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“Sea-Watch 3” di Jonas Schreijäg e Nadia Kailouli
La scorsa estate due giovani giornalisti tedeschi erano a bordo della Sea Watch insieme a Carola Rackete durante le convulse ore che portarono la nave olandese alla forzatura del divieto di attracco in territorio italiano. Quello che ne è venuto fuori è uno splendido documentario – presentato sabato scorso al Festival dei Popoli e già circondato dalle prevedibili polemiche da parte della stampa di destra – che guarda dall’interno quell’esperienza e che mostra il controcampo di una delle più vergognose speculazioni politiche da parte dell’allora Ministro dell’Interno Salvini
Il 26 giugno del 2019 la capitana della nave Sea-Watch 3 Carola Rackete decide di forzare il blocco navale imposto dalle autorità italiane – e in particolare dall’allora Ministro dell’interno Matteo Salvini – e di entrare nelle acque territoriali italiane. Seguiranno molte ore di mediazioni, tentennamenti, discussioni, fino alla decisione di attraccare al porto di Lampedusa all’1.50 di sabato 29, mettendo fine all’assurda agonia di decine di essere umani stipati a bordo della nave, tratti in salvo dal Mediterraneo centrale settimane prima.
È storia nota, naturalmente, che abbiamo seguito passo passo la scorsa estate, una storia tanto delirante quanto esemplare della situazione politica attuale. Adesso finalmente questa storia la si può vedere raccontata dall’interno, grazie al film Sea-Watch 3: Jonas Schreijäg e Nadia Kailouli, due giovani inviati di una TV pubblica tedesca, erano infatti a bordo della nave insieme ad altri 22 membri dell’equipaggio. In meno di due ore, il film racconta le varie fasi della missione, che doveva essere una missione come tutte le altre – ammesso e non concesso che recuperare corpi vivi o morti nel Mediterraneo possa e debba essere un’operazione ordinaria – e che invece si è trasformata in un caso politico internazionale perché proprio in quei giorni il Governo giallo-verde riusciva a far approvare il decreto sicurezza bis. Vediamo il momento in cui la Sea-Watch 3 avvista il gommone blu con i migranti, il momento del salvataggio, l’arrivo sulla barca dei 53 migranti, la vita quotidiana in spazi ridottissimi, lo sbarco di un numero ridotto di donne e bambini e di uomini malati, il via vai delle forze dell’ordine, dei rappresentanti istituzionali, e dei mezzi di soccorso della Guardia Costiera.
Un film in presa diretta, che attinge dalla miglior tradizione del cinema documentario, fatto con uno sguardo e un approccio profondamente giornalistico. Schreijäg e Kailouli infatti si ritengono giornalisti, e lo rivendicano dal palco del Festival dei Popoli dove il film è stato presentato lo scorso sabato, preceduto da polemiche strumentali e faziose dei giornali di destra (basti il titolo di uno di questi per capirne il tono: “Se il festival buonista proietta un film su Carola Rackete”). Eppure questo è un film, un grandissimo film, più che un lungo reportage televisivo: ha una struttura del racconto pulita e precisa, priva di sensazionalismo ma con scelte registiche chiare e oculate, inclusa l’aggiunta di una musica mai troppo ingombrante. Tornati a casa, i registi avevano 40 ore di girato, realizzato usando una camera e due smartphone, oltre a una fondamentale go-pro usata per riprendere scene fuori bordo, e in un tempo brevissimo hanno montato il tutto in tempo per il Festival.
Gli spettatori sanno come finisce la storia, eppure il film tiene incollati allo schermo, a tratti sembra quasi un thriller politico. Il lungo tempo passato sulla barca ha dato la possibilità ai due registi, come loro stesso hanno sottolineato, di interagire di più sia con i migranti sia con l’equipaggio: sentiamo le storie atroci di chi è rimasto anche due anni in Libia, tra torture, arresti, e stupri; i tentativi di fuga, la voglia di ricominciare dall’altro lato del Mediterraneo; ma impariamo anche a conoscere alcuni membri dell’equipaggio, in particolare la capitana, il suo vice e uno dei medici di bordo Valeria Alice Colombo, anche lei presente in sala al Festival dei Popoli. Si parla sempre troppo poco di chi, in stragrande maggioranza volontari (almeno sulla Sea-Watch 3), passa mesi in mezzo al Mediterraneo cercando di rendere la vita migliore agli altri. Grazie a loro, ai momenti quotidiani, alla leggerezza (quella che rende il mondo migliore, non leggerezza sinonimo di stoltezza) che mettono in campo anche impegnati in compiti così gravosi, il film ha momenti addirittura divertenti, in cui il pubblico può rilassarsi un attimo, per poi di nuovo essere colpito nei momenti più duri. È una storia molto femminile, lo è la capitana, lo sono molte delle persone intervistate, mentre praticamente tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine che salgono a bordo sono uomini, e molti non giovanissimi: l’impatto simbolico è fortissimo, da una parte giovani volontari (molti visivamente alternativi, per così dire) e soggetti deboli e marginalizzati come i migranti, dall’altra il potere maschile. Questo però non è un film che giudica, che dà risposte semplici e scontate, è piuttosto un film che questiona e complica: se infatti i rappresentanti delle forze dell’ordine incarnano quel potere ottuso e maschile e applicano pedissequamente gli ordini (e fa sempre una certa impressione sentire un uomo in divisa dire «sto solo seguendo gli ordini»…), come hanno ricordato anche i registi si sono dimostrati più volte disponibili e gentilissimi. Nel film si vede chiaramente come in particolare gli uomini della Guardia Costiera (un corpo militare marittimo, che ben conosce le regole del mare) vorrebbero fare di più per risolvere la questione e salvare i migranti.
Tra i tantissimi pregi di questo film c’è quello di restituire un lato umano a vicende che troppo spesso smettono purtroppo di esserlo. Per esempio, quando Carola convoca l’equipaggio per la prima volta, specifica che la missione ha tre scopi: riportare a casa barca e equipaggio sani e salvi; salvare la vita a più migranti possibili; stare bene insieme. Troppo spesso ci dimentichiamo che gli equipaggi di queste navi sono composti da giovani, con sentimenti, paure, sogni e via dicendo. Vediamo i migranti festeggiare quando salgono a bordo; fare attività fisica a bordo, imparare le lingue, giocare con i bambini. L’umanità e la delicatezza con cui il film riprende questa comunità di esseri umani di 60-70 persone è tutto l’opposto di quanto si vede in altri prodotti recenti sul tema, come Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Nel più importante, visto e riverito film italiano su questi temi (anche da Renzi che lo regalò ai leader europei) i migranti sono oggetti senza voce ripresi sempre o quasi al buio, dove il regista è più interessato al suo estetismo voyeuristico che alla vita delle persone che riprende. Niente di più lontano da Sea-Watch 3, dove i migranti hanno voce, corpo, bisogni e desideri.
Il film non ha ancora una distribuzione italiana, né al cinema né in televisione, e un calendario ancora poco fitto di festival. Ma va visto, sostenuto, discusso, perché difficilmente si è vista e si vedrà una storia raccontata dall’interno in questo modo.