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«Signornò, signor Gene»: per una biologia disobbediente
Jean-Jacques Kupiec, con “La concezione anarchica del vivente”, recentemente pubblicato da elèuthera, mette al centro della sua analisi le ambiguità della biologia per rompere con l’ordine della disciplina.
Che cos’è un paradigma? Una breve genealogia del termine, delle sue occorrenze e delle sue accezioni, ne rivela l’originaria accezione ottica. Il paradeigma greco è stato ora il modello a cui rifarsi (nel platonico discernimento d’una santa azione, si deve tenere a mente cosa sia la santità), ora il caso esemplare, che funge da spiegazione per illustrare un fatto altrimenti ignoto e marginale (così perlomeno negli aristotelici Analitici Primi). Il paradigma, para deiknumi (mostrare, confrontare), ha insomma a che vedere con la visione. Indirizza lo sguardo verso l’essenziale, la pregnante direzione, oppure, ancora, è ciò che risalta perché luminoso, anticipatamente o intuitivamente intellegibile: il paradigma è tale perché, anzitutto, balza agli occhi – sia il suo ruolo un’emblematicità di tipo ontologico o solo logico-argomentativa.
Il paradigma si evolve, si sedimenta e s’ingrossa anche, se a metà Novecento l’epistemologo Thomas Kuhn, in La struttura delle rivoluzioni scientifiche, lo descrive come «uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costruire il fondamento della sua prassi ulteriore». Più che veicolare la vista in direzione di un verso privilegiato, il paradigma la costruisce, creando un campo del visibile (recidendolo e rescindendolo dal resto). Da raffinata metafora ottica, come ciò che affina e aguzza la ricerca, il paradigma si spinge oltre (parà), si allarga ed estorce volume, diventa materica, solida base, fondamento – e àncora: che la ricerca vincola quasi in modo meccanico, più che ottico.
«L’idea di ordine, per non dire ossessione nei confronti dell’ordine, è di ostacolo alla comprensione del vivente» (p. 11); così può quindi esordire Jean-Jacques Kupiec, biologo ed epistemologo francese in La concezione anarchica del vivente, recentemente pubblicato da Elèuthera (traduzione ineccepibile di Carlo Milani). Il paradigma da cui si vuole qui rescindere l’accordo è quello dell’organismo come un tutto ordinato, in sé compiuto. Un organismo dal gusto aristotelico nel suo essere sin dagli embrionali albori predeterminato e destinato a un telos, la forma adulta e l’età riproduttiva; dal gusto platonico nel suo essere immagine visibile, e perfettibile, d’un ordine specifico ulteriore e celato – modellato, informato e preformato dal diktat genetico. Ordine dall’ordine: l’ordine dei viventi sarebbe espressione dell’ordine biologico, a sua volta espressione dell’ordine molecolare, a sua volta espressione dell’ordine genetico (il problematico paradigma, in senso kuhniano, risulta così essere il paradeigma greco: modello da cui il reale riceve le proprie forme e risulta comprensibile e ordinato).
Problematico paradigma, che da exemplum, come ciò che viene a porsi in primo piano perché spicca e aggetta, e quindi attrae a sé l’occhio, è divenuto obstaculum, ciò che sta davanti come scomodo ingombro e impedisce il passaggio. E dunque non permette d’intendere, né di presagire, né di accedere a, tutto quel che al di fuori dell’ordine (del paradeigma, ordine codificato) accade. Relegandolo così all’invisibile – l’ordine biologico e l’ordine genetico sono sì mappabili, si possono mostrare, diremmo quasi indicare col dito alla platea (il paradigma kuhniano si perpetua perché capace di «attrarre uno stabile gruppo di seguaci, distogliendoli da forme di attività scientifica contrastanti con essi»). La devianza, la varianza, ciò che succede per caso o per sbaglio, non si può invece vedere né visualizzare. Tanto che la perturbazione, per definizione, non è nient’altro che rumore. «È chiaro che tutti i parametri biologici sono variabili, a qualsiasi scala, dalla molecola agli esseri completi. Ogni biologo ne è perfettamente consapevole […]. Ma, nonostante l’onnipresenza della variabilità sia del tutto evidente, non si ritiene che essa giochi un ruolo importante nella biologia funzionale. Non viene percepita come il segnale di un fenomeno intrinsecamente stocastico, ma come un margine di fluttuazione inevitabile, nel quadro di un funzionamento vitale altrimenti fondamentalmente deterministico» (p. 17).
«Non sempre gli scienziati ne sono consapevoli, ma nelle teorie che sviluppano e nei corrispondenti programmi di ricerca è sempre presente un’ontologia, cioè un’insieme di entità e proprietà primarie […]. Ebbene, queste ontologie sono relative, e nella storia delle scienze è stato necessario cambiarle a più riprese. Attualmente è il caso della biologia. La sua ontologia, che vede nell’organismo la propria entità primaria, non può integrare pienamente la variazione aleatoria» (p. 27). Tendenziale nello studio del vivente è, racconta Kupiec, la sua concettualizzazione come organismo (un nome, un programma: «il nome stesso evoca tutta una filosofia», p. 11) autonomo, centralizzato, unitario sia a livello morfologico sia a livello funzionale. La perfetta organizzazione di questo complesso assemblaggio d’organi, tessuti e fluidi il cui ruolo sarebbe propriamente lavorare organicamente, come un sol corpo, per assicurare la vita a quel corpo stesso – la cellula è solo una piccola e subalterna parte del tutto: senza funzioni, interessi o agency di per sé –, corpo che deriverebbe da quell’ordine o prescrizione che è la struttura del DNA, disposizione conservatrice che “protegge” e perpetua i caratteri dell’individuo. È questo l’ordine che li “estrae” dall’informe – demiurgo abile nell’indovinare con precisione, nell’indistinzione solo accennata dell’embrione, il predeterminato obiettivo: i connotati adulti e pienamente sviluppati dell’individuo giunto a maturità. Ed è ancora questa ad assicurare «la conservazione delle specie, cioè la conservazione di gruppi di esseri che condividono un’identica struttura e che si possono quindi classificare senza ambiguità» (p. 29). In una tale concezione deterministica del vivente, i geni codificano per le rispettive proteine, che interagiscono a loro volta in modi specifici, dando come risultato la differenziazione e la specializzazione di cellule organi, tessuti e fluidi, infine inquadrati nei rispettivi ruoli e compiti (eterogenei, ma unicamente subordinati al buon funzionamento dell’insieme). L’ontogenesi si configura dunque come «l’attualizzazione dell’informazione genetica, perché questa condiziona la forma delle proteine, che determinano le interazioni molecolari che costituiscono l’essere vivente» (p. 81). In una tale concezione deterministica del vivente, il rumore è esclusivamente pregiudiziale, spia di malfunzionamenti – può giocare un ruolo ora negativo, ora positivo, ma mai essenziale nell’espletamento del programma: è solo interferenza al messaggio dettato dai geni.
La storia di una tale concezione comincia tradizionalmente con l’abate Gregor Mendel e i suoi incroci di Lathyrus odoratus («si tratta di un mito che vuole farci credere che i geni sono entità materiali scoperte per via empirica», p. 42), per proseguire tramite i “pangeni” di De Vries, particolari particelle localizzate nel nucleo, portatrici di qualità ereditarie preservate lungo le linee genealogiche. Trova forse intoppi – se l’informazione da attualizzare in carne e corpo è sempre una e sempre unica, come spiegare la variabilità dei singoli individui? – a cui appone presto le proprie soluzioni: l’introduzione del cosiddetto “fenotipo” da parte di Johannsen «mirava proprio a circoscrivere la variabilità delle forme generate dall’ontogenesi, a ridurre questa variabilità […]. I genetisti hanno chiamato l’insieme delle forme varianti che possono essere prodotte a partire da un solo genotipo “la norma di reazione” attribuita all’influenza dell’ambiente, postulando che un genotipo eserciti una “azione primaria uniforme”, ma che tale azione venga diversificata da effetti ambientali variabili» (pp. 126-127). Ancora una volta, la soluzione è stornare lo sguardo, o allontanare dagli occhi (e dal cuore!), confermando il regime di visibilità che si è instaurato in origine. Così ancora, al di là del paradeigma, del modello prescrittivo trascritto nei geni, rumoreggia il multiforme ambiente esterno, portatore di imprevisti, errori e sorprese. Esterno ed estraneo rispetto al quale l’organismo ha da levare gli scudi (adattandosi alla propria nicchia, senza venirne scalzato, senza perdere il prezioso interno equilibrio fra le parti: affermando se stesso sulla propria nicchia, rispettando l’ordine alle proprie parti impartito).
Eppure, osserva ancora Kupiec, la biologia così intesa porta con sé, e soprattutto in sé, un’irresolubile ambiguità. Basti pensare che lo stesso Johanssen, mentre disciplinava la diversità dei viventi tramite i due potenti strumenti di genotipo e fenotipo, doveva riconoscere che la parola “geni” è «del tutto scevra da ogni ipotesi; esprime solo il fatto evidente che, in tutti i casi osservati, molte caratteristiche dell’organismo sono specificate nei gameti» (p. 55). Molte caratteristiche dell’organismo sono specificate nei gameti, ossia molti geni sono sempre simultaneamente coinvolti nella determinazione di numerosi caratteri. È insomma possibile che a scompigliare la relazione fra primigenio programma e concluso organismo non sia (solamente) l’ambiente esterno – che la fluttuazione e la varianza non siano semplicemente trascurabile ed esogeno rumore, ma fenomeni intrinseci alle reti cromosomiche e proteiche? A ben guardare, pare che tanta storia di questa disciplina possa essere intesa come tentativo d’elaborare spiegazioni compensative e ipotesi ad hoc così da relegare a luoghi diversi, ulteriori e accidentali, quella che André Lwoff definiva l’accidentata «catastrofe» della «libertà molecolare» (p. 23). E dunque davanti alla molteplicità di promiscue reazioni e relazioni microscopiche introdurre il concetto d’induzione, catena di attivazione di geni prodotta tutta da un gene regolatore o padrone (master); e davanti alla consapevolezza d’una rispondenza non più stereospecifica di caratteri e geni – «ogni proteina può interagire con molti partner, cosa che dà origine a grandi possibilità combinatorie […], adottando una diversa configurazione e una funzione differente in ogni caso specifico» (pp. 83-84) – elaborare una struttura cellulare che separi in senso spaziale e temporale le proteine. E così via, in forza di legge, direbbe, di nuovo e a questo proposito, Derrida: «L’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della legge, per definizione, in definitiva possono basarsi solo su se stesse». Ed è quindi legittimo, specie per la disciplina del vivente, che la disciplina del vivente ha per proprio oggetto, spostare la proiezione dell’ordine sempre più in là, o sempre più in fondo – e ancorare ricorsivamente l’ordine macroscopico a un ordine microscopico ancora da individuare, e così da capo, di nuovo, eterno ritorno del ri/prodotto.
Non ci stupiamo allora se Morgan, nel ricevere nel 1933 il premio Nobel per aver compreso l’ordinamento dei geni entro i cromosomi, ammetteva: «Fra i genetisti non vi è accordo su cosa siano i geni, ovvero se siano reali o puramente immaginari, dal momento che al livello in cui si collocano gli esperimenti genetici non fa alcuna differenza se il gene è un’unità ipotetica o una particella materiale». (p. 60). Circolo vizioso di doppie eliche: «La genetica idealizza la vita supponendo che essa sia intrinsecamente ordinata» (p. 90), commenta Kupiec e non demorde nel vedere i propri piani e progetti volatilizzarsi; semplicemente, li trasla altrove, li consegna a nuovi agenti e fattori, che assumeranno sempre di nuovo il ruolo di paradeigma, essenza invariante capace di informare il mondo materico e visibile. «Tale paralogismo consiste nel confondere la causa con l’effetto e nell’eliminare la variabilità. Così, quando guardiamo il mondo, individuiamo delle regolarità nei fenomeni che chiamiamo “ordine”. Ma mentre questo “ordine” relativo è in effetti un insieme di correlazioni ed è il risultato di processi che occorre spiegare, l’essenzialismo consiste nell’essenzializzare, cioè nel rendere tale “ordine” la causa e la spiegazione dei fenomeni. Per realizzare questo gioco di prestigio presuppone un ordine sottostante al mondo che sarebbe la causa ultima di tutto ciò che vi accade» (p. 94).
Se si vuole intendere il corpo come un tutto ordinato, le cui parti sono solo secondariamente e sono solo al fine di far sussistere l’organismo, allora sì ogni cellula dovrà anche avere la propria destinazione, e il piano volto a coordinarle dovrà intervenire sin dal livello embrionale; in questo quadro, la variabilità è ciò che distrae dal percorso, intervenendo solo in quanto errore (la mortalità embrionale, l’aberrazione nella duplicazione cellulare, lo sviluppo di caratteri imprevisti…). La variabilità ha un po’ meno di realtà di ciò che è ordine – quale il male che, si sa, non è sostanza ma accidente e non ha realmente consistenza ontologica. Eppure, insiste Kupiec, «esiste una quota di plasticità fenotipica che non può essere attribuita all’ambiente o alla variabilità genetica (cioè alle mutazioni e ai ri-arrangiamenti cromosomici)» (p. 122). Parliamo di quella stessa varianza che aveva lasciato sgomento Charles Darwin, e l’aveva portato sulle tracce dell’origine delle specie. Osservava infatti Darwin – in qualche modo sfuggito a quella chiusura dettata dall’epistemologia vigente – che la variazione aleatoria è una proprietà primaria, non secondaria, della vita. Che ogni vivente nasce portando in e con sé caratteristiche nuove e inattese – ogni vivente è anche devianza dalla norma, che la norma e l’ordine perciò stesso dissolve. Ed è piuttosto l’influenza ambientale, determinando una proliferazione di alcuni organismi piuttosto che d’altri, a ridurre lo spettro cangiante di organi, tessuti, fluidi e comportamenti altrimenti sempre differenti e rinnovati.
«La variabilità è qui, sotto i nostri occhi. È evidente su ogni scala della vita, ma si vuol vederla solo come rumore» (p. 105). Ed essa accade ed esiste anche all’interno dell’organismo stesso, (d)al momento del suo sviluppo e oltre: immaginiamo, ci chiede Kupiec, una colonia di cellule entro un ambiente ricco di nutrienti – rispetto al quale alcune avranno necessariamente un accesso diretto, altre indiretto. Nella colonia si creerà un gradiente di concentrazione di nutrienti e di metaboliti. Ora, la crescita della colonia potrebbe sì bloccarsi, ma è anche possibile che le cellule dai nutrienti più lontane siano capaci di utilizzare a loro favore i metaboliti delle più vicine – via possibile, beninteso, se i relativi geni fossero espressi in maniera stocastica. La colonia allora crescerebbe (un po’ per caso!), generando uno strato di cellule differenziate. Tutto questo senza che vi sia, all’origine, un’istruzione: esattamente quel che si verifica nel momento in cui la mutazione d’una pianta, o d’un animale, consente al vivente di prosperare nel proprio ecosistema, e in esso proliferare. Nel momento in cui si riconosce la centralità della variabilità, ci si situa in un differente regime epistemico: la variazione aleatoria è necessaria, e non accessoria, alla realizzazione del fenomeno-vivente. Questo passo permetterebbe tra l’altro di armonizzare filogenesi e ontogenesi, attualmente dirette da vettori differenti; è uno il meccanismo che consente di spiegare l’adattamento delle cellule al proprio ambiente interno e l’adattamento del vivente al proprio ambiente esterno.
E se il meccanismo è eguale, dove s’individua l’individuo? Altro paradigma duro a morire, che pur va incontro a una revisione (o a uno smantellamento: se il paradigma è base materica e meccanica e non solo metafora ottica a orientare la visuale). Questa volta è il microscopico ad ancorare a sé il macroscopico, e viceversa: i due dis/ordini di grandezza si portano vicendevolmente alla deriva. La cellula non esiste al fine di dar luogo al tutto centralizzato: non è diretta dall’obiettivo d’intessere un corpo unico. Semplicemente, si specializza e si modifica (sempre pronta a cambiar panni e ruolo) a seconda dell’ambiente circostante, che ne favorisce o ne storna le continue variazioni – l’alea dello splicing degli RNA, o dell’espressione stocastica dei geni, parzialmente arginata dalle interazioni sociali che le cellule creano, dando luogo a gruppi omogenei. E la medesima cosa accade al vivente, che si situa in questo più ampio flusso e non è dunque espressione finalistica d’un corredo genetico, né immagine transitoria di un ordine fisso e immutabile. Perché dunque l’uno, e non l’altrə, dovrebbe assurgere al rango d’individuo?
«Nella prospettiva aperta da Darwin, a essere reale è il flusso incessante del vivente […]. Le specie vengono estrapolate in maniera arbitraria da questo flusso […]. Similmente, noi pensiamo di sapere cosa sia un individuo. Ne abbiamo un’idea che ci pare evidente. L’individuo è dotato di un’autonomia funzionale e di un’unità morfologica. Ma questa definizione non regge molto all’analisi: è antropocentrica. Deriva dall’immagine che abbiamo di noi stessi in quanto umani e degli esseri che ci somigliano. Molte piante sono escrescenze verticali di fusti che crescono orizzontalmente (stoloni o rizomi), spesso sotterranei. In questo caso dove sta un individuo?» (pp. 214-15). Mettiamo allora da parte anche quest’ultimo paradigma, liberiamo la vista da questo paradeigma che è exemplum in quanto osbtaculum. Liberiamoci di storie che privilegiano, in maniera circolare, quel che è uno, che è identico e autonomo, centralizzato e sovrano. Liberiamoci di individui, di specie e di padroni: lasciamo libera la via alla devianza e all’errore, che non sono collisione – in qualche modo da rabberciare – con il naturale tracciato, ma sono anzi la materia stessa dei corpi, piccoli e grandi che siano. (Per inciso, naturale tracciato che, di nuovo, non esiste: proprio accettando l’interminabile varianza di tutto ciò che è vivente riconosciamo ontogenesi e filogenesi come due aspetti d’un esuberante fenomeno di propagazione per modificazione e travestimento.) Nessun errore nell’ordine calato dall’alto, perché anzitutto nessun rango, o direzione e considerazione privilegiata, si dà. E dunque nessun equivoco né interferenza nel messaggio, ma sola costruzione e contrattazione di entità sempre in fieri. Si dirà allora, col rischio di stucchevole vitalismo, che la vita altro non è che mutazione e molteplicità. E si perderà un po’ il senso di catalogare e circoscrivere, di trasporre in mappa e tassonomia, per lasciare invece che sia ogni corpo a mostrarsi nella sua interazione con altrə – mostrarsi dunque come quella che Preciado definisce «somateca», archivio-materia viva, carica di tutte le storie, potenze e resistenze incontrate. Corpo-comunità smoderatamente ampia, indefinitamente ampia, mai conchiusa e conclusa. Abbandoniamo insomma – ripete instancabile Kupiec – questo paradeigma che è exemplum che è obstaculum, che occlude il passaggio, e lasciamo il passo all’infinito spettro del vivente (che certo non attende il nostro benestare: ovunque, comunque, s’infiltra). Spettro che forse è monstrum, e perché ci fa monito e perché spalanca infine la visuale a dismisura: da questo viene del resto il monstrare. «La via», conclude Kupiec, «è aperta» (p. 250). Alla politica, aggiungiamo noi, a questo punto, politica che dovrà farsi, pena la condanna a morte, in/umana, oltre/umana, altrimenti-che-umana, se di spettri stiamo davvero parlando.