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Sfruttamento implacabile: automazione e governo del lavoro vivo
Dal sud est asiatico a Piacenza, da Passo Corese alle porte di Roma, passando per gli States, la crescita di Amazon sembra inarrestabile: il libro di Alessandro Delfanti “Il magazzino. Lavoro e macchine ad Amazon” ci accompagna alla scoperta dei suoi meccanismi di sfruttamento
Da poco tradotto dall’inglese e pubblicato in Italia da Codice Edizioni, il libro di Alessandro Delfanti Il magazzino. Lavoro e macchine ad Amazon ci accompagna fin dentro gli immensi Fulfilment Centre di Amazon, sparsi in tutto il globo e allo stesso tempo collegati tra loro, rete logistica globale e vero e proprio laboratorio di sperimentazione dell’innovazione tecnologica e robotica applicata al disciplinamento della forza lavoro umana. Un taylorismo distopico e spietato dove gli algoritmi e le intelligenze artificiali scandiscono e orientano il lavoro di uomini e donne, senza poterne fare a meno.
Sgomberiamo subito il campo da un possibile equivoco: innovazione tecnologica e automazione dei processi produttivi (e decisionali) non significano fine del lavoro umano. Soprattutto del lavoro manuale e di fatica. Anzi, in particolare dentro i FC di Amazon assistiamo a un ribaltamento dell’immaginario comune: l’algoritmo possiede il know-how, produce e gestisce un ordine caotico di stoccaggio del quale è l’unico vero conoscitore. Impartisce ordini, disegna percorsi, calcola tempi, sprona, riprende, blocca, a volte licenzia. A eseguire questi ordini un esercito di persone e macchine, persone coadiuvate da macchine e macchine che apprendono dalle persone, tutti ingranaggi fungibili dell’enorme apparato logistico globale del colosso di Seattle, la cui crescita sembra inarrestabile.
Ovunque, dal sud est asiatico a Piacenza e a Passo Corese, alle porte di Roma, passando per gli States, la giornata di ogni “amazoniano” impiegato nei magazzini di smistamento dei prodotti inizia così: un codice “sparato” con l’apposita pistola, per dare il via a quella che potremmo definire un ibrido tra una maratona e i cento metri piani. O meglio, una maratona corsa come se fossero i cento metri piani.
Da quel preciso istante ogni lavoratore diventa un numero, una statistica, un grafico lavorato dall’implacabile algoritmo, che ne traccia gli spostamenti, il ritmo di lavoro, le prestazioni, le pause e persino gli stati d’animo, in un continuo e ossessivo efficientamento dei processi orientato all’abbreviazione del tempo (di lavoro, di consegna, di soddisfazione del cliente finale).
È l’algoritmo che organizza il lavoro dentro i magazzini, indicando senza sosta i prodotti da prendere, la loro posizione, la strada da fare per trovarli, la postazione alla quale devono essere trasportati per l’imballaggio. Monitorando continuamente ogni azione di chi lavora, correggendone gli errori, spronandoli e motivandoli attraverso messaggi che compaiono sullo schermo della pistola “sparacodici”. L’automazione dei processi non fa altro che imporre un freddo e razionale governo del lavoro umano, orientandolo alla produttività a ogni costo.
Questa organizzazione del lavoro, oltre a essere il pilastro su cui poggiano le immense fortune di Amazon e del suo fondatore e presidente Jeff Bezos, produce conseguenze e problemi diversi, ben approfonditi dall’autore e incarnati nelle voci degli amazoniani intervistati.
In nome della produttività assistiamo a uno dei turn over più forsennati di tutto il mercato del lavoro (è arrivato anche al 200% annuo nello stesso magazzino), prodotto da un combinato disposto di vari fattori, primo tra tutti la policy aziendale che lo determina, lo favorisce e lo incoraggia.
Quello del magazzino è un lavoro estremamente logorante, soggetto a infortuni continui e spesso a malattie professionali, determinate, esattamente come in catena di montaggio, da movimenti standardizzati e ripetitivi che insistono sempre sulle stesse catene muscolari e gli stessi tendini. Pensate ad esempio al movimento che gli addetti all’imballaggio fanno per chiudere un pacco. Moltiplicate questo movimento per 300 pacchi all’ora, per otto ore, per cinque giorni e così via. Il risultato è un tasso di infortuni mostruoso, certificato da rapporti interni che lo fissano a quasi il doppio della media del settore logistico.
Anche la pressione psicologica che sono costretti a subire lavoratrici e lavoratori spinge a un rapido abbandono, soprattutto quando ci si rende conto che le aspettative di avanzamento all’interno dell’azienda, ad esempio verso posizioni fisicamente meno provanti, vengono sistematicamente tradite. Inoltre, con gli oneri gestionali appannaggio dell’algoritmo, il management (anch’esso fungibile e per lo più composto da neolaureati) può permettersi di svolgere esclusivamente compiti di disciplinamento dei dipendenti, sia attraverso il potere sanzionatorio che attraverso briefing motivazionali e competizione “gameficata”. La perfetta sintesi della filosofia di Amazon, “work hard, have fun”. Ottenere il massimo, sempre, dalla forza lavoro, a costo di applicare una sorta di obsolescenza programmata ai e alle dipendenti è però, come dicevamo, la ratio che sta dietro questo turnover violento.
Dato che dopo un certo periodo di lavoro la produttività tende a scendere il segreto è avere sempre nuova forza lavoro da spremere. Tale obiettivo viene perseguito in prima battuta grazie a questa organizzazione del lavoro: gli amazoniani non sono più gli operai specializzati della Olivetti, che conoscono i processi produttivi, l’allocazione delle merci nel magazzino, il modo di manovrare un certo macchinario. È l’algoritmo che conosce tutte queste cose e sminuzza e distribuisce le fasi del processo produttivo tanto da rendere i compiti che ogni dipendente si trova a svolgere tutto sommato basilari e facilmente apprendibili, peraltro in breve tempo. Flessibilità (leggi precarietà selvaggia) del lavoro, brevità dei contratti e incentivi economici all’esodo, come quella che dentro i centri di smistamento è conosciuta come “l’offerta”, sono l’infrastruttura che garantisce fluidità al processo di turnover.
L’obsolescenza programmata della forza lavoro ha anche un corollario non indifferente per Amazon: penalizza l’organizzazione della forza lavoro e l’insediamento sindacale. A dire il vero, la politica antisindacale di Amazon è quasi una medaglia che l’azienda si appunta sul petto e questa organizzazione del lavoro le consente di occuparsene il meno possibile in maniera diretta.
È abbastanza chiaro come contratti a termine, ricambio altissimo e fungibilità della forza lavoro disincentivino l’esposizione personale e collettiva dei dipendenti nel rivendicare condizioni di lavoro migliori. Non solo per la paura di essere “fatti fuori” alla prima occasione utile ma soprattutto per la percezione di transitorietà di questo lavoro, che smorza il desiderio di conquistare diritti.
Di tutto questo si è scritto tanto negli ultimi anni, Delfanti con maestria lo rimette in fila aggiungendo elementi, riflessioni, testimonianze. Ma è il capitolo quinto quello che si spinge un po’ più in là. L’autore infatti ci accompagna in un viaggio insieme distopico e vivido, a tratti assurdo eppure così reale, attraverso possibili futuri determinati dalle migliaia di brevetti depositati da Amazon (che già nel 2018 spendeva 22 milioni di dollari in innovazione e ricerca, 6 più di Google, 14 più del MIT di Boston). Come un regista di fantascienza Delfanti “monta” tra di loro questi brevetti, provando a mettere in scena futuri verosimili del lavoro nei magazzini e in generale dell’apparato logistico di Amazon. Futuri, ovviamente, dove il lavoro umano non scompare affatto ma diventa sempre più strumento utilizzato dal lavoro macchinico, insegnando alle macchine procedure e movimenti complessi ed eventualmente intervenendo attraverso l’intelletto in situazioni di incertezza.
In questi futuri prossimi ogni picker ha il suo visore di realtà aumentata che visualizza mappe, ubicazione dei prodotti, grandezza, peso ma, anche, umore del dipendente, stanchezza o frustrazione. Body scanner disposti qua e là misurano la temperatura corporea e lo stato di salute, mentre sensori di pressione e distanza posti nei guanti di chi lavora insegnano ai bracci robotici come prendere un dato oggetto a seconda della sua forma, consistenza e resistenza. Algoritmi previsionali ipotizzano quante unità di un certo prodotto potrebbero essere vendute in un dato luogo e in un dato giorno, facendo partire camion carichi di ordini che ancora non sono stati fatti. Sconfiggendo, di fatto, il limite del tempo. Il presente che non solo rincorre il futuro, ma lo supera. Infine c’è un argomento che non rimane di certo inevaso, che è quello delle lotte possibili.
Ebbene sì, nonostante il massiccio turn over e la violenza con cui Amazon agisce contro l’organizzazione di lavoratrici e lavoratori nei magazzini così come negli altri passaggi del processo produttivo, lottare si può. Anzi, lottare si deve. Ce lo dimostrano gli scioperi degli scorsi anni, in particolare in MXP5, il magazzino di Piacenza nel cuore logistico italiano di cui lo stesso autore è originario, e i primi tentativi di creare insediamenti sindacali stabili anche in altri magazzini.
Le lotte dentro il laboratorio Amazon sono necessarie per sottrarre all’implacabile creatura di Bezos il monopolio sull’immaginazione del futuro del lavoro e del capitalismo digitale, non solo nel settore logistico. Senza organizzazione e invenzione di nuove pratiche di lotta, resistenza e sabotaggio e, soprattutto, senza connettere queste lotte con tutto quello che già si muove contro il capitalismo digitale e delle piattaforme su scala globale, gli esiti che ora ci appaiono distopici non potranno che diventare reali e tangibili, rendendo sempre più difficile la ricerca di vie di fuga.
Foto di copertina Flickr