massacrano di botte chiunque sia in giro, non curandosi delle centinaia di cellulari che riprendono costantemente quello che succede, delle urla dai balconi, della presenza delle Nazioni Unite e delle organizzazioni che difendono i diritti umani.
Il presidente annuncia il ritiro della Riforma fiscale ma avanza con la Riforma Pensionistica e Sanitaria. A questo punto però le manifestazioni assumono anche una presa di posizione dei cittadini sui fatti degli ultimi giorni, le madri dei ragazzi uccisi urlano di dolore, la gente si inginocchia, prega, si accendono candele per onorare la vita di chi è stato assassinato.
Arriva la censura. Internet “scompare” in varie zone di Cali, si registra tutto comunque, da dove si può. Le riprese che riescono a essere condivise parlano chiaro: l’orrore continua. Anche le immagini che arrivano dalla cittadina di Buga sono strazianti, un elicottero sorvola le case e dall’alto si spara sui cittadini inermi. A Pereira, nel centro del Paese, perdono la vita altri due studenti. Lucas Villa, qualche ora prima stava ballando a ritmo dei tamburi tra le strade della città, un video lo ritrae mentre grida «Qui in Colombia ci stanno uccidendo». Lotta tra la vita e la morte per aver ricevuto otto colpi di pistola, sparati da una macchina blindata
“NOS ESTÁN MATANDO EN COLOMBIA” Lucas Villa #NosEstanMantando #NosEstanMasacrando #LUCAS pic.twitter.com/iEFOTaOAL5
— alejocalderon (@alejocalder0n) May 6, 2021
Le Nazioni Unite prendono posizione attraverso i propri rappresentati nel Paese, inammissibile l’uso sconsiderato e repressivo della violenza da parte delle forze dell’ordine, inammissibili gli ordini del Governo, inammissibili un ferito, un sequestro, una vittima in più.
Una guerra nella guerra, che stavolta ha come scenario le grandi città, che stavolta è sotto gli occhi di tutti, che stavolta è registrato, che stavolta non può non essere condannato.
Il bilancio, secondo le ultime pubblicazioni della stampa indipendente e delle organizzazioni nazionali e internazionali che stanno monitorando la situazione è di 1700 casi di abuso da parte delle forze dell’ordine, 831 detenzioni arbitrarie, 10 vittime di abuso sessuale da parte della polizia, 37 omicidi per mano della forza pubblica, 379 scomparsi.
Manifestiamo tutto il nostro appoggio alle sorelle e ai fratelli colombiani che sono scesi in piazza in questi giorni, che hanno temuto per la propria incolumità, che hanno subito violenza, che sono stati sequestrati, torturati e uccisi. «Se un popolo decide di protestare nel bel mezzo di una pandemia globale, è perché il governo è più pericoloso del virus», così recita un cartello che si agita nella marcia, così è.
Fonti: Indepaz, Temblores Ong, Revista Hekatombe, El Espectador.
Immagine di copertina e nell’articolo: Casa Fractal Cali