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Genealogie femministe oltre il Capitalocene
Un estratto da un intervento preparato in occasione del laboratorio di studi “Ecologie politiche del presente” organizzato a Napoli il 9 giugno da Stefania Barca, Nicola Capone ed Emanuele Leonardi.
Ospite dell’evento è Jason Moore, studioso di ecologia politica americano e autore dei saggi “Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria” ed “Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato”, entrambi pubblicati da Ombre Corte. Qui il programma di “Ecologie politiche del presente”.
Uno dei tratti più rilevanti degli scritti recenti di Jason Moore è la rilettura del femminismo della riproduzione sociale in chiave socio-ecologica. Nell’interrogare il lavoro di Moore, voglio partire dal suo debito, dichiarato, con il femminismo marxista. Vorrei poi toccare questioni che Moore tralascia ma permettono di esplorare forme di conflitto e cura collettiva nell’epoca del Capitalocene. Offerto da Moore ma anche Donna Haraway come alternativa alle narrative mainstream dell’Antropocene, questo termine sottolinea il ruolo chiave giocato dalle dinamiche di accumulazione capitalista nella produzione di precarietà diffusa e multispecie, modulata su coordinate geopolitiche, sessuali e razziali.
Studiose e attiviste tra loro diverse, penso a Silvia Federici, Leopoldina Fortunati, Maria Rosa Dalla Costa ma anche a scritti recenti di Cinzia Arruzza e alla “Social Reproduction Theory” americana, hanno compiuto uno straordinario lavoro di scavo per far emergere la centralità del lavoro riproduttivo nel processo di accumulazione capitalista. Fin dagli anni Settanta, il femminismo marxista ha sostenuto la necessità di ripensare il lavoro a partire dalla miriade di attività domestiche e di cura svolte dalle donne. Queste attività non retribuite, naturalizzate e in gran parte confinate negli spazi privati della famiglia eterosessuale, hanno creato le condizioni per l’esistenza e la riproduzione del capitale. Lo slogan della campagna internazionale per il salario al lavoro domestico andava dritto al punto: «Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato».
Nel momento in cui movimenti femministi contemporanei reinventano lo sciopero a partire dall’intima connessione tra lavoro produttivo e riproduttivo, Moore accoglie la riflessione femminista sulla riproduzione sociale. La elabora per interrogare la dimensione ecologica della riproduzione e allargare lo sguardo alla messa al lavoro delle nature non umane.
Sulla scia degli studi della longue durée di Fernand Braudel e Giovanni Arrighi, Moore sostiene che l’emergere del Capitalocene, fin dall’epoca del capitalismo mercantile e coloniale, ha poggiato su una serie di svalutazioni e appropriazioni. Oltre al lavoro non retribuito, svolto da donne e schiavi, indica la svalutazione e l’appropriazione di altre “cheap natures” (nature a buon mercato), ovvero cibo, energia, e materie prime. Ciò ha creato le condizioni per lo sfruttamento del lavoro salariato.
Ma questo processo non è circoscritto alla fase di “accumulazione originaria”. Al contrario, come indicano diversi studi, tra cui La vita come plusvalore di Melinda Cooper a Biocapitale di Kaushik Sunder Rajan, la produzione di valore nel capitalismo post-industriale non può prescindere da combinazioni sempre più creative tra lavoro umano ed extra umano. Moore propone dunque di ridefinire il lavoro come lavoro-energia, ovvero la combinazione tra differenti forme di socialità e pensiero incarnate dagli esseri umani e le forme storicamente fondate dell’attività geo- e bio-fisica. Così, lo studioso americano rilancia la sfida femminista e amplia la nozione di riproduzione per catturarne la portata socio-ecologica.
Invece di inquadrare il capitalismo e la crisi ecologica come frutto di pressioni sociali su una natura inerte, Moore guarda alla dialettica tra capitale e lavoro-energia. I processi storici – sostiene – sono frutto della co-produzione tra attività umane e il resto delle attività naturali. Nonostante il passaggio da “dialettica” a “co-produzione” non sia privo di problemi, Moore compie un salto di prospettiva importante, utile a complicare la narrativa dominante dell’Antropocene che enfatizza l’impatto, unilaterale, di un’indifferenziata specie umana sul pianeta. Nel ripensare la riproduzione in senso geo-ecologico e multispecie, questa direzione di ricerca interroga anche la celebrazione marxista del lavoro vivo umano come l’agente primario di trasformazione storica.
Se Moore batte il sentiero della riproduzione aperto dal femminismo marxista, evita invece il confronto con alcuni elementi problematici dell’ecofemminismo. Uno dei problemi inevasi è l’alterità di processi planetari che il capitalismo innesca e amplifica ma non può controllare a dispetto delle tecnologie di misurazione e simulazione mobilitate dalla scienza climatica. Un problema simile si riscontra anche nella versione dell’ecofemminismo della storica dell’ambiente americana Carolyn Merchant, celebrata autrice de La morte della natura.
Da metà anni Novanta Merchant propone un’etica della partnership che riconosce l’interdipendenza, le continuità e le differenze tra esseri umani e resto della natura. Per Merchant le comunità umane dovrebbero porsi in relazione di collaborazione e reciprocità con le comunità non umane. Ebbene, l’etica della partshership oscura un nodo cruciale, quello dell’asimmetria radicale. Gayatri Spivak lo ha spiegato molto bene qualche anno fa. Spivak parla della non coincidenza tra il globo, spazio misurabile attraverso la computazione digitale, e il pianeta. Quest’ultimo «è della specie dell’alterità, appartiene a un altro sistema; e però lo abitiamo, lo costituiamo». In altre parole, il pianeta non ha bisogno di custodi o di partner. Piuttosto, impone di immaginare pratiche di relazione e cura non fondate sulla reciprocità.
Foto tratta da qui.