approfondimenti
OPINIONI
Seid Visin: oltre la cronaca e la propaganda elettorale
Occorre cambiare punto di osservazione sulla tragica morte del giovane Seid, perché in caso contrario non potremo trarne alcun insegnamento utile e questo evento terribile resterebbe “muto”. Ma questo non deve accadere: lo dobbiamo a Seid, lo dobbiamo a tutti gli altri giovani italiani che vivono lo stesso quotidiano di sofferenza che quest’ultimo descriveva nel suo post
Negli ultimi giorni, sugli account social di Giorgia Meloni, di Matteo Salvini e di alcuni dei loro seguaci sono apparse varie dichiarazioni riguardo al suicidio del giovane Seid Visin a Nocera Inferiore.
Di queste, tutte più o meno simili nei contenuti, mi hanno particolarmente colpito due aspetti: in primo luogo, che, accanto alle rituali espressioni di cordoglio indirizzate alla famiglia (e sulla cui sincerità non posso, né voglio, esprimermi), compariva sistematicamente un “j’accuse” contro l’opera di strumentalizzazione politica dell’episodio che, nell’opinione degli autori dei post, era in atto da parte di vari esponenti della Sinistra e che, a seconda dei casi, veniva attribuita a ingenuità o malafede.
In secondo luogo, che, come prova inconfutabile di ciò fossero portate le parole del padre del ragazzo il quale, in risposta al polverone mediatico sollevato da un post scritto qualche anno fa dal figlio e letto pubblicamente durante il funerale, aveva negato che il gesto fosse legato a episodi di discriminazione. Anzi, alcuni dei post, in modo sottile e sottinteso, mi sono parsi suggerire che le dichiarazioni del padre di Seid fossero da interpretarsi come un’assoluzione generale di valore ancora più generale: come la dimostrazione che in Italia non abbiamo alcun problema di razzismo; e che, comunque, la Destra non ne sarebbe colpevole (Non possiamo non citare, in questo senso, la squadra di Salvini che, brandendo in funzione apotropaica il senatore Iwobe come se fosse un crocefisso, fa notare che il suo partito l’integrazione la pratica, mentre altri la predicano… Che dire? Chapeau!).
Tutte queste reazioni mediatiche mostrano una certa coerenza di forma e contenuto, tradendo il fatto che sono tutte espressione della stessa strategia comunicativa, di una ben sperimentata tecnica di distrazione per spostare il focus della discussione su un argomento o un aspetto della questione che sia più congeniale o, almeno, in cui il proprio “torto” sia meno evidente. Una strategia non per vincere una discussione, ma per soffocarla.
Il primo obiettivo è spostare l’attenzione del pubblico dal nucleo della questione a un suo aspetto secondario, in modo da polarizzare il dibattito attorno a questo. È facile: basta fare una dichiarazione shock, un’accusa anche palesemente infondata.
Non importa il contenuto, basta che l’avversario sia costretto a rispondere nel merito. Infatti, in tal modo, la sua risposta fornisce l’appiglio per replicare ancora e ancora. E così, in un attimo, stiamo parlando d’altro senza che nessuno se ne sia accorto. Per massimizzare la sua efficacia, tra l’altro, è meglio se il dibattito viene spostato attorno a una questione mal posta, a cui non sia possibile dare una risposta netta e definitiva basandosi semplicemente su dati e ragionamenti scientifici (magari anche solo perché questa non è accessibile al grande pubblico), in modo che le persone possano prendere posizione sulla base delle loro convinzioni precedenti… cioè, senza intaccarle.
Non è una questione di contenuto, ma di forma: bisogna semplificare la complessità e strutturare il dibattito in modo dicotomico. Niente vie di mezzo: o con noi, o contro di noi. E fare in modo che le prese di posizione emozionali e pregiudiziali possano prevalere sul ragionamento.
Il problema è che, se leggiamo il post che Seid scrisse tre anni fa solo per capire se dimostra o meno che gli episodi di razzismo sono direttamente legati al suicidio, non troveremo mai una risposta definitiva: potremmo dibatterne all’infinito…
Finiremo con lo sfiancarci a discutere sul valore delle prove che gli uni portano contro gli altri e viceversa, ma non arriveremo mai a una risposta definitiva: nessuna prova potrà mai dimostrare in modo definitivo e incontestabile un collegamento diretto tra gli episodi di razzismo e il suicidio. E non potrebbe essere altrimenti: un suicidio non è mai legato a una sola motivazione, è una decisione che matura in reazione a un contesto di vita, a una costellazione di fattori sociali, psicologici, fisici articolati tra loro in modi complessi e sempre unici. Ecco perché focalizzare il dibattito su questo aspetto mi sembra una trappola: ci fanno concentrare sul dito che indica, per distogliere l’attenzione dall’oggetto indicato.
Se leggiamo le parole scritte dal ragazzo per quello che raccontano, senza sforzarci di analizzarle a partire da un prisma interpretativo posto a priori – nel nostro caso capire se gli episodi di razzismo di cui parla il ragazzo siano collegati al suo suicidio o no – ci rendiamo conto che testimoniano di un contesto di vita fatto di sofferenza, umiliazioni, frustrazione e disillusioni in cui il razzismo era endemico e quotidiano; un contesto di vita che, purtroppo, è comune a tanti giovani italiani.
Alla luce di ciò, è veramente la cosa più importante capire se gli episodi raccontati nel suo sfogo mediatico siano più o meno collegati al suo gesto? Io credo di no.
Dare voce non significa semplicemente prevedere uno spazio e un tempo in cui una persona sia libera di raccontarsi come vuole e non obbligata a farlo secondo un modello narrativo imposto dall’ascoltatore: dare voce è anche e soprattutto imparare ad ascoltare.
Interpretare i discorsi altrui esclusivamente per trovare risposte a domande che ci si poneva già prima di ascoltarli è limitante: non troveremo nient’altro che quello che già pensavamo di trovare… Al costo di forzare la realtà per farla entrare nei nostri schemi. È necessario ascoltare le parole per quello che raccontano e lasciare che sia proprio il racconto stesso a suggerire le sue chiavi di interpretazione, le domande con cui interrogarlo, gli elementi più interessanti…
Nel nostro caso specifico il punto non è capire se gli episodi di razzismo subiti siano o meno una causa diretta della morte. Il punto è, piuttosto, che questi episodi strutturavano la vita quotidiana di Seid: il contesto in cui la decisione di uccidersi è stata presa.
Quello che ci racconta quel post è come Seid viveva prima, cosa viveva prima, come si viveva prima di suicidarsi: quel post ci racconta quale contesto di vita l’Italia ha offerto a questo ragazzo. Che questo contesto abbia in qualche modo modellato la sua personalità mi sembra così evidente da non aver bisogno di ulteriori dimostrazioni. La cosa interessante, invece, è cercare di capire secondo quali processi, in una parola: il “come”.
Cosa che lui non si sentiva, né poteva sentirsi. E non è solo una questione di scuola: Seid guardava gli stessi cartoni animati, mangiava le lasagne fatte dalla mamma alla domenica e probabilmente guardava schifato – come tutti noi – i francesi mettere la panna nella carbonara. Il suo scritto racconta di un ragazzo confinato dagli sguardi della gente a un’identità di straniero che non era la sua, che non voleva e che non poteva assumere… Eppure, era la sola identità che gli era permessa, dato che quella a cui era stato educato e a cui aspirava – quella italiana – gli veniva negata.
Ricorda la situazione di quegli ebrei che, benché laici, non interessati e quasi incoscienti delle loro origini, si ritrovarono di colpo costretti a fare i conti con il fatto che erano ebrei loro malgrado: non erano più italiani o tedeschi o austriaci, come si erano sempre pensati e come erano stati educati a essere, ma ebrei. Penso a Primo Levi e a Jean Amery, non a caso morti entrambi suicidi. Ecco da dove dovrebbe partire la riflessione attorno allo sfogo di Seid, almeno secondo me. Anzi, dovremmo andare anche oltre e chiederci non solo cosa quelle parole raccontano della vita di Seid, ma anche cosa rivelano di noi italiani.
Ormai, almeno ufficialmente, ci raccontiamo che abbiamo superato il razzismo: i nostri sovranisti spiegano che non ce l’hanno con i neri perché sono neri, ma solo con quelli che delinquono, che non voglio non integrarsi, che minacciano il nostro stile di vita. Ma se così fosse, allora perché Seid veniva discriminato? In base a cosa?
Non certo perché fosse un migrante irregolare perché, da un punto di vista amministrativo, non solo era in regola ma era proprio italiano a tutti gli effetti, un cittadino a pieno titolo.
Non certo perché non volesse integrarsi o vivesse di espedienti, infatti aveva un lavoro. Anzi, se leggiamo le sue parole, verrebbe quasi la tentazione di pensare che la sua integrazione fosse parte del problema: non si può non notare che, tra le ragioni che lo hanno portato a lasciare il suo impiego, cita che gli si rimproverasse di rubare il posto agli italiani. Lui che era e si sentiva italiano come tutti gli altri! Ecco un altro esempio lampante di come funziona quella che ho chiamato “ingiunzione paradossale”: uno straniero senza un lavoro, sarà considerato un parassita fannullone; chi invece se n’è trovato uno, sarà comunque considerato tale, perché verrà accusato di rubarlo a chi ne ha diritto.
Non certo perché sarebbe responsabilità di altri Stati europei. Se pure volessimo sottolineare le sue origini “biologiche”, Seid era nato in Etiopia, nostra ex-colonia: era figlio di una di quelle “belle abissine” a cui facemmo pagare un nuovo duce, un nuovo re e qualche strada (che tra l’altro nessuno ci aveva chiesto) con morti, feriti, stupri e altre violenze.
Non certo perché voleva sovvertire i nostri costumi o li rifiutava: quale sogno più nazional-popolare del diventare calciatore abbiamo in Italia? Non stiamo parlando di un pashdaran iraniano, di un miliziano di DAESH o di una blackpanther: non è che volesse imporci i suoi costumi, o non volesse adattarsi ai nostri. I “nostri costumi” erano i “suoi”: il problema è proprio che gli abbiamo impedito di essere l’unica cosa che poteva e voleva essere, italiano. L’unica cosa che aveva imparato a essere, perché glielo avevamo “insegnato” noi.
E allora? Beh, la risposta può fare male ma, per esclusione, non può che essere una: il problema stava nel colore della sua pelle.
Ecco il grande e insormontabile ostacolo attorno a cui si struttura l’ingiunzione contraddittoria. Già, non importa quando bene imparerai a fare la pastiera napoletana o il ragù: resterai sempre un “negro” e la tua pastiera (o il tuo ragù) magari sarà buona – persino perfetta – ma lo sarà sempre «nonostante sia stata fatta da uno straniero».
Faccio un esempio: nessuno si è mai chiesto quanto io fossi italiano quando a 15 anni giravo con la cresta viola e i pantaloni a fantasia scozzese (abbiamo tutti degli scheletri nell’armadio!); nessuno si pone la stessa domanda davanti a un ragazzo bianco che porta i dreadlocks; ma tutti noteranno i segni di “integrazione o non-integrazione” di una persona identificata come estranea alla nazione e in tutti gli aspetti del suo quotidiano.
Il suo comportamento sarà analizzato fin nelle minime sfumature per misurare quanto questa si stia avvicinando all’obiettivo. Capiamo bene che questo modo di fare sottintende due cose: da un lato, che l’indagato è per definizione un corpo estraneo e lo resterà per sempre. Per quanto si sforzerà, potrà solo accostarsi al traguardo dell’integrazione e sarà sempre suscettibile di “retrocedere” ogni volta che un suo comportamento tradirà la sua non appartenenza al corpo nazionale: sarà trattato in modo diverso da chi viene identificato senza discussioni come “italiano vero”.
Dall’altro, quando parliamo di integrarsi, vogliamo sostanzialmente dire che il nuovo arrivato deve diventare uguale a noi. Questo significa: in primo luogo, che è solo lui a doversi sforzare di assomigliarci mentre noi –“Europei de souche” – nel migliore dei casi, non abbiamo altro compito che giudicare quanto si sia avvicinato allo scopo; nel peggiore, contribuiamo a sanzionare la sua Alterità radicale e irriducibile con i nostri giudizi, comportamenti e sguardi. In secondo luogo, ancora una volta, l’obiettivo non sarà mai raggiungibile: non solo il modello a cui assomigliare non è chiaro (diventare uguale a noi chi? Europei o italiani? Campanio veneti? Bergamaschi o bresciani? E quali sono i tratti pertinenti da valutare? Alla fine sarò uno: il colore della pelle).
Riuscite a immaginare a che punto tutta questa situazione possa dilaniare l’intimo di una persona? Soprattutto nel caso di un adolescente o di un giovane adulto, che sta attraversando una fase della vita in cui, per l’appunto, la ricerca e costruzione di una propria identità personale è centrale e può prendere toni drammatici anche senza le complicazioni legate all’essere straniero.
Ecco, secondo me, a cosa dovrebbero farci pensare le parole di Seid: per non restare a dibattere solo sul suo caso, ma renderlo uno strumento per salire in generalità e capire il quotidiano che accomuna tanti altri ragazzi e ragazze in Europa… Persone che vivono la stessa lacerazione identitaria di Seid, anche se ognuno con sfumature diverse legate al proprio specifico contesto di esistenza e alla propria traiettoria di vita. E ognuno reagendovi in modo diverso: c’è chi fa finta di nulla e impara a soffrire in silenzio; c’è chi cerca una soluzione facendo riferimento ad altre identità, che siano accessibili e che diano senso alla contraddizione insolubile che vive ogni giorno.C’è chi cerca di cancellare ogni stigma che possa tradire la sua non conformità al modello implicito proposto dalla società in cui vive (magari sbiancandosi la pelle, come fece un noto cantante) o diventando più nazista dei nazisti, come accadeva ai kapò nei campi di concentramento); c’è poi chi si ammazza perché ha provato altre soluzioni e adesso non ce la fa più…
Immagine di copertina: Ac Milan
Foto nell’articolo, in ordine: Luigi D’Alife, Peter Zullo, Ginevra Abeti. Foto di Seid Visin tratta dall’account twitter di Ac Milan