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“Selfie” di Agostino Ferrente
Nel 2014 a Rione Traiano, il sedicenne Davide Bifolco venne ucciso per errore da un carabiniere che lo scambiò per un latitante. Tre anni dopo i suoi amici Alessandro e Pietro accettano la proposta di filmarsi con l’iPhone che il regista Agostino Ferrente offre loro perché raccontino in presa diretta il proprio quotidiano, l’amicizia che li lega e la tragedia del loro amico. Quello che ne è venuto fuori è “Selfie”, uno dei film più interessanti e innovativi usciti in Italia negli ultimi tempi
«Ora uccideteci tutti. Davide vive». In mezzo le sagome di tre persone su un motorino senza casco: sulle teste e sui petti un bersaglio. È questo il contenuto di uno degli adesivi diffusi a Napoli dopo l’omicidio di Davide Bifolco, il sedicenne di Rione Traiano ucciso nel settembre 2014 da un carabiniere, convinto di sparare contro un latitante – un ventiduenne accusato di furto – in fuga. Nonostante quello che hanno riportato molti media nelle ore successive alla sua morte, Davide Bifolco non aveva precedenti penali, non era “un criminale”: e poi, anche se lo fosse stato, non sarebbe stato un buon motivo per sparargli. La sua colpa era unicamente quella di essere un sedicenne della periferia Ovest di Napoli – di un quartiere di Napoli che viene definito “difficile”, di un territorio che viene considerato “in guerra” – e quella di andare in tre senza casco su un motorino, fuggendo spaventati per le possibili conseguenze delle loro infrazioni all’arrivo dei carabinieri. Perché se in una buona parte di Italia «gli anni in motorino sempre in due» sono un nostalgico ricordo degli anni ’90, in un’altra buona parte non si è mai smesso di andarci in tre, nonostante i “falchi” della polizia che si aggirano per strada.
L’omicidio di Davide Bifolco e Rione Traiano sono lo sfondo di Selfie, il docu-film di Agostino Ferrente, al secondo film ambientato a Napoli dopo il documentario Le cose belle co-diretto con Giovanni Piperno. Girato nell’estate del 2017, Selfie è stato presentato con notevole successo all’ultimo Festival di Berlino: un successo meritato, perché è un film bello e importante, ironico e drammatico, realistico e commovente.
La descrizione di Selfie come un «film su Davide Bifolco» è quanto meno riduttiva, in particolare se lo si paragona a Sulla mia pelle che è effettivamente su Stefano Cucchi. Al centro del film di Ferrente, infatti, più che la vita e l’assassinio di Davide Bifolco c’è il loro contesto.
Ferrente sceglie di descriverlo attraverso gli occhi di due reali sedicenni di Rione Traiano, Alessandro e Pietro, che hanno l’età che aveva Davide Bifolco al momento della sua morte e quindi per sempre. Selfie mette così in scena la storia di due Davide Bifolco vivi, che vanno in motorino senza casco e che però non hanno incontrato un carabiniere che ponesse tragicamente fine alla loro adolescenza. Alessandro e Pietro raccontano direttamente la quotidianità di Rione Traiano e la loro, principalmente attraverso le riprese di uno smartphone in modalità “selfie”.
Ferrente infatti mette in mano la telecamera/cellulare ai suoi personaggi fin da inizio film. Lo dichiara, spiega a uno dei due protagonisti come usarla, dice a loro e a noi che il film lo faranno, in gran parte, loro. Questo nonostante il regista precisi che è stato sempre presente dietro la telecamera/cellulare anche nelle scene dove i due appaiono da soli. Quella del regista è una presenza/assenza che è la cifra stilistica del film. Le immagini che vediamo sono quindi essenzialmente di tre tipi: il selfie video dei due protagonisti, diretti dal regista ma che hanno fisicamente in mano l’apparato che produce queste immagini; i provini-che-sono-già-film che il regista fa con i giovani (se non giovanissimi) abitanti del Rione; delle – forse reali forse no – telecamere fisse di sorveglianza.
I due protagonisti, Alessandro e Pietro, sono cumpagne, bellissima espressione usata in napoletano per gli amici per la pelle, per – come da etimologia – coloro che mangiano il pane insieme. Tutti e due – come Davide Bifolco e come i loro amici – hanno già smesso di andare a scuola e se il primo lavora in un bar, il secondo spera di trovare un barbiere che lo prenda ‘a faticà. Lo spera con tutto il cuore, come lo spera per lui il suo amico Alessandro, che glielo augura anche nel giorno del suo compleanno. Perché l’alternativa – lo sanno – per loro è lo spaccio, unico ammortizzatore sociale possibile. Ma se spacci devi fronteggiare due pericoli, la polizia e la “concorrenza”: e, come viene specificato dai due ragazzi forse con un voluto paradosso, la polizia ti arresta, la concorrenza ti ammazza.
Selfie racconta l’adolescenza, quella che a Davide Bifolco è stata negata, con i problemi di tutti gli adolescenti: le ragazze (mancate, soprattutto, il film è quasi esclusivamente di personaggi maschili), le vacanze, il motorino come mezzo di evasione e di libertà; ma anche la domanda «secondo te, non dico noi ma i nostri figli o i nostri nipoti potranno mai vivere a Posillipo?». E la risposta è consapevolmente negativa, perché pure se si trova ‘a faticà, a un barista e a un barbiere i soldi non basteranno mai per comprarsi una casa in uno dei quartieri più ricchi di Napoli.
Ma il docu-film mette in scena anche il rapporto contraddittorio dei due ragazzi e dei loro coetanei con il Rione Traiano. Se Alessandro vorrebbe raccontarne solo le “cose belle” (non a caso, il titolo dell’altro film su Napoli di Ferrente), come atto di resistenza contro l’immagine stereotipata e negativa che ne danno i media, Pietro è intenzionato a riprendere con il cellulare anche le “cose brutte” – la familiarità con le pistole dei loro coetanei, ad esempio – e a fare una vera e propria inchiesta come quelle della tv, che comprenda anche un focus sullo spaccio di droga. Si vede addirittura una scena con uno spacciatore con voce alterata, un tentativo di imitare il format televisivo di interviste a pentiti e simili, nella quale emerge come gli spacciatori di Rione Traiano siano solo pesci piccoli. Ma a Rione Traiano e in tutti i Rioni Traiano di Italia e del mondo il confine tra essere nu buono guaglione – come Alessandro e Pietro si autorappresentano – ed essere un malamente è labile e difficile da tracciare. Perché le “cose belle” e le “cose brutte” sono intricate e inseparabili, convivono e si sovrappongono. E anche un buono guaglione può provare a spacciare prima di capire che non faccia per lui.
È attraverso gli occhi di Alessandro e Pietro – e quelli dei loro amici e coetanei – che emerge la storia di Davide Bifolco. Non è un film su di lui, ma la sua vicenda è la sottotraccia sempre presente: nei discorsi, nelle immagini, nelle magliette, nel luogo della sua morte diventato punto di incontro in cui andare a fumarsi una sigaretta parlando di Davide e di quella sera, nelle interviste ai suoi familiari. Alessandro decide infatti di riprendere il padre e il fratello di Davide – facendogli vedere le immagini dei telegiornali di quel giorno (un’altra mediazione) – e la presenza nel film del secondo, Tommaso Bifolco, è ancora più straziante, perché Tommaso è morto di infarto a 36 anni nell’ottobre scorso, cinque giorni dopo la sentenza d’appello che ha ridotto la pena al carabiniere che ha ucciso Davide da quattro a due anni. Una sentenza che lo ha fatto morire di crepacuore.
Ma in Selfie ci sono anche i coetanei di Pietro e Alessandro, che vediamo in provini allestiti dal regista nel quartiere. Non importa se si tratti di provini fatti per scegliere i due protagonisti o già pensati per far parte del film, sono comunque parte del film da farsi. Il regista chiede di parlargli delle loro vite, di cosa fanno, cosa sognano. C’è chi ha una passione per le pistole e ci sono due ragazzini di 10 e 12 anni che chiedono una “bella sigaretta”. Poi c’è una sedicenne che pensa a come si comporterà quando il ragazzo di cui è innamorata finirà in galera. Se viene condannato a un anno e gli «vuoi bene» e lui «ti vuole bene», «se c’è rispetto e il rispetto è tutto», gli rimani fedele e lo aspetti… ma se viene condannato a 20 anni o all’ergastolo? La ragazza è fatalista e non ha dubbi: te la puoi prendere solo col destino e lo continui a “rispettare”.
Emerge tutto un sistema di valori alieno a chi non conosce questa realtà, che il regista racconta con estrema delicatezza, partecipazione e riuscendo a rendere sempre umani i suoi personaggi. È uno spaccato sociale che non potrebbe essere ritratto più fedelmente, senza pregiudizi, senza manierismi, senza morbosità, in modo non macchiettistico e non stereotipato. Quella che emerge è la “periferia della periferia”, un’«altra Napoli» lontana tanto dalla criminalità patinata di Gomorra e altre simili rappresentazioni quanto dal centro storico sempre più gentrificato – e “foodificato” – ormai diventato un lunapark per turisti. Il montaggio ha naturalmente una funzione fondamentale nell’amalgamare i vari tipi di immagini, nel renderle fluide e senza stacchi eccessivi.
In questo senso sono fondamentali le riprese, sempre senza commento, delle telecamere di sorveglianza: all’interno del film, periodicamente, ricordano agli spettatori e alle spettatrici che non c’è solo la agency dei due protagonisti, liberi (seppur guidati) di filmare la loro storia e raccontarci la loro vita, non c’è solo il regista che attraverso i provini intervista altri abitanti del quartiere, ma c’è costantemente la sorveglianza, un’entità non nominata ma chiaramente riferibile a un apparato di controllo. In un film dove le forze dell’ordine praticamente non appaiono mai, è attraverso queste immagini che il regista ci ricorda che ci sono occhi che vedono anche quando non ci pensiamo, anche quando non vogliamo, immagini che poi possono essere usate o meno in fase processuale da chi ne ha accesso e le controlla.
Il film è dedicato «A Davide e Tommaso Bifolco… A tutti i Davide del mondo». A quei Davide che sanno che potrebbero essere i prossimi.