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EUROPA
Serbia: solo una rivolta di massa fermerà il regime
Dopo le elezioni del 17 dicembre scorso in Serbia, molti cittadini e cittadine hanno protestato e continuano a farlo regolarmente, scendendo in piazza e denunciando gli evidenti brogli elettorali. Quale sbocco avrà questa crisi post elettorale? Risponde lo storico e già politico Milan St. Protić
«È incoraggiante che anche gli studenti siano scesi in piazza. Ora bisogna pensare come rendere la mobilitazione ancora più massicciaı. In questa intervista Milan St. Protić, storico e uno dei massimi esponenti della coalizione delle forze di opposizione che sconfisse il regime di Milošević, commenta l’attuale situazione in Serbia, travolta da una drammatica crisi post-elettorale, tracciando analogie e differenze tra le proteste degli anni Novanta e quelle attuali.
Come e quando usciremo dalla crisi post-elettorale?
Questa è la domanda più difficile che lei potesse pormi in questo momento. In una situazione, come quella che sta vivendo la Serbia, considerando anche il carattere del regime, ogni tentativo di imboccare la strada della democrazia per raggiungere determinati obiettivi, nello specifico l’annullamento delle elezioni spudoratamente rubate, risulta difficile e rischioso. Si sta palesando quello che già sapevamo, ossia il fatto che il regime è disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo, violenza compresa, pur di dimostrare di avere un potere assoluto, a prescindere dal vero esito delle elezioni. Ed è pronto ad abusare delle istituzioni per raggiungere questo obiettivo.
La crisi scoppiata [dopo le elezioni] rispecchia al meglio lo stato di salute della Serbia, portando alla luce il vero carattere del regime e del suo leader. Qui la democrazia è lettera morta. Si realizza solo ciò che il regime desidera, a tutti i costi e senza badare ai mezzi. Penso che l’annullamento delle elezioni a tutti i livelli, pur rappresentando una richiesta legittima e necessaria, al momento, purtroppo, non sia uno scenario realistico. L’attuale leadership non è disposta a fare tali concessioni. Non ha mai voluto ammettere i propri errori, credendo di essere perfetta e infallibile. È chiaro però che, almeno a Belgrado, non è così forte come vuole farci credere. Il suo potere vacilla.
Ritiene che l’UE sia disposta a partecipare a un’inchiesta internazionale per verificare la regolarità delle elezioni dello scorso 17 dicembre, come richiesto dall’opposizione?
Le probabilità che ciò accada sono scarse. Non presterei però troppa attenzione a questa questione, perché gli attori internazionali danno sempre priorità ai propri interessi, ritenendo che non spetti loro occuparsi degli interessi dei cittadini di determinati paesi. Anche quando hanno lottato per la democrazia nei propri paesi, lo hanno sempre fatto da soli, senza alcun aiuto esterno.
Non bisogna però dimenticare che il primo obiettivo delle potenze mondiali è quello di sciogliere il nodo del Kosovo e nell’affrontare questa questione continuano a contare sull’attuale leadership serba. Del resto, è un copione che abbiamo già visto con Milošević. Fino a Rambouillet e alla sua decisione di respingere il piano proposto, Milošević era considerato “il principale cavallo da corsa”, come diceva Winston Churchill, nonostante tutte le proteste e rivolte portate avanti da cittadini e studenti.
In questi giorni viene spesso citato il ruolo di González nel 1996-1997 [il riferimento è a Felipe González Márquez, ex primo ministro spagnolo, che nel 1996 aveva guidato una missione dell’Osce per verificare la regolarità delle elezioni in Serbia, confermando la vittoria dell’opposizione]. Mi preme sottolineare che [il rapporto di González] era frutto di un compromesso. L’opposizione aveva chiesto che le elezioni a tutti i livelli venissero annullate e che i responsabili dei brogli elettorali venissero portati davanti alla giustizia, richieste rimaste disattese. La vittoria dell’opposizione era stata ufficialmente confermata solo in alcune città con una lex specialis. Eravamo rimasti assai delusi da questa soluzione parziale.
Oggi si tende a tracciare parallelismi tra proteste del 1996-1997 e quelle attuali. Secondo lei, sono due fenomeni paragonabili?
Sì e no. All’epoca Milošević aveva appena firmato gli Accordi di Dayton, rafforzando così la propria posizione a livello internazionale. Veniva considerato fattore di pace e stabilità, anche lui stesso si percepiva tale. In questo senso, la situazione attuale può essere paragonata a quella degli anni Novanta. A quel tempo però gli oppositori del regime erano più numerosi e più tenaci nel perseguire i loro obiettivi. Le forze politiche e gli studenti agivano in parallelo – dinamica per certi versi analoga a quella attuale – ma il punto stava nella portata delle proteste a Belgrado, come anche nel resto del paese. Ricordo che in quegli ottantotto giorni, quanto erano durate le proteste, avevo percorso in lungo e in largo la Serbia, recandomi almeno settanta volte in diverse città, visitando alcune più di una volta. E non ero stato l’unico a farlo.
Ritiene che l’attuale protesta possa crescere sotto la spinta dell’opposizione, i cui esponenti in un primo momento hanno avviato uno sciopero della fame e ora continuano a invitare i cittadini a scendere in piazza ogni giorno per protestare?
Nutro una profonda stima e ammirazione nei confronti di quelli che hanno fatto lo sciopero della fame. Non credo però sia la strada giusta per combattere l’attuale regime che se ne frega degli scioperi. Il regime non prova alcuna empatia, come emerso dopo le tragedie avvenute all’inizio di maggio 2023. Non gliene importa nulla di una deputata dell’opposizione che ha messo a rischio la propria salute.
Quindi, credo sia meglio abbandonare la strategia dello sciopero della fame e indirizzare tutte le energie alla lotta contro il regime. La recente proposta di boicottare il consiglio comunale di Belgrado e il parlamento nazionale potrebbe rivelarsi indicativa della perseveranza dell’opposizione nel ripudiare la reazione violenta del regime all’esito delle elezioni. La protesta non si deve fermare. È incoraggiante che anche gli studenti siano scesi in strada. Ora bisogna trovare un modo per rendere la mobilitazione ancora più massiccia.
A mio avviso, sarebbe un’ottima idea organizzare le proteste anche a Niš, Kragujevac, Novi Sad, inviando così un forte messaggio alla leadership al potere per dimostrare che siamo stanchi della sua arroganza e che ci sono persone disposte a fermarla con una massiccia mobilitazione. Altrimenti, il regime diventerà sempre più autocratico. Dal 2012, quando l’attuale leadership è salita al potere, la Serbia è decisamente cambiata in peggio, così come è cambiato anche il regime, dal quale quindi non possiamo aspettarci nulla di buono. Dobbiamo fermarlo e l’unico modo per farlo è organizzare una massiccia mobilitazione civica e studentesca.
Anche in passato ci sono state proteste, alcune ancora più massicce di quella attuale, ma Vučić ha sempre aspettato che si sgonfiassero. Perché questa volta dovrebbe essere diverso?
Vedremo se sarà diverso. A giudicare però da come ha reagito finora, il regime sembra mostrare un nervosismo molto più acceso di prima. Ne è prova anche la reazione della polizia alle proteste davanti alla sede del consiglio comunale di Belgrado [disperse con violenza].
Perché il regime sembra più nervoso?
Perché, a differenza del passato, ora è sottoposto a una doppia pressione esterna, da est e da ovest. Se la leadership serba subisce pressioni sia da Mosca che da Bruxelles e Washington è colpa della sua politica ambivalente tesa a compiacere entrambe le parti. In questo clima, sopraffatto dal nervosismo, il regime compie passi frettolosi e spericolati.
Ritiene che anche le dichiarazioni dell’ambasciatore statunitense a Belgrado Christopher Hill siano una forma di pressione? In un primo momento Hill ha dichiarato di aspettarsi che la crisi post-elettorale venisse risolta entro Natale e di non vedere l’ora di collaborare con il nuovo governo. Poi però ha affermato che le istituzioni devono seguire le raccomandazioni dell’Ufficio dell’OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR) e che le proteste violente sono in contrasto con i principi della società democratica…
Queste dichiarazioni potrebbero sì essere il segnale di eventuali pressioni, anche se personalmente resto piuttosto scettico al riguardo. Anche negli anni Novanta gli americani avevano condotto una politica tutt’altro che giusta e sincera nei nostri confronti. Non bisogna dimenticare che alla vigilia delle elezioni del 2000, alle quali Milošević fu finalmente sconfitto, avevano convinto Milo Đukanović a boicottare il voto, appoggiando anche la decisione di Vuk Drašković di non unirsi all’Opposizione democratica della Serbia (DOS), infliggendo così un duro colpo alle forze di opposizione. Quel discorso secondo cui qualcuno – si pensa subito agli americani – ci aveva aiutato [a rovesciare il regime di Milošević] è totalmente falso. Anziché aiutarci, gli americani si erano dati da fare per indebolire la principale forza di opposizione a quella tornata elettorale. Se Đukanović avesse partecipato alle elezioni politiche e a quelle presidenziali e se il Movimento per il rinnovamento serbo (SPO) di Drašković si fosse unito alla coalizione DOS, saremmo stati molto più forti.
Quindi, non dobbiamo aspettarci molto dagli Stati Uniti, e soprattutto dal loro ambasciatore a Belgrado. Non credo che lui possa esercitare una forte influenza sull’opposizione. Il principale obiettivo degli Stati Uniti è quello di risolvere alcuni problemi nei Balcani che si trascinano ormai da decenni, e si interessano ad altre questioni solo se risultano funzionali al raggiungimento di questo obiettivo. Non vi è nulla di illogico, tutti si comporterebbero così se fossero al loro posto.
L’ambasciatore russo a Belgrado ha dichiarato che Vučić gli ha detto che dietro alla proteste violente si cela l’Occidente. La premier Brnabić invece ha ringraziato i servizi segreti russi per il loro aiuto. Sembra che la leadership serba guardi alla Russia…
Anche Milošević guardava alla Russia, ostentando l’appoggio di Mosca ogni volta che se ne presentava l’occasione. Dopo il 5 ottobre [del 2000] anche il rapporto dell’opposizione serba con la Russia fu complesso e spesso contraddittorio. All’epoca del governo Koštunica qualcuno ritenne opportuno spalancare le porte all’influenza russa e ora le conseguenze di questa decisione ci tornano come un boomerang. L’attuale governo si trova in una posizione tutt’altro che invidiabile poiché l’influenza russa ormai permea le istituzioni, i media e l’opinione pubblica serba. Un’influenza che, a mio avviso, per la leadership al potere non rappresenta tanto un sostegno quanto un problema. Se ancora non lo hanno capito, lo capiranno col tempo, anche se forse sarà troppo tardi.
Ritiene che la crisi post-elettorale e un’eventuale ripetizione del voto tra sei mesi possano giocare a favore di Vučić considerando che l’UE e Washington si aspettano che la Serbia entro la primavera adempia agli obblighi assunti riguardo alla questione del Kosovo?
La vittoria elettorale di Vučić, così come la presenta lui, gli permette di prendere tutte le decisioni che contano e di avere la maggioranza assoluta del parlamento. Questo però significa che non potrà più ritagliarsi uno spazio di manovra nelle relazioni con gli attori esterni. Quindi, la vittoria potrebbe rivelarsi una spada di Damocle sulla testa del presidente.
Credo che Vučić stia utilizzando Nestorović come un asso nella manica. Se la crisi dovesse acuirsi tanto da compromettere il suo potere, Vučić potrebbe servirsi di Nestorović per ripetere le elezioni a Belgrado, evitando così di assumersi la responsabilità dei brogli elettorali e di altri abusi. Così facendo, guadagnerebbe tempo, facendo sembrare di essere venuto incontro alle richieste dell’opposizione. Uno scenario che, a mio avviso, va tenuto in considerazione. Non credo sia l’ipotesi più probabile, ma non escludo la possibilità che l’attuale situazione giunga a tale epilogo. Affinché ciò accada però, è necessario che la mobilitazione diventi ancora più massiccia e che l’opposizione continui ad esercitare pressioni con pervicacia.
Finora lei non ha speso parole lusinghiere sui leader dell’opposizione. Ripone fiducia nella loro tenacia e determinatezza nel battersi perché le elezioni a Belgrado vengano ripetute?
Penso che i leader dell’opposizione si trovino in una posizione molto difficile. Lo posso capire. Ora più che mai stanno mostrando un alto grado di combattività. Questi “nuovi leader”, che si sono imposti nell’ultimo anno, sono portatori di un’energia che in precedenza mancava all’opposizione. Non so cos’altro si potrebbe fare, oltre a quello che stanno già facendo. Pertanto, in questo momento li sostengo con maggiore convinzione di prima. È una battaglia in cui si rischia molto. Alcuni di loro rischiano la propria vita e la salute, e per questo meritano rispetto e ammirazione.
Crede che nel prossimo periodo l’opposizione possa imporsi come partner dell’Occidente al posto di Vučić nel contesto dei dialogo sulla questione del Kosovo? Perché non lo ha già fatto?
Perché prima non era unita. Ora l’opposizione democratica si è unita, formando la coalizione “La Serbia contro la violenza”. Credo che sarebbe utile rafforzare questa alleanza, creando organismi congiunti che portino alla formazione di una confederazione di partiti che hanno più o meno la stessa politica. Se dovessero riuscirci, potrebbero imporsi come un importante attore in Serbia e a livello internazionale. Per ora si tratta solo di una coalizione elettorale – ed è un fenomeno positivo che non si vedeva da tempo – ma bisognerebbe trasformarla in un’alleanza più compatta con una politica articolata e condivisa.
Secondo lei, è uno scenario realistico?
Credo di sì. Le differenze all’interno della coalizione “La Serbia contro la violenza” non mi sembrano tanto profonde da non poter raggiungere una posizione condivisa e presentarla come tale nel paese e all’estero. Gli altri attori sono ormai fuori gioco, per vari motivi, quindi oggi in Serbia sostanzialmente ci sono due formazioni politiche ed è una cosa positiva. Così come è positivo il fatto che la più grande forza di opposizione sia di orientamento democratico e filoeuropeo e che un terzo della popolazione, nonostante il lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti ormai da decenni, sia ancora capace di pensare con la propria testa e di votare contro l’attuale regime. Non basta, ma suscita ottimismo. Personalmente credo che gli oppositori del regime dovrebbero persistere e connettersi maggiormente tra di loro. È l’unica strada per garantire un futuro migliore alla Serbia e ai suoi cittadini.
Prima ha menzionato Nestorović. Come spiega il fatto che il partito guidato da Nestorović ha ottenuto un ottimo risultato alle elezioni, mentre i movimenti Dveri e Zavetnici non hanno superato la soglia di sbarramento, e quindi escono dal parlamento?
Anche il Partito popolare (NS) esce dal parlamento. Penso che Nestorović sia una figura artificiosamente creata e inserita nella scena politica serba. Lo abbiamo già visto nel caso di alcuni candidati presidenziali, iniziative civiche e persino partiti che hanno finito per avvantaggiare il regime. Così era anche ai tempi di Milošević. A qualcuno è venuta l’idea che una figura come Nestorović e un movimento come quello da lui guidato potrebbero tornare utili al regime. Per questo ritengo che il risultato elettorale di Nestorović non rispecchi la realtà, essendo frutto di manipolazioni.
La débâcle dell’etrema destra dimostra invece che la sua politica non contiene altro che le idee riciclate di Milošević. Non vi è nulla di nuovo. Anche Milošević portava avanti lo stesso discorso: la Risoluzione 1244, l’integrità territoriale, l’appoggio della Russia… Una politica rimasticata e ormai sconfitta. Come anche quella di Šešelj, che aveva suscitato interesse a una o due tornate elettorali, per poi perdere la fiducia dei cittadini.
Il grande perdente delle ultime elezioni è il Partito popolare. Le figure più autorevoli – come Nikola Jovanović, Zdravko Ponoš e Miki Aleksić – hanno ormai abbandonato il partito, che si è dimostrato incapace di sopportare tale colpo e ora ne sta pagando le conseguenze. Quei tre ex-membri del NS oggi giocano un ruolo importante nella scena politica, quindi l’uscita dal NS si è rivelata vantaggiosa sia per loro che per l’opposizione.
Ogni volta che i cittadini serbi scendono in piazza per protestare la leadership al potere agita lo spettro di Maidan e dello scenario ucraino. Lei come spiega questa dinamica?
Qualche tempo fa ho detto: «State attenti a non trasformare Maidan in Tašmajdan [parco situato nel centro storico di Belgrado dove solitamente si radunano i manifestanti]». La nostra visione di quanto accaduto nella piazza principale di Kyiv evidentemente suscita emozioni negative tra chi si oppone alla democrazia e alla libertà. Chi non sostiene i manifestanti di Maidan è contrario all’idea di libertà poiché quelle persone erano scese in piazza a Kyiv per difendere la propria libertà, il diritto di voto, il diritto di scegliere. Come avevamo fatto anche noi nel 1996 e come facciamo oggi. Per questo dico che Tašmajdan è il nostro Maidan.
Secondo lei, come evolverà il processo di normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo nel 2024?
Negli ultimi anni sono stati fatti molti passi sbagliati. Così siamo giunti al punto in cui i serbi del Kosovo, come anche il governo di Belgrado, cercano sostanzialmente di riconquistare quello a cui in passato avevano rinunciato. L’obiettivo principale è quello di organizzare le elezioni nel nord del Kosovo per riportare le istituzioni sotto la guida serba. Questa politica disastrosa ha provocato tutta una serie di conseguenze negative, compresi gli eventi di Banjska.
È chiaro quindi che Belgrado, da tempo ormai, ha abbandonato una politica ragionevole nei confronti di Pristina e dei serbi che vivono in Kosovo e con ogni probabilità proseguirà nella stessa direzione. Così alcuni obiettivi che già avrebbero dovuto essere raggiunti verranno presentati all’opinione pubblica serba come grandi successi. La verità è che l’attuale leadership di Belgrado sta utilizzando il Kosovo come merce di scambio, come faceva anche Milošević. Non sono sinceri quando dicono di voler difendere i cosiddetti interessi nazionali serbi, per loro è solo un pretesto per ingannare e manipolare l’opinione pubblica locale e per conquistare facili punti politici promuovendo uno pseudo-patriottismo. E della vita quotidiana della popolazione serba non gliene importa nulla. L’ipocrisia della loro politica emerge già dall’insistenza nel parlare dei nostri cittadini e del nostro popolo in Kosovo riferendosi esclusivamente ai serbi. Ma se, come sostengono, il Kosovo è parte integrante della Serbia, allora gli albanesi del Kosovo sono cittadini della Serbia nella stessa misura in cui lo sono i serbi. La leadership di Belgrado porta avanti lo stesso identico discorso che abbiamo sentito in passato. Non vi è nulla di nuovo né originale, ne emerge solo una visione faziosa della questione del Kosovo. Anche la politica di Belgrado nei confronti dell’UE è caratterizzata dalla stessa ipocrisia. Ecco perché la Serbia non avanza. Si è fermata in un punto e continua a sprofondare.
Articolo pubblicato su Osservatorio Balcani Caucaso il 12/01/2024. Originariamente pubblicato dal quotidiano Danas, il 30 dicembre 2023
Immagine di copertina di Sergio Oren da wikimedia commons