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Short Theatre #2, fragile forza dell’assenza di strutture
Talvolta, non si tratta di destrutturare la consueta impostazione teatrale ma proprio di provare a porsi “al di qua” di ogni struttura. Al festival capitolino, “I pianti e i lamenti dei pesci fossili”, “Aganis” e “Lemmy B.” cercano, per vie diverse, un principio di forza nella fragilità della scena
Il rapporto tra forza e fragilità è qualcosa di mutevole e spesso estremamente aleatorio. In particolare, il teatro è il luogo dove un tale rapporto può esprimersi sotto una luce diversa da quella usuale, in cui l’impalpabilità della scena permette rivolgimenti e inaspettate risignificazioni. La diciannovesima edizione di Short Theatre lo mostra in molte delle sue proposte, che – complice probabilmente anche l’attenzione posta dalla curatela della direttrice Piersandra Di Matteo sull’elemento sonoro e su forme “non convenzionali” di ascolto e visione – si trovano in diverse occasioni a scommettere su dispositivi spettacolari trasparenti e sottili, a ricercare il nitore espressivo della performance attraverso strutture esili, quasi impercettibili.
È il caso, dichiarato, di I pianti e i lamenti dei pesci fossili di Annamaria Ajmone che al festival presenta appunto un’anteprima “in stato di fragilità”. Probabile che il lavoro andrà ad assumere tutt’altra forma e tutt’altra “pienezza” rispetto a quanto si è assistito negli spazi dell’ex-Mattatoio di Testaccio, dove invece va in scena un lacerto, un micro-frammento discorsivo.
La danzatrice e coreografa, assieme a Veza Maria Fernandez Wenger, sembra quasi “dis-abitare” il palco, restando cioè in una condizione di perpetuo accenno recitativo, di sussurro laboratoriale. Le due performer, infatti, si lasciano trasportare il più delle volte dall’intuito, da spunti invisibili, forse dalla stessa energia che sentono arrivare dal pubblico. Ma il movimento principale non è quello dei loro corpi bensì l’emissione d’aria prodotta con le proprie voci: bisbigli, brusii, sibili, flebili canti – molto spesso modulati con le mani a modificare le vibrazioni che fuoriescono dalla bocca. Il principio risiede dunque nei suoni, più che nei gesti: Ajmone e Fernandez Wenger si avvicinano e si allontanano, abbozzano qualche passo di danza, ma è sopratutto per armonizzare o far stridere le linee acustiche da loro generate, non quelle visive. Similmente, anche in Aganis di Chiara Cecconello (andato in scena all’Angelo Mai) i corpi dei performer vengono utilizzati in maniera prettamente strumentale, in funzione degli altri elementi scenici. La normale disposizione dello spazio teatrale viene ribaltata: spettatori e spettatrici si accomodano al centro del palco, seduti su delle sedie o per terra a formare un disordinato mosaico.
Lo spettacolo non è dunque di fronte a noi, ma attorno: un buio quasi perenne cinge il gruppo di persone che assistono e si viene avvolti da un tappeto sonoro che gioca con l’elettronica e con declinazioni ambient. In effetti, non si può parlare neanche di una vera e propria visione: i e le performer riducono la propria presenza a fantasmatiche e perturbanti apparizioni, illuminate solo di striscio e in maniera che non permette mai di scorgere la figura intera in tutti i suoi dettagli.
Sono solo bagliori, manifestazioni astratte e spiritesche: alla lettera, le anguane di cui racconta la mitologia locale delle prealpi venete a cui si ispira lo spettacolo, creature mostruose che abitano le grotte del territorio. Aganis non ambisce a costruire una drammaturgia, forse nemmeno a mostrare un’intelaiatura scenica o un disegno coreografico, bensì inverare un’atmosfera, una sorta di nicchia immaginifica, praticamente priva di sviluppo e consistenza narrativa ma cesellata nei minimi dettagli.
È appunto una fragilità che vuole tradursi in forza, in una base spettacolare solida per quanto intangibile. Non si tratta di destrutturare, ma proprio di provare a restare al di qua di ogni struttura – comunque di abitarne una che sia il più possibile soffusa, eterea. Pur partendo da premesse simili, Lemmy B. dell’artista multidisciplinare Nunzia Picciallo prende una via un po’ diversa. La performer si situa nel mezzo di due casse acustiche, completamente nuda, investita di una luce diffusa e algida. Sullo sfondo, un grande telo bianco a rendere la scena ancor più priva di orpelli, di appigli allusivi o simbolici. La prima parte dello spettacolo è rigorosa e potente: dalle casse fuoriescono fraseggi gracchianti, rumori di colpi elettronici, perturbazioni ritmiche. Picciallo ha i piedi inchiodati al pavimento ma il resto del corpo si muove, si scuote come investito dagli impulsi sonori. Sembra davvero investito da una sovrastimolazione elettrica che lo spinge verso gesti spezzati, singulti, traiettorie muscolari nevrotiche e sclerotizzate.
L’effetto sullo spettatore è quello di poter letteralmente vedere la musica che invade la sala, attraverso un principio coreografico tanto elementare quanto preciso, efficace. Al tutto si aggiunge anche l’impassibilità espressiva del volto, che è al tempo stesso un segno di concentrazione e di volontaria reificazione della propria figura, un moto di controllato abbandono all’ambiente circostante.
Da qui, Lemmy B. si dipana come in una suite con altri diversi passaggi che amplificano e sviluppano l’immagine di partenza. Dopo un’estenuante lotta con se stessa (o con noi, con l’elettrificazione sonora che la investe) Picciallo riesce a staccare i piedi da terra e finalmente a occupare altri spazi della scena. Un breve buio segna una vera e propria cesura con il primo spezzone delle spettacolo. Ha inizio allora una sorta, se non di “resurrezione alla vita” di una figura che era rimasta in evidente balia di stimoli esterni, di ritorno all’autodeterminazione motoria della performer – che ora si aggira per il palco spostando oggetti di scena, poi prorompe in una danza nell’oscurità reggendo delle piccole luci che disegnano circonvoluzioni nell’aria. Siamo nei paraggi di un approccio maggiormente naturalistico, più ostinatamente figurativo e, in qualche modo, “catartico”.
Ricollegandoci alla domanda da cui avevamo iniziato: c’è, pare, la ricerca di una narrazione, di una struttura “forte” che infine possa far ricadere su di sé il tutto e restituire un senso di completezza, di naturale evoluzione di uno spunto ritmico e coreografico.
Eppure, viene da chiedersi, quanto di questo recupero volontaristico del gesto sottintende invece una fragilità, una rinuncia al dare piena forza al sé che fino a pochi istanti prima stava incollato al terreno, esposto alle intemperie del suono e dei rumori – eppure proprio per questo dentro a un conflitto reale, a un’espressione più vivida e, forse, coraggiosa?
Tutte le immagini per gentile concessione di Short Theatre