CULT

Short Theatre #2. Risvolti e cadute

Il teatro di “Elogio della vita a rovescio” (Daria Deflorian) e la danza di “Still not Still” (Ligia Lewis) sono due modi di costruire uno spettacolo basandosi sull’inciampo drammaturgico, sulla messa in discussione dei canoni

“Inciampare in una frase”, e fare di quell’inciampo un’ipotesi di drammaturgia. È ciò che dichiara sul palco l’attrice Giulia Scotti e che, in qualche modo, persegue Daria Deflorian con Elogio della vita a rovescio, spettacolo che prende le mosse dalla scrittura dell’autrice sudcoreana Han Kang, di cui vengono messe in scena – rimpastandole – tre opere (La vegetariana, Atti Umani e The White Book). Com’è proprio della poetica dell’autrice/attrice, vincitrice di due premi Ubu, testo e parola sul palco diventano fili esili ed estremamente malleabili, inclini a curvare, attorcigliarsi su di sé, sospendere la narrazione per fare infine di questa divagazione la trama stessa della storia. Così, assistiamo a citazioni tratte direttamente dai libri, a sintesi delle vicende che li compongono, a considerazioni più generiche sulla scrittrice e anche al racconto, da parte dell’attrice che di tanto in tanto si spinge oltre al proprio personaggio parlandoci anche di se stessa, del rapporto che chi sta in scena ha con Han Kang e la sua opera, le sue tematiche.

A pendere dall’alto, tre microfoni – a ricalcare per certi versi anche la scansione dello spettacolo, che si divide in tre diverse parti relative ai diversi romanzi. Di tanto in tanto, soprattutto quando a parlare è la “voce” dell’autrice sudcoreana, l’attrice si avvicina a questi microfoni e il tono delle sue parole si amplifica, creando degli “scalini” nello svolgimento drammaturgico.

Il tema di fondo, sotteso ma neanche troppo, è quello “classico” della relazione fra letteratura e vita, anche se – per via di una recitazione anti-enfatica e grazie al carattere “osservazionale” della poetica di Deflorian – l’interrogativo viene costantemente trasportato su un piano più prosaico, quotidiano, e perciò in un certo senso più “credibile”. Più che di letteratura, cioè, si parla forse di lettura e più che di vita, senza cadere in tentazione di inutili maiuscole, si riflette di scampoli di ordinaria esistenza in cui è facile riconoscersi. Non c’è, però, una forte ricerca di immedesimazione: le esperienze accennate sul palco assumono quasi sempre un carattere personale, intimo, quasi di confessione (sebbene quest’ultima resti priva di alcun sovraccarico emotivo). Anzi, verrebbe da dire che Elogio della vita a rovescio permanga in una costante ambiguità rispetto all’“oggetto” che vorrebbe farci incontrare: è la figura di Han Kang e il suo ruolo nell’immaginario contemporaneo? Sono i suoi libri e la sua scrittura e i personaggi dei suoi romanzi? Oppure è la presenza di Giulia Scotti, nel suo restare in bilico sulla linea della quarta parete, o direttamente le riflessioni dell’autrice Daria Deflorian?

Forse allora il rovescio della vita (e del teatro) è fatto di tanti, talvolta impercettibili risvolti: sono le pieghe di una drammaturgia al tempo stesso esile e di un’espressività concisamente molteplice.

(foto di Circa)

Tracciando un parallelismo, si potrebbe partire dal concetto di “inciampo” anche per descrivere Still not Still dell’artista statunitense Ligia Lewis. Lo spettacolo, infatti, è un continuo gioco di cadute coreografiche, di strappi drammaturgici, di movimenti e discorsi corporei che o non iniziano, non ingranano, o deflagrano su se stessi. Sette performer, in qualche modo eccentrici per fisicità e per presenza in scena, che abitano uno spazio astratto e al tempo stesso cartoonistico, una sorta di ambientazione per un “western metafisico”. Lo fanno, appunto, recitan-danzando costantemente in eccesso: sempre sopra le righe, esagerando il gesto, buttandosi a terra, a volte denudandosi senza senso apparente, restando – sostanzialmente – in una dimensione che è volutamente e smaccatamente meta-teatrale e meta-coreografica.

È come se dalla danza fossero stati improvvisamente tolti qualsiasi accenno o qualsiasi possibilità di grazia. Resta un arrovellarsi meccanico dei corpi, un balbettio del movimento, un’eterna decostruzione senza oggetto che assume automaticamente tinte comiche, quasi demenziali, ma al contempo perturbanti e grottesche.

Eppure, in questo insistito ed eccessivo spolpamento coreografico, permane una solida coerenza di fondo. Still not Still è infatti una partitura sì volutamente cacofonica ma minuziosamente congegnata e anche sorretta da un pensiero “forte”, che nell’apparente disarticolazione del tutto mantiene sempre una sua armonia anti-coreografica e d’immaginario. Come mostrare il gesto nel momento stesso del suo appassimento, della sua esacerbazione, cronaca di una danza annunciata (e mai realmente avvenuta).

Immagine di copertina di Claudia Pajewski