approfondimenti
EUROPA
Se la rotta balcanica si ferma a Bihać
Reportage da Bihać, città bosniaca tra gli snodi principali della rotta balcanica, dove il passaggio dei flussi migratori mette in evidenza tutte le contraddizioni della Fortezza Europa
Bihać è una piccola città. La guerra dei Balcani si è sentita parecchio da queste parti. Bihać come Sarajevo. Tre anni sotto assedio. Basta camminare per la città, a distanza di 21 anni, e osservare i segni sui muri. Le pallottole. Gli edifici semi-distrutti. Abbandonati. E basta parlare con le persone, che quel posto l’hanno attraversato, per capire che la guerra non è mai andata via. È ancora lì. I venti indipendentisti portati avanti da Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina e leader dell’Unione dei socialdemocratici indipendenti (Snsd), che ormai da settimane promuove diverse iniziative volte ad aumentare i poteri della Republika Srpska (una delle tre entità che costituiscono la Bosnia-Erzegovina) a scapito di quelli delle istituzioni centrali, ne è la più recente dimostrazione.
Il fiume Una divide la città in due.
Molto vicino vi è un’altra divisione, altrettanto luminosa. Sulle colline è ben distinta la separazione tra Bosnia e Croazia. A scanso di equivoci.
Bihać è diventata tristemente famosa per l’incendio accaduto nel campo formale di Lipa nel dicembre 2020, ove quasi tutta la struttura fu distrutta. In quel momento gli occhi dell’opinione pubblica europea erano rivolti verso la Bosnia, rendendo visibile quali sono le condizioni in cui i People on the move sono costretti a vivere (da lì a poco ci fu anche una visita di una delegazione di parlamentari europei). Una piccola parte del campo di Lipa fu successivamente ricostruita dall’esercito bosniaco. Durante l’anno successivo, l’Iom (International Organization Migration, agenzia delle Nazioni Unite) ha costruito delle strutture nuove a Lipa, adiacenti al “vecchio Lipa”. L’apertura era prevista per il 6 settembre salvo poi essere rimandata di volta in volta, fino al 19 novembre, data dell’inaugurazione ufficiale.
Alcuni europarlamentari sono tornati durante l’ottobre 2021 in Bosnia. Il giorno precedente alla visita programmata nei campi informali (squat, case abbandonate, “jungle”) a Velika Kladusa, molti di essi sono stati sgomberati dalla polizia bosniaca. Forse è facile chiedersi il perché di questo gesto. In conclusione, la visita è stata cancellata.
LE JUNGLE
A oggi è difficile stabilire quanti rifugiati vivono a Bihać. Essendo persone in movimento, non si può delineare una stima esatta. Il flusso di persone costante rende difficile l’opera di quantificazione. La maggioranza delle persone vive in case abbandonate, negli squat, in alloggi di fortuna, nelle tende. Vi sono le cosiddette “jungle”, alloggi informali – di solito costituiti da tende – nei boschi. Ma con “jungle” viene intesa anche quell’agglomerato di tende allocate nei pressi del fiume Una, dove il verde non è così prevalente. D’altronde il termine “jungle” deriva da quel gigantesco accampamento a Calais, in Francia, dove tra il 2015 e il 2016 vivevano migliaia di persone, in attesa di tentare un altro tipo di game, quello che porta in Inghilterra tramite il Canale della Manica.
Le condizioni sono disumane. La possibilità di contrarre malattie è molto più alta. Le malattie epidermiche, come la scabbia, sono diffusissime. E la mancanza di accesso alle cure sanitarie non contribuisce a una sanità collettiva.
La rimozione del tempo. È uno degli aspetti più gravi di questo tipo di migrazione. Viaggi lunghi ed estenuanti sono le fondamenta di un malessere fisico e psicologico. Essere fermi in Bosnia, per anni. Senza possibilità di investire su se stessi, senza poter studiare, senza poter lavorare, senza avere una prospettiva dove le azioni possano avere una catena consequenziale. La progettualità non può esistere.
Incontro Sher. Ha 17 anni, viene dal Pakistan. Ha lasciato il proprio paese quando aveva 12 anni, perché nella sua scuola erano usuali degli scontri a fuoco. Allora la famiglia ha deciso di farlo partire. Sher parla inglese ma non sa leggere. Non ha avuto la possibilità di imparare, di studiare. Di progettare, appunto.
Come già accennato in precedenza, il campo formale più importante è quello di Lipa. È situato fuori dalla città, a circa 20 km dal centro di Bihać, ed è vissuto prevalentemente da single men.
Un’altra struttura è il Borici Camp, situata all’interno di Bihać. Si tratta di un ex studentato che ospita famiglie. È caratterizzato da una particolarità dai contorni foucaultiani: non si può lasciare il campo dopo le 16.00. Una volta usciti dopo quell’ora non è più possibile entrare. Un dato molto interessante sulla riflessione concernente il controllo dei corpi.
UNA COSTANTE VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI
«Sono arrivato in Italia, sono stato 14 giorni in quarantena a Trieste. Poi mi hanno fatto firmare delle carte e mi hanno riportato in Bosnia». Questa è una delle tante testimonianze che possiamo trovare in quello spazio-tempo chiamato “rotta balcanica”, dove vige una costante violazione dei diritti umani.
L’anno scorso il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso portato avanti da Caterina Bove e Annalisa Brambilla, avvocatesse dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), concernente uno dei tanti pushback effettuati dallo Stato italiano. Secondo il tribunale di Roma, la procedura delle “riammissioni” dall’Italia alla Slovenia (che nel 2020 ha riguardato almeno 1.400 persone) viola le norme internazionali, europee e nazionali che regolano l’accesso alla procedura di asilo, in particolare l’articolo 10 della Costituzione italiana, l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati che sancisce il divieto di respingimento (non refoulement) e l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che sancisce lo stesso principio. Inoltre l’Accordo bilaterale fra il nostro Paese e la Slovenia sulla riammissione delle persone alla frontiera, firmato a Roma il 3 settembre 1996, non è mai stato ratificato dal Parlamento. Di conseguenza non può apportare modifiche o derogare alle leggi vigenti in Italia o alle norme UE o alle norme di diritto internazionale.
Per Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi, l’associazione di giuristi esperti di diritto delle migrazioni, l’Italia è stata condannata «non per qualche modesta violazione di legge ma per avere impedito al ricorrente (come è avvenuto a centinaia di altre persone) di esercitare il diritto, costituzionalmente tutelato, di presentare domanda di asilo».
Tuttavia il 30 luglio 2021 sono ripartiti «nelle province di Trieste/Koper e Gorizia/Nova Gorica i pattugliamenti congiunti italo-sloveni lungo la comune fascia confinaria al fine di rafforzare i rispettivi dispositivi di contrasto ai flussi migratori irregolari provenienti dalla rotta balcanica».
Così recita il comunicato stampa della questura di Trieste, a testimonianza di una precisa volontà politica collettivamente individuata dalla ministra italiana Lamorgese e dal ministro sloveno Hojs.
LA ROTTA BALCANICA
L’area balcanica rappresenta uno dei principali canali di ingresso in Europa dei People on the move (è un termine che la rete Border Violence Monitoring Network usa per indicare le persone in movimento, in quanto i termini “migranti” o “rifugiati” sono usati spesso in maniera interscambiabile seppur alla base del loro significato vi siano evidenti differenze legislative e strutturali).
La rotta balcanica, quello spazio-tempo dove i diritti umani vengono violati costantemente, non ha un inizio definito. Abbraccia tutto quello spazio che va dalla Turchia a Trieste. Un viaggio lungo, interminabile, dove la migrazione contemporanea esplica i suoi lati peggiori.
Analizzando quest’area, sottovalutiamo il fatto di trovare sia paesi dell’Unione Europea (Grecia, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Ungheria) sia Paesi esterni all’Unione (Macedonia del Nord, Serbia, Kosovo, Albania, Montenegro, Bosnia-Erzegovina), tuttora segnati da profonde tensioni.
Ma facciamo un passo indietro. Siamo nel 2015, la guerra in Siria è in pieno svolgimento, andando a innescare una vera e propria diaspora da parte di questo popolo.
Dalle coste della Turchia con mezzi di fortuna cercano di arrivare sulle isole greche dell’Egeo orientale, in particolare a Lesbo, dove a Moria sorge uno dei più grandi campi profughi. È in questo contesto che la cancelleria Angela Merkel prende la decisione di accogliere un milione di rifugiati siriani in Germania.
Da allora però, le maglie degli ingressi regolari in Europa, attraverso canali umanitari e programmi di reinsediamento, si sono fatte sempre più strette. Si attua la pratica dell’esternalizzazione delle frontiere. Il fiore all’occhiello di questa politica è l’accordo siglato con la Turchia nel marzo 2016, stabilendo che quest’ultima ricevesse, in diverse tranches, 5 miliardi di euro per bloccare i migranti nella loro nazione. Nel Patto per la Migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione europea del settembre 2020 si celebra la bontà di questo accordo. Infatti si afferma che «la dichiarazione Ue-Turchia del 2016 rispecchia l’intensificarsi dell’impegno e del dialogo con la Turchia, contribuendo anche a sostenere gli sforzi del Paese per accogliere circa quattro milioni di rifugiati». Questo approccio corre congiuntamente con l’approccio di paesi hotspot come Grecia, Bosnia, Macedonia ove si costruiscono giganteschi campi di confinamento dei migranti, normalizzando un fenomeno che tratta le persone come «vite di scarto», concetto tristemente espresso dal sociologo Zygmunt Bauman.
IL GAME
A oggi siamo nel 2021 e la rotta balcanica continua a essere percorsa in maniera notevole.
Per entrare nella “Fortezza Europa”. Per raggiungere l’European dream. Per poter accedere a una vita dignitosa. Con umorismo cinico, le persone che lavorano nell’ambito umanitario e gli stessi people on the move definiscono il tentativo di attraversamento delle frontiere con il termine “game”. Il game è un fenomeno intriso di violenza, intimidazione, deprivazione. Migliaia sono le testimonianze che accertano questa pratica implementata quotidianamente dalle forze di polizia in quel lembo di terra. Le persone sono costrette a correre rischi enormi, temperature al limite, negoziando con i trafficanti, affrontando percorsi ardui e pericolosi, comprese foreste e fiumi impetuosi. E la violenza, inaudita, dell’uomo. E dei cani, usati come armi contro i People on the move.
Le modalità per compiere il game sono svariate. La più comune è l’attraversamento del territorio a piedi. Dalla Bosnia a Trieste sono generalmente quindici giorni di cammino.
Tendenzialmente si parte in gruppo, con un numero variabile di compagni. Ci si affida a un passeur, che guida il gruppo nel tortuoso percorso. Il prezzo da pagare è di 1000 euro. Il pagamento va a buon fine solo se si raggiunge la meta. Un altro modo è il cosiddetto “taxi game”. Il mezzo di trasporto è un’automobile comune. Una volta arrivate al confine, le persone lo attraversano a piedi mentre l’automobile sorpassa la frontiera attraverso la dogana ufficiale. Oppure vi è un’altra macchina che aspetta le persone direttamente dall’altra parte del confine. Stessa procedura avviene alla frontiera tra Croazia e Slovenia. Il costo per questa modalità è più elevato e si aggira attorno ai 3.200 euro per persona. Un’altra forma, più rara, è quella rappresentata dal “truck game”, ovvero nascondersi dietro un camion che generalmente trasporta merci e attraversare la regione in questa maniera.
Il pushback rappresenta l’altra metà della storia. È il termine usato per descrivere la pratica attuata dalle autorità di pubblica sicurezza al fine di impedire alle persone l’accesso nel nuovo territorio, respingendoli con l’uso della forza. Sono pratiche coercitive, che solitamente coinvolgono un gruppo di persone. La deportazione, in assenza di una supervisione legale e di un’esaminazione di ciascun caso, è proibita dal diritto internazionale. Inoltre i respingimenti violano le leggi internazionali e dell’Unione Europea circa il diritto di chiedere asilo.
In questo modo non si dà la possibilità di perseguire un giusto processo e non si rispetta neanche il diritto al non refoulement (non respingimento), costringendo le persone a tornare in luoghi dove la loro vita potrebbe essere in pericolo, minando l’articolo 33 della Convenzione Onu dei Rifugiati del 1951.
In ottobre, un eccellente reportage del giornale tedesco “Spiegel”, ha dimostrato come sono sistematici e organizzati i pushback della polizia croata al confine tra Bosnia e Croazia.
Un altro report significativo è costituito dal “The Black book of pushbacks”, pubblicato da Border Violence Monitoring Network, in collaborazione con il Parlamento europeo (nello specifico con il gruppo parlamentare GUE/NGL), nel dicembre 2020.
In particolare, dalla primavera del 2018, posta la maggiore difficoltà di transito tra Serbia e Croazia e la quasi totale chiusura da parte dell’Ungheria di Orbán alle richieste d’asilo, viene intrapreso un nuovo percorso all’interno della multiforme rotta balcanica. Un nuovo snodo focale diventa il confine tra Bosnia-Erzegovina e la Croazia, in particolare nelle città di Bihać e di Velika Kladuša.
UNO STATO, DUE ENTITÀ
La Bosnia-Erzegovina rappresenta un caso-studio entropico dal punto di vista politico-amministrativo. Ha la sua origine negli accordi di Dayton, formalizzato nel dicembre 1995, per porre fine alla guerra dei Balcani.
La nazione comprende due entità: la Federazione di Bosnia-Erzegovina e la Republika Srpska. Le principali città della Federazione sono la capitale Sarajevo, e le città di Mostar, Tuzla, Bihać e Zenica, mentre nell’entità Republika Srpska le principali città sono Banja Luka, Bijeljina, Prijedor e Trebinje. Formalmente parte di entrambe le entità è il distretto di Brčko, un’unità amministrativa multietnica autogestita. Volendo facilitare ciò che era diventata una difficile convivenza tra etnie e al tempo stesso evitare che un’altra guerra scoppiasse in futuro, gli artefici dell’Accordo delinearono un sistema politico articolato su più livelli. In Bosnia esistono infatti ben 3 livelli di governo.
Ogni struttura politica, ovvero lo Stato centrale, le entità, I cantoni e il distretto di Brčko possiede propri apparati esecutivi, legislativi e giudiziari.
Il governo centrale è costituito da una presidenza tripartita, che si occupa degli affari esteri, diplomatici e militari, e del bilancio delle istituzioni a livello statale. I tre membri della presidenza provengono dalle tre nazioni costituenti – un bosniaco, un serbo e un croato.
Il Parlamento della Bosnia-Erzegovina comprende una Camera dei rappresentanti e una Camera dei popoli. I 42 membri della Camera dei rappresentanti sono eletti direttamente attraverso un sistema di rappresentanza proporzionale: 28 membri sono eletti nella Federazione, 14 nella Republika Srpska. I 15 membri della Camera dei popoli sono eletti indirettamente dai parlamenti delle entità, con due terzi dei membri dalla Federazione (cinque croati e cinque bosniaci) e un terzo dalla Republika Srpska (cinque serbi).
All’interno di questo sistema c’è lo sfondo costante di aspirazioni diverse: la Republika Srpska che cerca una maggiore autonomia, i partiti croati che cercano una terza entità e diversi partiti bosniaci che sperano in un paese governato più centralmente.
Queste sono le fondamenta della costituzione bosniaca, la cui frammentazione istituzionale e le frequenti dispute sulla distribuzione delle competenze tra i diversi livelli governativi contribuisce a causare una difficile gestione della res pubblica. Ovviamente la questione migratoria è una delle istanze che soffre maggiormente di questa disorganizzazione. Il cantone prevalentemente interessato da questo fenomeno è il Cantone di Una Sana, del quale Bihać e Velika Kladuša fanno parte.
LA RETE DI SOLIDARIETÀ
Congiuntamente al processo di insediamento delle persone in transito sulla rotta balcanica, in particolare a Bihać, è nata una rete internazionale di supporto composta da associazioni, movimenti e gruppi informali. Alcune organizzazioni hanno una presenza fissa nel territorio mentre altre hanno attivato reti di supporto e collaborazioni temporanee, in una prospettiva di aiuto reciproco e scambio. Tra le organizzazioni presenti costantemente vi è No Name Kitchen, della quale ho avuto l’onore di far parte negli ultimi mesi, che lavora a Bihać e Velika Kladuša dal 2018. Nnk fornisce primo soccorso sul posto alle persone che non possono accedere ai sistemi sanitari pubblici, coprendo anche il costo del trattamento per i casi che hanno bisogno di cure mediche specialistiche, come dentisti, dermatologi o oculisti. Distribuisce pacchi di cibo, acqua e vestiti caldi, tra cui scarpe, coperte o sacchi a pelo, per fornire alle persone i mezzi per la loro auto protezione.
Inoltre Nnk raccoglie le testimonianze delle persone che subiscono abusi alle frontiere e ha co-fondato il Border Violence Monitoring Network per produrre rapporti mensili e speciali sui respingimenti illegali con l’obiettivo di sensibilizzare e sostenere un cambiamento nelle politiche a livello nazionale e comunitario.
Durante la scorsa estate è nata la collaborazione con Yabasta, un collettivo bolognese, che ha apportato forze, energie e supporto a Nnk con il progetto B.U.R.N, con team composto da personale sanitario supportato da figure non-sanitarie per il lavoro di inchiesta e denuncia.
Un’altra splendida collaborazione è nata con il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, nato appunto per sostenere attivamente i migranti in cammino di tutto il mondo, in particolare quelli che percorrono le rotte balcaniche. Di estrazione eterogenea dal punto di vista anagrafico, sono autori di opere ingegneristiche di vario livello. La più importante è la costruzione di docce portatili, a mo’ di zainetto, che permette alle tante persone in movimento di farsi la doccia e di curare le malattie epidermiche molto diffuse, in primis la scabbia.
Frachcollective è un’altra organizzazione indipendente che lavora a Bihać. È un collettivo nato in Svizzera ma che ultimamente presenta una grande presenza tedesca tra le sue file. Anch’essi compiono un lavoro straordinario, in collaborazione con Nnk. Generalmente presentano un team composto anche da personale sanitario, fondamentale per le attività di First Aid. Inoltre compiono le attività di distribuzione acqua (in collaborazione con Nnk), cibo, vestiti e tutti i beni necessari alle persone.
Ultimamente è arrivata anche una delegazione di One Bridge to Idomeni, una onlus veronese, che lavora da anni nel contesto migratorio della Grecia.
Inoltre molto importante un’esperienza nata quest’anno, implementata dalla popolazione locale: l’associazione “U pokretu” (In movimento). Essa nasce dal desiderio dei giovani di Bihać insieme a volontari internazionali, di creare un luogo di incontro e formazione per i giovani locali, desiderosi di valorizzare il potenziale artistico-culturale della popolazione locale, attraverso la realizzazione di attività educative e ricreative, con l’obiettivo di sensibilizzare la comunità locale ai problemi, alle questioni e alle sfide attuali, come la migrazione, lo sviluppo sostenibile, la consapevolezza civica.
Tuttavia, Bihać rimane un non luogo per le persone in movimento. Da quelle parti non passa la rotta balcanica. Spesso lì si interrompe. Con il benestare delle istituzioni, in primis dell’Unione Europea. Che finanzia in maniera indiretta le pratiche di respingimento. Non garantendo i diritti fondamentali delle persone.
Gino Strada amava ripetere che i diritti devono essere propri di tutti gli uomini, sennò li dovremmo chiamare privilegi. A oggi, da quelle parti, i diritti son ancora ben pochi.
Tutte le immagini di Dario Ruggieri