MONDO
Alberto Negri: “Siria, aperta nuova fase di guerra”
Siamo ormai entrati nel settimo anno della guerra siriana ma nonostante la sconfitta del Califfato, la pace è ancora lontana. Le mosse della NATO, il nuovo protagonismo di Israele e le mire espansionistiche della Turchia sembrano aver inaugurato una nuova fase del conflitto più intricato degli ultimi anni. Per provare a vederci chiaro abbiamo rivolto alcune domande ad Alberto Negri, storico corrispondente di guerra ed esperto di questioni mediorientali.
Il vero scopo di questo raid – che non ha avuto alcun impatto sui rapporti di forza sul terreno – è stato dare una risposta alla fine del primo capitolo della guerra siriana, che si sta chiudendo in questi mesi con evidente vittoria del regime di Assad, sostenuto dalla Russia e dall’Iran. Ma c’è anche la questione della spartizione in zone di influenza del paese, venuta fuori dal processo negoziale di Astana tra Turchia, Russia e Iran, da cui gli occidentali sono stati tagliati fuori. Ci sono quindi due motivi: uno militare, determinato dal fatto che ormai Bashar al-Assad ha vinto la guerra, l’altro politico, ossia che le fette di torta delle zone di influenza sono state fatte dai russi e non dagli occidentali. Questo però è solo l’esito della prima parte della guerra siriana. Un conflitto che, non dobbiamo mai dimenticarlo, ha avuto la caratteristica fondamentale di essere diretto verso il più grande alleato dell’Iran, che ne è il vero bersaglio. Tant’è vero che abbiamo visto nelle ultime settimane i raid israeliani contro le postazioni militari iraniane in Siria.
Nel 2017, dopo il collasso territoriale del sedicente Stato Islamico, gli osservatori più ottimisti auspicavano una relativamente rapida risoluzione del conflitto siriano. Nel 2018 invece, abbiamo osservato una ripresa dell’iniziativa turca, mentre Israele oramai rivendica apertamente i propri raid sul territorio siriano. Che caratteristiche avrà questa nuova fase del conflitto?
Dal punto di vista militare io vedo un maggiore coinvolgimento di Israele, per due ragioni. La prima è quella di contrastare la presenza iraniana in Siria e soprattutto l’avanzamento degli iraniani verso le alture del Golan. La seconda è quello di impedire il rafforzamento di Hezbollah in Libano, dove gli stessi israeliani durante il conflitto del 2006 vennero inchiodati al confine. Molti analisti sostengono che uno dei prossimi capitoli della guerra medio orientale potrebbe essere un nuovo scontro tra Hezbollah e Israele. E ci sono tutti i presupposti perché questo possa avvenire, basti pensare che il conflitto del 2006 esplose per una serie di provocazioni reciproche. Mi sento di escludere una guerra aperta con l’Iran, ma bisogna fare attenzione alla tensione diplomatica che in queste ore sta emergendo attorno all’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Trump, il 12 maggio, vorrebbe ritirarsi dall’accordo su pressione di Israele e Arabia Saudita, mentre gli europei – Macron e Merkel – stanno cercando di fargli cambiare idea (la visita a Washington del presidente francese Macron sembra essere stata da questo punto di vista un buco nell’acqua, mentre Angela Merkel è attesa oggi, 27 aprile, negli Stati Uniti, ndr). Per gli iraniani questo accordo è fondamentale e li vedremo probabilmente reagire ad una sua eventuale messa in discussione.
Si tratta di un accordo internazionale stretto tra i paesi del cosiddetto P5+1 (i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania, ndr) con l’Iran e non di un accordo bilaterale tra Iran e Stati Uniti, per cui un eventuale ritiro americano non ne comporterebbe automaticamente l’annullamento.
Si capisce però molto bene quale sarà il secondo capitolo della guerra siriana. Da un lato sarà un conflitto fatto di azioni militari di Israele nei confronti dell’Iran sul territorio siriano e dall’altro si ricorrerà ad una sorta di diplomazia punitiva per provare ad imporre nuove sanzioni a Teheran.
Detto questo bisogna anche parlare degli altri fronti di questo conflitto tra USA-Israele-Arabia Saudita e l’Iran. Uno di questi è lo Yemen, dove i sauditi hanno ricevuto massicci aiuti americani ma non riescono a vincere la guerra. Su questo fronte, i sauditi sono schierati principalmente contro i ribelli Houthi, a loro volta alleati di Teheran e tensioni in Yemen si trasferiscono in Siria e viceversa. Bisogna stare molto attenti alle possibilità di escalation di questi due conflitti.
Il Rojava è stato esaltato in Occidente come baluardo contro l’ISIS, salvo poi venire di fatto abbandonato durante l’offensiva congiunta condotta nel cantone di Afrin dal Free Syrian Army e dalla Turchia. Come vedi la posizione dei curdi del Rojava?
In Siria sono successe due cose molto importanti dal punto di vista dell’Occidente e della NATO. La prima, come abbiamo detto, è che Assad è rimasto al potere. Mentre la seconda è stata il cambiamento di campo della Turchia. Prima Erdogan ha cominciato ad oscillare tra la NATO e la Russia, per finire poi con l’accordarsi con Russia e Iran. Un paese storico della NATO si è messo d’accordo con il suo maggior nemico. Davanti a questa contraddizione c’è stata una mancanza di intervento sia da parte degli USA che dell’Europa. D’altronde la Turchia si tiene sotto pagamento tre milioni di profughi e li usa come elemento di ricatto nei confronti degli stati europei. Mentre gli Stati Uniti, dopo aver rifiutato di consegnare Fetullah Gulen ai turchi dopo il fallito colpo di stato del 2016, sono stati individuati da Erdogan e dal gruppo dirigente dell’AKP come i loro principali nemici. Queste due questioni hanno spinto la Turchia a spostare il baricentro delle sue relazioni diplomatiche nel momento in cui ha visto materializzarsi il suo peggior incubo strategico: l’embrione di uno stato curdo in Siria che potesse fare da magnete per l’irredentismo dei curdi in Turchia.
In questa situazione il mancato intervento americano a sostegno dei curdi è stata un’arma a doppio taglio, perché hanno lasciato ancora una volta Erdogan agire liberamente, lanciando al tempo stesso un messaggio piuttosto negativo ai loro alleati nell’area. I curdi potrebbero non essere i soli a venire abbandonati nella regione, e questo è un messaggio molto negativo da rivolgere ai propri alleati. Forse gli stessi americani avrebbero voluto ritirarsi alla svelta dalla Siria proprio per evitare di trovarsi in questa situazione. Il fatto che non siano intervenuti a difendere i curdi aggiunge argomenti alla tesi che ormai gli americani vogliano disimpegnarsi dal Medio Oriente.
Questo disimpegno si sarebbe materializzato con la dichiarazione di Trump a dicembre su Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, assegnando in pratica ad Israele il ruolo di poliziotto della regione.
La questione dei curdi, può essere letta in questo contesto geopolitico mediorientale, il disimpegno americano e il ruolo di Israele come poliziotto della regione. È in questo quadro che noi dovremmo leggere questa sorta di tradimento americano nei confronti dei curdi, i quali però non hanno reagito in maniera sconnessa, perché probabilmente sapevano che gli americani sarebbero stati costretti a dare qualcosa a Erdogan, per riportarlo nell’alveo della NATO. In questo senso sarebbero forse disposti a negoziare una zona autonoma, magari più piccola, che non abbia la contiguità territoriale con il Kurdistan Iracheno e non arrivi fino al Mediterraneo, che è la cosa che i Turchi temono di più.
Dieci giorni fa il presidente francese Macron dichiarava che la Francia sarebbe stata disposta a schierare truppe nell’area a difesa dei curdi. Pensi sia una prospettiva realistica?
Questa ipotesi di fatto è già caduta. Macron ha ricevuto i curdi siriani all’Eliseo affermando che avrebbe spostato delle truppe, salvo poi aggiungere che non aveva in realtà lo scopo di contrapporsi ad Erdogan, ma semplicemente di tentare una mediazione fra i curdi siriani e la Turchia. Cosa mai avvenuta, e le truppe di Erdogan sono arrivate fino a Mambij.
In molti hanno cercato di individuare le origini del conflitto dal suo inizio, ormai sette anni fa. È stato spesso letto in Occidente come un conflitto tra sciiti e sunniti, come l’esito di una rivoluzione fallita, come un conflitto per le pipeline del gas o come una guerra per procura delle Grandi Potenze. Quale tra queste interpretazioni ti convince di più?
Ci sono dentro tutti questi elementi nel conflitto siriano. Purtroppo in questa guerra non c’è un solo imputato e una sola colpa, ma ci sono concorsi di colpa e molti imputati. È ovviamente cominciato tutto con la rivolta contro il regime di Assad nel 2011 e questo conflitto è stato per alcuni periodi di tempo un conflitto interno. È diventato un conflitto internazionale nel momento stesso in cui, il 6 luglio del 2011, l’ambasciatore americano Ford è andato a passeggiare in mezzo ai ribelli di Hama per dare il segnale che il regime di Assad si poteva colpire. Poi c’è stato il coinvolgimento della Turchia, che ha aperto la strada del Jihad facendo affluire migliaia di combattenti islamici da tutto il mondo musulmano. E questa è stata la parte del conflitto che ha trascinato dentro come finanziatori della guerriglia anche le monarchie del golfo. Insomma, la guerra siriana è cominciata come una rivolta, è proseguita come una guerra civile, ma è subito diventata una sorta di guerra per procura, con la partecipazione di tutte le potenze con l’obiettivo di abbattere il principale alleato dell’Iran. Ricordiamoci che la Siria, nel 1980, è stato l’unico paese arabo a schierarsi con Teheran, quando ci fu l’attacco di Saddam Hussein. Quanto poi ai conflitti settari, mi preme sottolineare qualcosa di assai importante: di certo non cominciano nel marzo 2011.
Il primo conflitto in Siria comincia con l’ascesa alla presidenza di Hafez Assad nel 1971, quando per la prima volta un esponente della minoranza alauita, che era sempre stata considerata una minoranza di miscredenti, prende il potere. Nel 1973 c’è già la prima rivolta, quando Afez Assad vara una bozza di costituzione in cui non viene menzionato l’Islam come religione di Stato. E già allora l’opposizione sunnita, in particolare la borghesia sunnita, che aveva sempre dominato il paese, attacca il clan Assad, usando gli strumenti della religione. Gli alauiti vengono accusati di non essere dei veri musulmani. Ed è questo il motivo che spingerà Hafez Assad ad avvicinarsi agli Ayatollah sciiti. Successivamente, nel 1973, l’imam Musa al-Sadr farà la famosa dichiarazione sostenendo che gli alawiti appartengono ad un ramo dello sciismo. Come però spiego nel mio libro Il musulmano errante (ed. Rosenberg & Sellier, ndr) gli alauiti non sono sciiti e non sono sunniti. La teologia alauita si distacca dall’Islam ed è una religione differente. Per esigenze di legittimazione del potere, il clan di Assad ha assunto atteggiamenti sempre più simili a quelle dei musulmani sciiti. Ma l’alauitismo originario non è una corrente dell’Islam sciita ma una religione differente, in cui la divinità non è Allah ma Ali, genere e cugino di Maometto, quarto Califfo e primo Imam della trazione sciita.