ITALIA

Sciopero generale in tutta Italia: «Andrà tutto bene se difendiamo i diritti dei lavoratori»

L’astensione dal lavoro proclamata dall’USB segna un successo importante. Dalle fabbriche ai servizi pubblici essenziali, in tante e tanti hanno incrociato le braccia e le lotte per chiedere sicurezza e lockdown delle attività produttive non essenziali

È il primo sciopero generale nel pieno dell’emergenza COVID-19. Non sono serviti gli appelli alla pace sociale e alla responsabilità nazionale rilanciati, anche ieri in conferenza stampa, dal premier Giuseppe Conte. Lo sciopero generale di oggi, 25 marzo, proclamato da Usb, ha il grande merito di aprire una breccia rilevante nel dramma di questi settimane: al centro della mobilitazione, la richiesta di sicurezza per i lavoratori dei comparti in prima linea a fronteggiare l’emergenza e quella di bloccare realmente, dopo tentennamenti e mediazioni al ribasso, tutte le attività produttive “non essenziali”. Lo sciopero è iniziato stamattina, quando era in corso la trattativa tra il Governo, Confindustria e i sindacati confederali, in merito all’applicazione del Decreto del 22 marzo che stabilisce l’estensione del lockdown anche a una parte delle attività produttive.

Secondo il comunicato diffuso da Usb «da Nord a Sud, da Trieste a Taranto, magazzini della logistica vuoti e fabbriche con fermate che coinvolgono anche il 70% degli operai». La giornata di protesta è stata estesa a tutti i settori, anche ai servizi pubblici essenziali e, in particolare, alla Sanità. Per questi ultimi, il sindacato ha invitato a un minuto simbolico di astensione, sollecitando la solidarietà della rete con l’hashtag #iostoconchisciopera. «Eccezionale anche la partecipazione allo sciopero simbolico di un minuto nei servizi essenziali», prosegue il comunicato, «interi comandi dei vigili del fuoco hanno aderito, così come gli infermieri, i medici, gli operatori sanitari e il personale ausiliario della rete ospedaliera nazionale».

L’attenzione sul personale sanitario è in questo momento massima: dietro la retorica degli eroi e degli angeli, si nasconde una verità drammatica. «I numeri parlano chiaro» – ribadiscono le Camere del Lavoro Autonomo e Precario – «oltre 5.000 contagi tra medici e infermieri, ovvero il doppio della Cina; solo oggi, 5 medici deceduti, ben 34 dall’inizio dell’epidemia». Mentre il DL “Cura Italia” dispone risorse – troppo poche – per assumere con contratti precari, le decine di migliaia di precari in tutta Italia lavorano senza sicurezza alcuna: a quella del rapporto di lavoro, infatti, si sommano la distribuzione tardiva dei DPI (Dispositivi di Prevenzione Individuali) nonché il trattamento da personale di serie B.

Fin dall’inizio dell’emergenza sanitaria, innescata dalla diffusione dell’epidemia, ha preso forma uno scontro – prima sotterraneo, poi esploso sulla scena pubblica – tra la difesa degli interessi della produzione, dei profitti, e la sicurezza dei lavoratori. L’applicazione a singhiozzo del lockdown, con il susseguirsi dei provvedimenti di sospensione progressiva delle attività da parte del Governo, è arrivato a un punto di svolta prima con l’annuncio del premier Conte, poi con l’approvazione del Decreto succitato, quello del 22 marzo. Quest’ultimo è sopraggiunto dopo giorni nei quali gli scioperi selvaggi in alcuni comparti della produzione e il montare della protesta in rete, avevano posto all’attenzione di tutti l’insopportabile contrasto tra il distanziamento sociale, con l’incedere dei divieti e delle sanzioni, e la continuità delle attività produttive. Contraddizione ancora più grave nelle zone industriali, soprattutto lombarde, non casualmente falcidiate dal contagio e dai decessi.

Dopo un lungo periodo segnato dalla ferrea opposizione di Confindustria al blocco e l’inspiegabile cautela dei sindacati confederali, inizialmente paghi di un protocollo che disponeva aggirabili accorgimenti in tema di sicurezza nei luoghi del lavoro, con lo scorso weekend il dibattito si è spostato sulla debolezza e i limiti delle misure governative. Il Decreto, che avrebbe dovuto generalizzare il lockdown alle attività produttive non essenziali, si è rivelato tardiva mediazione al ribasso, tanto che gli stessi sindacati confederali hanno minacciato la proclamazione dello sciopero. Mentre in Lombardia la Fiom ha confermato l’astensione dal lavoro per i metalmeccanici, in molti altri luoghi di lavoro è in corso, da più di due settimane, uno stato di agitazione permanente: dove si produce merce essenziale, i lavoratori stanno lottando per avere sicurezza; mentre nei luoghi dove ci sono attività non essenziali, ma ancora in funzione, combattono per la chiusura.

Utile per capire meglio, un recente studio pubblicato dalla “Fondazione Sabattini” nel quale si dimostra che nel Decreto del Governo sono classificate ‘essenziali’ attività produttive che in realtà non lo sono, stimando – con un calcolo al ribasso – che circa il 40% della forza-lavoro impiegata in Italia, ora, dovrebbe e potrebbe invece restare a casa (4,5 milioni di lavoratori). Non solo, la ricerca mostra «l’errore metodologico» contenuto nel Decreto: accanto all’individuazione delle «attività fondamentali», per le quali il blocco non è applicato (tra le altre, il settore agroalimentare e quello sanitario e socio-assistenziale), si evita di nominare tutti i settori che, fornendo beni e servizi strumentali utili al funzionamento delle attività fondamentali e dunque protette, possono continuare la produzione. Questo allargamento delle maglie, che esonera interi comparti dall’applicazione del Decreto, viene invece demandato (Lettera D, comma 1, articolo 1) a una comunicazione al Prefetto, attraverso una sorta di autocertificazione delle imprese, determinando di fatto una «liberalizzazione completa di tutte le attività economiche-produttive».

Infine. Lo sciopero di oggi si inserisce in un contesto di lotta più ampio, che riguarda il mondo del lavoro dipendente come di quello autonomo e precario. Oltre alla richiesta di maggiore sicurezza per i lavoratori e al blocco delle attività non essenziali, in tutta Italia sta crescendo la mobilitazione – al momento telematica, ma non per questo meno determinata – per l’ampliamento in senso universalistico delle misure di sostegno al reddito, per la difesa e l’estensione del welfare.