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Slavoj Žižek, o il più sublime degli isterici hegeliani

Dai suoi primi libri come “Hegel e il significante”(1980) o “L’isterico sublime”(1988) fino ai più recenti “Meno di niente”(2012) o “Il contraccolpo assoluto”(2014) Slavoj Žižek ha sviluppato un confronto decennale con il pensiero di Hegel. Tuttavia il lascito più importante della filosofia hegeliana nel suo pensiero non deve essere ricercato nel contenuto ma nella particolare forma del suo stile teorico

Partire dall’immediato, dal corpo, dalla sensazione, dal proprio posizionamento: «parlo in quanto…» e via di dettagli della propria biografia o della propria identità. Sembra essere questo l’adagio a cui il pensiero critico contemporaneo non riuscirebbe a sfuggire: la premessa del proprio enunciato teso a svelare la propria posizione di enunciazione. Non si può prendere parola senza prima aver chiarito da che posizione si parla. D’altra parte non è vero che l’universalità del discorso disincarnato è un inganno? Lo stesso enunciato «astrattamente identico» non può forse assumere significazioni «completamente differenti» a seconda di chi è colui che lo pronuncia? Persino Donald Trump dice di stare dalla parte della libertà esattamente come quelli che chiedono la sanità pubblica e gratuita durante una pandemia. E tuttavia il proprio posizionamento concreto – cioè la premessa, che dovrebbe svelare l’astrattezza del proprio discorso – rischia sempre di scivolare sulla buccia di banana di quello che non dice. Perché c’è sempre qualcosa che non viene detto, c’è sempre un fuoricampo – ci insegna il cinema – che inquadra l’immagine (la partizione dell’immagine non è nient’altro che la partizione di quello che sta fuori dall’immagine). C’è sempre un concreto che sta prima del concreto, e poi un altro ancora, e poi un altro ancora… e così via all’infinito.

È per quello che la premessa che vorrebbe ritornare a una presenza prima che dia ragione dei propri fondamenti è sempre un inganno: vorrebbe rigettare l’irrequietezza e il punto cieco che invece caratterizza ogni discorso. La premessa, come meta-discorso che inquadrerebbe il discorso che andremo a compiere, è a tutti gli effetti impossibile. L’inizio non c’è: ci siamo già da sempre dentro. Nella prefazione della Fenomenologia dello spirito dove si enuncia quella concezione hegeliana circolare e mediata dalla verità, si dice che l’Assoluto solo alla fine è ciò che è in verità: un destino ben bizzarro per quel termine che invece starebbe proprio a indicare il suo essere “sciolto” da ogni legame e da ogni implicazione. L’Assoluto invece queste implicazioni e mediazioni deve saperle attraversare: per trovare sé stesso. Il punto di vista che sostiene di poter fare la premessa al proprio discorso, di aver fatto tabula rasa di tutte le proprie implicazioni – come capita oggi a chi si ostina a trovare un momento di scaturigine del pensiero proprio in un elemento extra-discorsivo, e magari nel farlo ammantandosi di materialismo o realismo – è quello invece di cui bisognerebbe essere maggiormente sospetti. Il problema di ogni principio primo, dice Hegel, è che vero tanto quanto falso (ed è falso proprio per le stesse ragioni per cui è vero). È il massimo dell’astratto proprio laddove si illude di essere il massimo del concreto.

E allora «con che si deve cominciare la scienza» come recita una delle sezioni del primo volume della Scienza della logica? Tanto vale, in luogo della premessa che vorrebbe mettere in sicurezza il proprio discorso facendo un passo al di fuori di esso, partire da una cosa qualunque. «Mi dica la prima cosa che le viene in mente» dice Freud alla sua paziente. O partiamo dalla prima cosa che ci troviamo di fronte agli occhi: una merce, dice Marx, in un mondo che non è nient’altro che un’immane raccolta di merci e per cui – letteralmente! – una cosa vale l’altra. E non perché quello sia il principio: d’altra parte una merce non dice niente di sé stessa in qualunque modo ci possiamo mettere a guardarla e non è certo essa il principio primo che ci fa comprendere il capitalismo. E un sogno – dice Lacan con buona pace di chi crede che nascondano chissà quale archetipo o quale segreto – non ha nessun valore in più di una frase qualunque della propria lingua. Per pensare si inizia… da qualunque cosa.

Si potrebbe dire che la matrice hegeliana del pensiero di Slavoj Žižek stia proprio qui: nella forma più che nel contenuto della sua filosofia, per quanto possa essere paradossale associare a Hegel una filosofia che mette insieme Schelling e Kung Fu Panda, Lacan e una disquisizione sulla forma delle toilette dei vari paesi europei, Heidegger e una barzelletta sporca montenegrina. Il filosofo di Ljubljana non parte da un concetto e dalla necessità del suo svolgimento – non parte cioè da una premessa – ma dal primo oggetto che ci si trova di fronte agli occhi in quella spazzatura a cielo aperto che è «la cultura del tardo-capitalismo» dove jamesonianamente tra la merce e l’artefatto culturale non c’è più alcuna differenza. Partiamo «dalla prima cosa che ci viene in mente» e da lì proviamo a metterla in tensione a partire dalle sue contraddizioni… ed ecco finiremo a parlare di un’altra cosa e poi di un’altra ancora, e poi di un’altra ancora e così via. Si dice spesso che Žižek nei suoi libri spiegherebbe Lacan o Hegel a partire da degli esempi presi dalla cultura pop, come fa quella filosofia che si vorrebbe più à la page solo perchè è più a suo agio nel mondo aziendale dei rotocalchi o della pubblicità. Niente di più lontano dal vero: Žižek dice spesso, affatto seriamente, che la sua filosofia è sempre stata vicina all’idea di sistema. Quelli che a prima vista sembrerebbero esempi, sono in realtà dei veri e propri attraversamenti concettuali, che mettono proprio in crisi quella partizione tra alto e basso secondo cui sarebbe possibile spiegare un concetto filosofico “alto” attraverso l’esempio della cultura “bassa” o pop.

Il problema è proprio che l’esempio… non esemplifica nulla del concetto. Quest’ultimo semmai non può che vivere attraverso i suoi continui processi di estrinsecazione, che però sono anche inseparabili dal suo tradimento, dalla sua mistificazione, dal suo fraintendimento. Se volessimo spiegare che cos’è l’oggetto a lacaniano – uno dei termini più enigmatici per i lettori di Lacan – sarebbe davvero utile spiegarlo attraverso un film di Lubitsch, una commedia erotica degli anni Settanta, una pubblicità di una birra o un romanzo di Henry James? Non solo il concetto non verrebbe davvero spiegato attraverso questi esempi, ma la sua supposta “chiarezza” di cui si sarebbe dovuto avvantaggiare l’esempio pop, finisce ben presto per creare ancora più confusione. È per quello che proviamo quella strana sensazione di stordimento quando arriviamo alla fine di un libro di Žižek, in cui al termine di questa inarrestabile girandola di esempi ci sembra di aver capito ancora meno di quanto già non sapevamo all’inizio. Il problema è che la nostra comprensione del concetto nel frattempo si è spostata, mutata dall’attraversamento di queste figure. Quello che ci resta – come recita il sottotitolo del suo libro più famoso e che rimane probabilmente ancor’oggi il suo migliore, Il soggetto scabroso – è il «centro assente» di quella consistenza concettuale.

Perché quello che tiene insieme il pensiero di Hegel e la psicoanalisi lacaniana nell’opera di Slavoj Žižek sta proprio in questa consapevolezza che il concetto non sia una consistenza da cui partire e che progressivamente deve diventare sempre più chiara e sempre più coerente nello svolgimento di un discorso, ma che sia il «centro assente» che viene “disegnato” da questi continui attraversamenti concettuali che prendono corpo solo nell’attraversamento delle proprie contraddizioni. Il pensiero hegeliano, e poi qualche decennio dopo la psicoanalisi freudiana e il marxismo, hanno inaugurato una nuova forma di pensiero che non prende più corpo attraverso l’accumulo e l’aggiunta di sempre nuovi tasselli di un sapere positivo (che alla fine, attraverso i secoli, costituiranno la grande cattedrale del sapere), ma tramite l’attraversamento di contraddizioni e di momenti di défaillance. È l’idea che il sapere non stia in quel discorso che noi esplicitamente pensiamo di enunciare riguardo a noi stessi, ma in quel punto cieco che rimane fuori campo: in quello che la premessa si dimentica di dire. È nel sintomo che un’altra idea di sapere inizia finalmente a prendere corpo: ma si tratta di un corpo puramente negativo, senza sostanza, di cui non esiste che una verità che però non emerge nel detto ma soltanto negli attraversamenti «del fatto che si dica». «Mi dica la prima cosa che le passa per la testa… qualunque cosa mi dirà, sia essa reale o inventata, vissuta o immaginata, qualcosa di questa verità, quando meno se lo aspetta, emergerà». È lì che qualcosa di un concetto, nel punto cieco di un discorso, prenderà forma.

 

Immagine di copertina: Wassily Kandinsky, Stars, 1938