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Short Theatre #4, dispercezione e sensorialità

Più che su immagini e visioni, l’ultima edizione del festival capitolino di arti performative si incentra sulla stimolazione (e talvolta manipolazione) degli altri sensi, in una pluralità formale che è però attraversata da un invito a riscoprire la teatralità dentro elementi inusuali e inaspettati

Sensi e dissensi. La “chiusura” del festival Short Theatre è affidata a Ultraficción nr. 1 della compagnia catalana El Conde de Torrefiel – spettacolo (o, per certi versi, anti-spettacolo) che aveva già generato un discreto clamore nella sua prima italiana a Santarcangelo tre anni fa. Uno spettacolo che disegna una curva della percezione, che quasi consiste e converge totalmente in un unico potente “sbalzo” della visione, o per meglio dire dell’esperienza spettatoriale. Per una mezz’ora buona siamo solo noi, un gigante schermo su cui vengono proiettate nient’altro che parole (niente immagini), delle casse acustiche e il paesaggio circostante con tutte le sue improvvise “screziature” – nel caso della replica capitolina, il parco Tevere Marconi con lo scroscio delle acque fluviali, il verde scuro degli alberi al crepuscolo, schiamazzi di famiglie e bambini.

Sono storie, tanti fili narrativi che si inseguono sullo schermo al ritmo incalzante e al tempo stesso sospeso della musica – dalla parabola del chitarrista e autore stoner Josh Homme dagli esordi alla strage del Bataclan all’incidente aereo di un volo di linea diretto verso Israele che entra in avaria sopra al Mediterraneo, fino a quelle stesso Mediterraneo attraversato da rotte migratorie – e in tanti punti sembrerebbero quasi intrecciarsi, richiamarsi, alludersi l’una all’altra.

Ma non c’è trama, non c’è un senso vero e proprio. Ci sono dei sensi, i nostri, che El Conde vuole inchiodare a una non-visione, una lettura collettiva e al contempo solipsistica, raccolta. Fino a che, arrivati al culmine di alcune delle storie, le parole spariscono e lo schermo si inonda di luce bianca: nel fumo da sala concerto sparato sul prato, fa capolino fra le nostre sedie un intero gregge di pecore con cane e pastore. È, stavolta, letteralmente una visione ma non più nel senso teatrale del termine, una sorta di epifania che dall’estremo di una narrazione puramente scritta, senza alcuna immagine, arriva improvvisamente all’altro estremo di un’immagine muta, che non intende raccontare nulla se non il proprio sostare nel quadro della nostra percezione. Sta tutta qui, e non è poco, la sfida di Ultraficción nr. 1: il tentativo di scavare un buco nella nostra mente come un brusco risveglio a una realtà iper-vera e, perciò, incomunicante, saltando a piè pari qualsiasi tipo di rappresentazione. E in questo sta anche, in una certa misura, il potenziale politico della loro proposta: nel provare a manipolare i sensi per dissentire, sentire e percepire altrimenti il mondo che ci circonda, una sorta di abbandono forzato che è però anche una distopica promessa di catarsi.

(immagine di Ines Bacher)

Si tratta di un potenziale che, in forme diverse, ha attraversato la quasi totalità dell’ultima edizione di Short Theatre. Non a caso, la curatela di Piersandra Di Matteo poneva grande attenzione sull’ascolto: in effetti, al di là delle performance che erano esplicitamente costruite attorno all’elemento dell’ascolto, molti spettacoli potevano essere letti attraverso questo filtro, o comunque tendevano ad allontanarsi da una visione “classica” e dalla centralità dell’immagine.

Dagli echi concettuali e concreti di La memoria risiede nel lobo dell’orecchio di Alessandro Bosetti / Radio That Matters all’elegia gospel di a capella di Dorothée Munyaneza / Cie Kadidi fino al virtuosismo acusticamente ubiquo e ventriloquo di A Mouthful of Tongues di Stina Fors, per citare alcuni dei più diretti in questo senso. Ma anche in The Second Body di Ola Macijewska che si regge tutto su una metafora visiva abbastanza lineare (la performer a torso nudo si appiattisce e si accanisce su una grossa lastra di ghiaccio, fino al completo scioglimento di quest’ultima) c’è uno slittamento percettivo: la sensazione di evidente e pure drammaturgico gelo che investe il suo corpo nel corso dello spettacolo noi non la possiamo esperire, eppure siamo al tempo stesso presi in questo sforzo di resistenza fisica che si fa principio narrativo. Oppure ancora i già citati I pianti e i lamenti dei pesci fossili di Annamaria Ajmone e Aganis di Chiara Cecconello ambiscono a creare atmosfere più che strutture, svuotano la scenografia per fare spazio a rumori, grida, vocalizzi e sussurri invece che visioni. Così pure Manson di Fanny&Alexander – performance dedicata alla figura del celebre criminale statunitense – punta la prima parte su un serrato montaggio cinematografico fatto solo di suoni e parole mentre la seconda è imperniata sul magnetismo timbrico dell’attore Andrea Argentieri e, paradossalmente, Cavaliers Impurs di Antonia Baehr & Latifa Laâbissi – uno degli spettacoli forse più narrativi della rassegna, un “cabaret danzante” che gioca sul filo del non-sense senza mai sfociare nell’assurdo – costruisce la propria comicità mettendo costantemente fuori fase i movimenti e i gesti delle attrici rispetto al resto degli elementi scenici, in una dis-percezione performativa che si fa risata incredula e che, allargando a Short Theatre nella sua interezza, rappresenta dunque un invito a ricercare un principio teatrale negli angoli più remoti della nostra sensorialità.

Immagine di copertina di Maria Baranova-Suzuki