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MONDO
Shengal: a dieci anni dal genocidio del popolo ezida ancora molto resta da fare
Dopo le stragi operate dall’Isis nel 2017, solo una parte degli ezidi superstiti sono tornati nel distretto montagnoso di Shengal e molti vivono all’estero o nei campi profughi nel Kurdistan irakeno. Il riconoscimento del genocidio exida da parte del governo italiano, finora arenato alla Camera, potrebbe costituire un valido aiuto in questa complicata situazione
Il prossimo 3 agosto saranno passati esattamente dieci anni dall’attacco dell’ISIS ai villaggi del distretto di Shengal, abitato dagli ezidi. Shengal è situato nel governatorato del Ninive, nella parte nord-occidentale dell’Iraq, al confine con la Siria e a pochi chilometri dalla Turchia.
Alcuni paesi europei hanno riconosciuto in quell’aggressione un genocidio, cosi come hanno fatto anche l’Armenia, l’Australia, il Canada, il Dipartimento di Stato e la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, il governo del Kurdistan iracheno e l’Iraq, oltre al Consiglio e al Parlamento Europeo e all’ONU. Nel 2019 anche in Italia si è tentato di far passare in Parlamento la mozione che ne prevedeva il riconoscimento ma si è arenata. Lo scorso ottobre tuttavia la questione è stata ripresa dalla Commissione del Senato Diritti Umani nel Mondo, presieduta dall’On. Laura Boldrini che si è fatta carico di portare in Parlamento un nuovo documento e di patrocinarlo fino, speriamo, alla sua approvazione. La mozione è dunque arrivata alla Camera il 4 dicembre dello scorso anno.
Il genocidio commesso dall’ISIS è frutto di una scelta pianificata nel dettaglio. Gli ezidi praticano un culto che secondo molti, cristiani e musulmani in particolare, consiste nell’adorazione del Diavolo. Nonostante gli ezidi ripetano che questa affermazione è totalmente in contrasto con il loro credo e vi siano anche studi che la smentiscono in modo categorico, continuano a essere il bersaglio del disprezzo di molti.
Il genocidio è stato possibile anche grazie agli accordi stretti tra l’ISIS e il KDP (Partito Democratico del Kurdistan) che governa la regione del Kurdistan iracheno. Dunque gli ezidi sono stati vittime non solo di una persecuzione religiosa ma anche di interessi regionali che hanno visto le formazioni militari legate al KDP, i peshmerga, che erano state schierate a difesa del distretto di Shengal, abbandonare le postazioni all’arrivo dell’ISIS e, in cambio, lo Stato Islamico non ha ostacolato l’avanzata del KDP su Kirkuk, zona ricca di giacimenti petroliferi.
L’ISIS ha cancellato interi villaggi ezidi, distruggendoli e uccidendo tutti gli uomini e le donne anziane, rapendo invece quelle giovani e i bambini. Le donne sono finite sui mercati delle schiave e i bambini a infoltire le fila dell’esercito del Califfato. Circa 350.000 persone sono fuggite sulla montagna di Shengal per sottrarsi a quel destino e i primi aiuti, che hanno consentito a quell’onda umana di salvarsi, sono arrivati dal PKK e dalle unità di resistenza curde del Rojava (YPG e YPJ).
Dopo la sconfitta dell’ISIS in Iraq nel 2017, alcune famiglie ezide hanno pianificato il loro rientro nel distretto di Shengal, nella speranza di trovare ancora le loro case in piedi. Per molti ad aspettarli c’erano solo le macerie. Nonostante le difficoltà, la grande maggioranza è rimasta e ha iniziato a ricostruirsi una vita. Per ricominciare sono necessari i servizi essenziali come gli impianti idrici, le scuole, gli asili, gli ospedali e molto altro, tutto distrutto dall’ISIS. Per una popolazione che ha subito una tragedia simile, che ha sconvolto la comunità internazionale davanti alla ferocia manifestata anche su video propagandistici dello Stato Islamico, trovare il sostegno del proprio governo per avviare la ricostruzione dovrebbe essere nelle cose. E invece “le cose” vanno diversamente. Nel distretto di Shengal la tensione è alle stelle perché gli interessi del governo iracheno e di quello del Kurdistan iracheno non coincidono e si scontrano inoltre con quelli del vicino turco. La Turchia sconfina ripetutamente nel territorio iracheno, incluso quello del Kurdistan, con droni che mirano a colpire i membri del PKK e, nel distretto di Shengal, anche le unità di resistenza ezide (YBS e YJS). Tutti e tre questi attori regionali accusano gli ezidi di essere un’appendice del PKK, ma loro negano. Sono certamente riconoscenti per quello che questa organizzazione ha fatto per loro, salvandogli la vita quando ha coperto la loro fuga dall’ISIS, ma sono fieri della loro autonomia e del lavoro fatto per creare le proprie unità di autodifesa. Gli ezidi dicono che devono essere pronti a difendersi con le proprie forze perché dal tradimento dei peshmerga del KDP hanno imparato la lezione.
Questa posizione però stride con i disegni dei governi iracheno e del KDP che il 9 ottobre del 2020 hanno siglato un accordo, c.d. Accordo di Shengal, sotto il coordinamento dell’UNAMI, la Missione delle Nazioni Unite di Assistenza all’Iraq, che si scioglierà il 31 dicembre 2025, come richiesto da Baghdad. L’accordo sancisce che gli ezidi rinuncino all’Amministrazione Autonoma con la quale si sono governati sin dal loro rientro a Shengal, basata sui principi del confederalismo democratico, teorizzato dal fondatore e leader curdo del PKK, Abdullah Öcalan. Abolita l’Amministrazione Autonoma, secondo i progetti dei firmatari dell’accordo, verrebbe insediato un sindaco che faccia comodo tanto a Baghdad quanto a Erbil. L’Accordo di Shengal si spinge anche oltre, disponendo lo scioglimento delle unità di resistenza ezide e, infine, la cacciata del PKK dall’area e dai luoghi circostanti. I rappresentanti dell’Amministrazione Autonoma di Shengal hanno più volte ribadito che non intendono rinunciare a quanto hanno costruito fino a ora per governarsi, invocando anche l’art. 125 della Costituzione irachena che permette proprio forme di amministrazione autonoma.
Già nel 2022 il governo iracheno aveva provato a far digerire l’accordo agli ezidi con l’uso della forza, inviando carri armati, artiglieria e aerei per attaccare la regione, ma la resistenza ezida aveva prevalso
Oggi la situazione potrebbe essersi complicata ulteriormente. Lo scorso aprile, infatti, il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, si è recato in visita a Baghdad e ha incontrato il Primo Ministro iracheno, Mohammed Shia al-Sudani. I due hanno stretto la mano su accordi commerciali e non solo. Sono stati trovati dei punti d’incontro sulla questione legata al rifornimento di acqua, problema centrale per l’Iraq, il cui rubinetto dipende da Ankara, e la costruzione della development road, ma hanno anche stabilito che la guerra al PKK si possa da adesso fare in modo congiunto. Per Erdoğan è una vittoria, festeggiata con l’inserimento dell’organizzazione nella lista di quelle terroristiche da parte di Baghdad e l’uccisione di diversi membri del PKK solo pochi giorno dopo l’incontro. Recatosi successivamente nel Kurdistan iracheno, dove la Turchia ha delle proprie basi militari, ha discusso della lotta al PKK anche con il governo del presidente Barzani, appartenente al KDP. Le incursioni turche dunque non susciteranno più probabilmente le lamentele di nessuno in Iraq ed è pensabile che potranno invece essere concordate. Continueranno anche nel distretto di Shengal dove, come già detto, la Turchia attacca periodicamente. Erdoğan ha annunciato, come scrive il Washington Institute for Near East Policy, una possibile operazione militare in estate nel Kurdistan iracheno, unitamente al governo della regione e, spera, anche con il sostegno del governo di Baghdad.
La situazione rende la zona pericolosa e molte famiglie ezide che ancora vivono nei campi profughi situati nel Kurdistan iracheno hanno paura a fare ritorno a Shengal. Dall’altro lato il KDP spinge affinché gli ezidi emigrino all’estero. Né il governo iracheno né il KDP inoltre investono nel distretto di Shengal per ricostruire le infrastrutture, nonostante abbiano stretto intese, sia per disaccordi tra di loro sia per la resistenza degli ezidi verso l’implementazione dell’Accordo di Shengal. Senza cospicui investimenti per la ricostruzione, gli sfollati nei campi profughi difficilmente torneranno. Tuttavia, in base alle negoziazioni tra governo iracheno e KDP, a fine luglio gli ezidi dovranno lasciare quei campi. Per il momento l’incentivo economico e la prospettiva di un lavoro offerti da Baghdad non stanno stimolando rientri volontari, probabilmente a causa delle lungaggini burocratiche e delle procedure complicate per accedere ai fondi.
Lo scorso 31 maggio le ONG Refugees International e Voice of Ezidis hanno pubblicato un rapporto sulla difficile condizione degli ezidi sia a Shengal, sia nei campi profughi e sia in Europa, dove molti sono scappati per sfuggire all’ISIS e per paura di un altro genocidio
In questo scenario molto intricato fatto di ricatti, di uso della forza militare per piegare la resistenza ezida, di pedine che vengono mosse sullo scacchiere per garantire gli interessi strategici di questo o quel contendente, gli ezidi rischiano che il distretto, che ancora attende di accogliere circa 200.000 persone, inizi invece a svuotarsi delle circa 150.000 che sono rientrate.
Sul territorio di Shengal lavorano alcune ONG e associazioni che aiutano a ricostruire i servizi essenziali, ma è ancora troppo poco.
Per questo gli ezidi chiedono il sostegno dei governi e dei parlamenti di tutto il mondo, riconoscendo il genocidio del 2014.
Riconoscere un genocidio significa che si prende consapevolezza della tragedia sofferta da un popolo che è stato attaccato per essere distrutto e ci si fa dunque carico di quel dramma, aiutandolo a rimettere insieme le speranze e una visione di futuro, anche attraverso la ricostruzione dei propri territori.
Per gli ezidi è una corsa contro il tempo e ci auguriamo che il Parlamento italiano faccia la sua parte.
Le foto sono di Carla Gagliardini
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