OPINIONI
Scusa ma ti chiamo schifo
Ci sono delle persone che, nel corso della loro vita, raggiungono fama e successo. Senza che nessuno ne abbia mai capito il motivo. Una di queste è Federico Moccia, scrittore noto ai più per libri come Io e te tre metri sopra il cielo, Ho voglia di te, Scusa ma ti chiamo amore e altre robe del genere che parlano di storie adolescenziali dove in genere lei è una giovane vergine, mentre lui un duro da paura a cui lei regalerà il fiore della sua prima volta. OSSIA, LA SUA VERGINITÀ. Ovviamente lei si innamora perdutamente pure se il soggetto in questione è uno stronzo e la fa piangere disperata perché la tratta come una pezza da piedi. Una roba che alla me quindicenne – sì, ho letto anch’io Tre metri sopra il cielo, come tutti gli altri adolescenti – faceva venire voglia di cavarmi gli occhi e darli da mangiare ai sorci che popolano tutt’oggi i ponti sul Tevere. Quelli dove sono attaccati i lucchetti di tutte quelle coppiette che probabilmente sono durate nemmeno il tempo di spendere due euro dal ferramenta.
Ma questa è un’altra storia.
Perché sento oggi il bisogno di parlare di Federico Moccia? In realtà una spera sempre che soggetti del genere scompaiano e finiscano nel dimenticatoio, ma non si sa perché questo non sia successo con lui. Eh no, perché Moccia continua a scrivere di “amore” sui giornali e a infondere perle di saggezza assolutamente non richieste. E tra l’altro decisamente opinabili. Ma il peggio deve ancora arrivare, perché Moccia scrive il 10 ottobre sul “Corriere della Sera” un articolo dal titolo Femminicidio, la cultura dell’amore e del rispetto contro la violenza. Ma diamogli fiducia e andiamo a vedere cosa scrive dopo:
«Se un uomo di una certa età decide di uccidere la moglie o la compagna di una vita, perché magari è deluso dal fatto che certe dinamiche di coppia siano cambiate, perché il suo progetto di vita si è interrotto e con esso la complicità che c’era, o perché magari non si è trovato prima il modo e il coraggio di dire che un sentimento era finito da anni, il suo gesto tradisce il valore del tempo e l’obbligo etico che abbiamo tutti di viverlo al meglio e con sincerità, ma la loro colpevolezza è pari».
A parte che il periodo è lungo sei righe e già per questo andava cancellato. Per Federico Moccia il fatto che un rapporto non funzioni e che quindi l’uomo uccida la donna, indica che la colpevolezza è pari. Dopo giustificherà le sue parole dicendo che è stato male interpretato e che non voleva dire quello che ha scritto. Eppure Moccia è uno scrittore di professione che, per quanto deprecabile, sa perfettamente come usare le parole e sa qual è il senso che hanno se accostate a certi discorsi. Quindi adesso può anche provare a salvare capra e cavoli, ma il sunto non cambia: innanzitutto no, un uomo non uccide perché non c’è più complicità, uccide perché crede che la donna sia una sua proprietà e quindi non può contraddirlo o lasciarlo. No, non c’è sincerità che tenga di fronte a un soggetto del genere. No, non è “l’amore” (e non sicuramente quello che intende Moccia) a far sì che queste cose non si verifichino. No, non esiste pari colpevolezza in scenari del genere. È fuorviante e meschino usare questa parola in un contesto dove la donna è abusata.
Ma andiamo avanti, perché l’intero articolo è una gemma da tenere in considerazione.
Per Moccia il femminicidio passa in secondo piano e di che cos’è che ha bisogno di parlare? Di obblighi etici, di mancanza di complicità, della delusione del povero vecchio che le dinamiche sono cambiate. Mica della cultura machista e patriarcale del possesso – che nomina in modo paraculo e totalmente a caso una sola volta nell’articolo – ma del povero uomo frustrato dalla relazione. E questa non è la sola frase grave che si legge nell’articolo, tutto incentrato sulla figura maschile – che se volete vomitare vi consigliamo a questo link – perché Federico Moccia riesce a dire anche di peggio.
«La persona si sente fallita, si sente sola, tradita, allora se la prende con la persona amata e cerca di ferirla ancora di più: se la prende con i figli, con l’amore più grande, che poi dovrebbe essere anche il suo».
Sti cazzi se ti senti fallito, tradito e solo. Non è una giustificazione. Già mettere nero su bianco queste parole, vuol dire assumere che la conseguenza naturale del disagio dell’uomo sia prendersela con i figli e con la “persona amata”. Esattamente come quando Step faceva lo stronzo con Babi (ma che cazzo di nomi sono?) perché era innamorato di lei e per questo la trattava male. C’è una visione distorta, sbagliata, schizofrenica e tossica di come devono essere le relazioni. E il brutto è che certe parole arrivano a milioni di persone, spesso e volentieri adolescenti. Che credono sia normale essere trattate male dalla persona a cui si vuole bene.
Che Federico Moccia scriva di amore è estremamente grave. Perché le sue parole non hanno nulla a che vedere con l’amore. Le relazioni non sono un mondo confettoso fatto di stereotipi e cliché, dove gli uomini sono duri e fichi e le donne ingenue e vergini. Gli uomini non sono violenti perché amano troppo o perché sono delusi dalla fine di una storia. E le storie finiscono. Dire alle persone che bisogna farle funzionare per forza se no si potrebbe arrivare al femminicidio non è una cosa normale. Che il suo articolo sia stato pubblicato su uno dei quotidiani più letti in Italia è grave. Perché qui non si tratta più di un romanzo brutto che non rispecchia la realtà. Si tratta di una realtà orribile con cui milioni di donne combattono da anni, distorta dall’autore usando a sproposito la parola “amore”.
Moccia, facci un favore. Seppellisci questo tuo modo di pensare tre metri sotto terra. Che non ne abbiamo affatto bisogno.