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CULT
Soderbergh on Top of the Game
“High Flying Bird” è l’ultimo splendido film di Steven Soderbergh, girato interamente con un Iphone 8 e distribuito solo in streaming da Netflix. Ma dietro a un racconto a tema sportivo che mostra i complessi negoziati tra i giocatori e le società di basket professionistico americane che bloccarono la stagione NBA del 2011, vi è una riflessione sullo statuto contemporaneo dell’immagine digitale nell’epoca della disintermediazione della sua circolazione
Potremmo dire, con una metafora sportiva, che il cinema di Steven Soderbergh ama vincere fuori casa, su campi poco battuti o addirittura refrattari al racconto audiovisivo: lo fa dotando l’immaginazione di gambe ben piantate nella realtà, sperimentando tecnologie ancora inedite sul grande schermo, e più in generale percorrendo la via laterale di un sottile sovvertimento, in primis verso la vocazione esclusiva all’entertainment. A dispetto dell’autorialità che si tende ad ascrivergli e che in realtà lo riguarda fino a un certo punto, il merito va anche alle molte, ottime sceneggiature su cui ha saputo orientare lo sguardo nel corso degli anni. Il suo trentesimo lavoro, High Flying Bird, interamente girato con un Iphone come il precedente Unsane e distribuito da Netflix, è stato scritto da Tarell Alvin McCraney, drammaturgo e autore premio Oscar per Moonlight, e potrebbe rientrare nella cerchia ristretta dei film di ambientazione sportiva che esplorano il dietro le quinte, il fuori(dal)campo dai più ignorato, che di uno sport detta le dinamiche culturali, economiche e politiche. Anche per questo, ben prima delle fantasiose istanze meta che qualcuno gli attribuisce – film sul rapporto con il cinema in quanto industria, forse con lo stesso Netflix –, High Flying Bird ha il merito di raccontarci con lucidissima concretezza la pallacanestro americana come non l’avevamo mai vista. O quasi.
Il film si apre con una conversazione letteralmente “agonistica”, un uno-contro-uno che invece di svolgersi in un playground trova il suo campo al tavolo di un abulico locale in un qualsiasi grattacielo newyorkese. Ray Burke, manager geniale e smaliziato, fa la paternale al suo assistito Erik Scott, scelta n. 1 dell’ultimo draft, per essersi fatto raggirare accettando un prestito con un altissimo tasso d’interesse. Il dialogo, per chi non segue la Nba, oltre ad avere un linguaggio incomprensibile può portare a credere che Erik sia semplicemente un bamboccione (non lo pensiamo, ad esempio, di tutti i calciatori nostrani?), incapace di gestire il proprio privilegio.
Ray Burke direbbe “Why do you think so small?” (“Perché pensi così in piccolo?”): bisogna infatti andare oltre le scelte e gli atteggiamenti individuali e guardare al sistema, in questo caso il sistema-Nba. High Flying Bird è un film sul “game on top of the game”, ovvero sul gioco sopra il gioco (tema già trattato nel contesto della Nfl da Ballers, show televisivo con protagonista Dwayne “The Rock” Johnson). Per questo l’evento all’interno del quale si dipana la narrazione è il cosiddetto lockout. Il lockout si verifica prevalentemente quando non c’è accordo tra i proprietari delle franchigie e la Player Association, che rappresenta tutti i giocatori della lega, sulla ripartizione degli introiti legati al basket, come i diritti televisivi, e la stagione sportiva viene bloccata. Nessuna partita, nessun introito per i proprietari e nessuno stipendio per i giocatori. Non va confuso con uno sciopero, perché ad esempio nell’ultimo lockout sono stati i proprietari a puntare i piedi e impedire che l’inizio della stagione e la riaccensione di quella mastodontica macchina da soldi che è la Nba.
Il secondo indizio su dove guardare sta nello status dei giocatori protagonisti del film: sono rookie, ovvero al primo anno nella lega professionista. Non a caso il film è inframmezzato dalle testimonianze di giocatori reali sulla propria esperienza di rookie. Sono persone che, pur agevolate nell’accesso a high school e college grazie esclusivamente alle loro performance sportive, durante questi anni non possono percepire uno stipendio né guadagnare dalle sponsorizzazioni. La stragrande maggioranza dei giocatori Nba sono afroamericani e molti di loro hanno nel basket la loro unica opportunità di emancipazione. Fino al primo stipendio Nba sono soggetti il cui unico capitale è il proprio corpo e, come dice Ta-Nehisi Coates, «la vita dei neri vale poco, ma in America i corpi dei neri sono una risorsa di valore incomparabile». I rookie sono il vero potere contrattuale dei proprietari durante i lockout, perché se i contratti milionari delle grandi star permettono loro di non avere alcuna fretta di incassare l’assegno del mese, di sei mesi o magari di un anno, non vale lo stesso per quelli che non sono mai stati pagati e magari hanno fretta di comprare una casa alla madre fuori dalla inner city (uno dei rimproveri di Burke a Scott).
È proprio a partire da queste premesse che si articola la scrittura di McCraney, la quale, come il suo protagonista, non si pone soltanto il problema di conoscere e mostrare il contesto dentro cui si muove, ma più puntualmente semina le condizioni per tentare di innescarne un rovesciamento. Potremmo dire infatti – e da qui la falsa pista di un’oggettiva verbosità – che High Flying Bird si dipana su due livelli paralleli e contrari: Ray e la sua assistente Sam abitano al contempo apparenza e sostanza, e capiscono presto che mentre sembrano agire (e parlare) all’interno della norma, possono mettere a frutto i propri talenti per scavare la galleria che ne provocherà l’inatteso smottamento.
Che questa coscienza diventi vera e propria operazione, non deve certo destare stupore in un film di Steven Soderbergh, il cui cinema è una galleria pressoché inesauribile di personaggi strateghi, capaci di vedere dall’alto il mondo dentro cui vivono, e che molto spesso vorrebbe vederli addomesticati, o addirittura incastrarli. Così, quando a tre quarti di film il tempo torna indietro di 48 ore per colmare alcune lacune informative sulle mosse di Ray, abbiamo definitiva conferma che non sono i fatti a fare una storia, ma più puntualmente l’insieme degli eventi che si nasconde sotto ai fatti, e la capacità che alcuni hanno di leggerli, o orientarli, con maggiore lucidità di chi detiene il controllo del sistema.
High Flying Bird dà insomma un’altra possibilità alla storia, a quel lockout del 2011 che ha visto cedere la Player Association alle pretese dei proprietari delle franchigie. Il peccato capitale di quella negoziazione è stata la realpolitik del sindacato dei giocatori. “The problem is that we run out of stories. What’s the story here?” (“Il problema è che siamo a corto di storie. Qual è la storia qui?”), chiede Sam a Ray incalzandolo. Il film va addirittura al di là del riscatto e della vittoria di chi ha poco potere contrattuale: l’idea di Ray infatti è quella creare una lega di proprietà dei giocatori, dove le partite siano trasmesse in streaming su Netflix o su Youtube. Ovvero la presa della propria immagine (ora in mano alla Nba e dunque soggetta a divisione dei ricavi tra giocatori e proprietari), o meglio ancora la “ripresa” della propria immagine, tale da tagliare, per usare un termine cestistico, i proprietari dal gioco.
Una rissa verbale a colpi di tweet, una partita combinata nonostante i divieti del lockout, e ancora la ripresa amatoriale di un ragazzino condivisa attraverso uno smartphone a destare scompiglio nel dibattito televisivo: il ruolo dei self media come dispositivo di racconto, qui astutamente manipolato, offre la sponda per inquadrare anche le scelte tecniche ed estetiche di Soderbergh. Girare il film con l’Iphone 8 non risponde soltanto a un mero criterio di contenimento del budget: significa ribadire con il filtro non umano di un grandangolo spinto – lo stesso presente, in chiave psicologica, in Unsane – che la realtà rischia di diventare una superficie completamente visibile, nella quale la dialettica tra controllo e cambiamento, a partire dalle dinamiche di potere, risulti appiattita sulle sue asimmetrie. A meno di inventarsi qualcosa.
È molto divertente osservare come Soderbergh inquadri gli spazi, costruendo ironici parallelismi tra figure in primo piano e anonimi sfondi newyorkesi, trasformando i dialoghi in veri e propri schemi di gioco, ma soprattutto collocando Burke nel fuoco di un sistema simbolico di oggetti – basti osservare il campo e controcampo con il suo capo, borioso e poco lungimirante – delle cui istanze egli si fa mediatore iperconsapevole. Né dentro né fuori, ma sempre, come lui stesso dice, “sulla soglia”. Non riconciliato, come ricordano i testi delle canzoni di Richie Havens che aprono l’inizio e la fine del film, e certo lo stesso libro che Ray lascia imbustato a Erik, una bibbia per il suo futuro – non sveleremo il titolo –, da scartare quando sarà il momento.
Dicevamo però che è il sistema ad essere il centro del film e un sistema che costruisce asimmetrie strutturali non può essere ribaltato da un eroe e la sua crociata solitaria. La strategia di Ray e Sam si dimostra in definitiva solo un bluff per riguadagnare l’inerzia nella trattativa e far concludere il lockout il più rapidamente possibile: missione riuscita, ma il sistema è rimasto invariato e tutte le pedine hanno ripreso il proprio posto. Rimane l’amarezza per quel progetto così ambizioso che aveva scosso tutto il mondo dell’Nba. Il cinismo tuttavia non ha mai fatto parte del cinema di Soderbergh che, in uno scambio di battute fra due proprietari, slega le potenzialità dell’evento dal suo esito e quindi dalla sua chiusura. Parlando di una partita organizzata a Las Vegas uno tenta di rassicurare l’altro dicendogli “I don’t think Ray Burke put this together” (“Non credo sia stato Ray Burke ad averlo architettato”), ma l’altro con sguardo cupo risponde “That would be the bad news. That would mean this thing is out there breathing on its own” (“Questa sarebbe la cattiva notizia. Significherebbe che questa cosa è là fuori che respira da sola”). E mentre Ray scala le gerarchie della corporation, viene licenziato da Erik, forse pronto, insieme ad altri giocatori, a riappropriarsi della propria immagine.