OPINIONI
Se viene il lupo
Nei giorni scorsi la polemica montata contro il corsivo di Gramellini sulla cooperante rapita in Kenya potrebbe apparire come un grande malinteso. Così almeno spera l’editorialista del Corriere. In realtà, ad emergere con chiarezza è lo sguardo colonialista e maschilista che caratterizza la destra italiana più retriva
«Voglio che si taccia, quando non si sente nulla» scrisse l’autoritario Breton nel primo manifesto del Surrealismo, datato 1924, ma sarebbe sufficiente anche solo il fatto che ci si astenesse dallo scrivere senza una previa riflessione. E se i social media impongono un commento immediato e istantaneo alla realtà, la più longeva forma dell’editoriale dovrebbe garantire un più oculato soppesare le parole, ma non sempre così avviene, come nel caso dell’editoriale di Massimo Gramellini del 22 novembre, intitolato «Cappuccetto rosso». La vicenda a cui si riferisce è, come noto, il rapimento, in Kenya, della cooperante Silvia Romano, sul quale ancora mancano informazioni certe a riguardo di esecutori e mandanti, e allo squallido trattamento a lei riservato sulla rete (e che, tra le altre cose, ricorda da vicino i commenti che furono spesi per Simona Torretta e Simona Pari o per Giuliana Sgrena).
Non conoscendo Silvia Romano non posso che astenermi da giudizi sulle sue aspirazione e scelte di vita, ma solo ammirarne il coraggio, auspicare per lei una risoluzione positiva della vicenda ed esprimere la mia vicinanza alla famiglia.
La polemica montata sul corsivo di Gramellini potrebbe anche sembrare un grosso malinteso, come pretende l’autore, ma imputando l’errore solo ai destinatari e (sia mai!) al messaggio, se si prende per buona la versione di un primo paragrafo ironico ricalcato sulle opinioni di “senso comune”, rovesciate in una difesa con un «eccesso di empatia nei confronti della ragazza» nel secondo. Ammettiamo per vera, per il momento, questa versione, almeno nelle intenzioni. Se lo fosse, alle spiegazioni postume farebbero riscontro l’andamento del pezzo in questione e le sue modalità di lancio sul web. Mi preme sottolineare, inoltre, che non è tanto l’opinione del vicedirettore del “Corriere della Sera” (non nuovo, tra l’altro, a scivoloni del genere) a interessarmi in particolare, quanto gli assunti che sono impliciti e che agiscono anche in un testo formulato da un rappresentante dell’establishment liberal o sedicente di sinistra.
Già il titolo dice molto, anzi, la metafora è già dispiegata, è tutta lì. La fiaba, nei suoi elementi principali, la conosciamo tutti: una bambina, individuo quindi incapace di intendere e volere, non ancora persona sui iuris, si avventura in un bosco e viene mangiata da un lupo, qui la «banda di somali» che si ipotizza abbia rapito la cooperante, e verrà salvata da un cacciatore, uno dei prototipi del prode maschio bianco armato che libera la donna in catene e che abbiamo già visto all’opera, ad esempio, nella narrazione mediatica dell’intervento militare occidentale in Afghanistan volto a permettere alle donne, appunto, di togliersi il burqa.
Nel primo paragrafo, poi, si dispiega tutto l’armamentario della destra più retriva: la donna vista come minore, irrazionale e costitutivamente instabile, sopraffatta dalle «sue smanie d’altruismo», che farebbe meglio a starsene a casa sua (al massimo) ad aiutare i nostri poveri in una qualche mensa (e dove, se non dietro i fornelli?) di un’associazione cattolica; la disumanizzazione dell’altro che, essendosi la vicenda svolta sul continente africano, dipinge i bisognosi d’aiuto come selvaggi che vivono nelle foreste e animalizza impunemente i rapitori accostandoli al lupo della fiaba (di sicuro delinquenti e violenti, ma che siano somali, e perciò stesso terroristi islamici affiliati alle milizie di Al-Shabaab, è questo il sottinteso, non è per nulla certo); gli immancabili sudati soldi dei contribuenti malamente spesi per salvare qualcuno che se l’è cercata; lo sminuire l’impegno di chi si mette realmente in gioco (anche con il proprio corpo) che è l’esatto contrario del conformismo o di una scelta avventata. Se tutto questo è solo ironico, non si vede davvero quali siano i marcatori, quali gli indicatori del tono usato a parte quello, debolissimo, dell’uso del condizionale.
Quello che si configura come sguardo colonialista e intimamente maschilista, nel secondo paragrafo, si apre ai buoni sentimenti, alla predica paternalista e, dopo aver sminuito e dileggiato la vittima, l’autore se la prende con chi, sul web ha fatto lo stesso con toni più aspri, ma da posizioni di potere infime rispetto a quella di un vicedirettore del “Corriere” e conduttore di un programma in Rai (cos’è «un po’ folle» se non un eufemismo per «disturbata mentale»?), mentre promette una bella «ramanzina» alla cooperante, redarguita in quanto figlia, unico ruolo che può assumere una giovane nell’immaginario patriarcale, a palesare ancora la tendenza maschile all’inferiorizzazione della donna. Ma gli attacchi ai soliti haters livorosi non vertono sul loro disgustoso scagliarsi contro una vittima, cosa che avrebbe dovuto imporre una revisione di tutto l’impianto dell’editoriale, quanto, invece, moralisticamente per un ipotetico oblio della categoria nostalgica e postmoderna di giovinezza, che, si sa, è sempre un po’ una primavera di bellezza.
Ricapitolando: se il pezzo fosse nel complesso ironico, non si spiegherebbe il titolo, se lo fosse solo nella prima parte, non si spiegherebbero il tono della stessa, l’uso del termine ramanzina nel secondo paragrafo, né quello della ripresa dello slogan, tanto caro alla Lega, ma pure a molte altre forze parlamentari, quell’«aiutarli a casa loro» usato ogni qual volta si voglia giustificare il proprio razzismo con argomenti caritatevoli.
Ulteriore elemento da tenere in considerazione per la ricezione del corsivo di Gramellini è la modalità del lancio del pezzo sui social networks, come ben sottolineato da Davide Maria De Luca su Twitter e come riportato da Matteo Pascoletti su Valigia Blu: nell’editoriale del 23 novembre, in risposta alle polemiche seguite alla pubblicazione di «Cappuccetto rosso», Gramellini se la prende con un ignoto «furbacchione» che avrebbe estrapolato il primo paragrafo del suo testo impedendone così una corretta interpretazione, quando il primo paragrafo risulta essere l’esergo scelto dal lui stesso (o dal suo staff) per lanciare il pezzo in questione.
L’impressione che si ricava dalla vicenda è che ci si trovi sì di fronte a un esempio magistrale di utilizzo spregiudicato dei peggiori sentimenti che allignano nel paese con il fine di una maggiore visibilità mediatica, ma pure di qualunquismo e di larvati (ma nemmeno tanto) maschilismo e razzismo presenti nell’immaginario, nei discorsi e negli atti perlocutori di tanta parte di quella che ancora si chiama (o che si autodefinisce) sinistra (cfr. Alessandro Dal Lago, Non-persone, 1999).
Resterebbe da capire, infine, quale possa essere l’utilità dell’utilizzo di una (presunta) ironia talmente sottile dal non essere colta pressoché da nessuno, ma che invece solletica quel senso comune che si vanterebbe di smascherare e che sorregge e plaude alle azioni repressive delle istituzioni, di una magistratura alla ricerca di untori e di governi volti al restringimento dei diritti dei più deboli e delle donne.