approfondimenti
ITALIA
Sci e Covid. Una questione di sviluppo, non (solo) sanitaria
La montagna è sempre più parte dell’industria del turismo di massa. Il problema in alta quota non è soltanto la pandemia, ma un sistema già malato
«Il turismo è industria pesante»
Marco Paolini, Il Milione – Quaderno veneziano, 1998
Les Contamines, Francia, primi di febbraio 2020. In un resort delle Alpi Graie francesi, un cittadino britannico di ritorno da Singapore si guadagna la triste medaglia di superdiffusore contagiando con il Sars-cov 2 oltre dieci persone.
Alagna, Piemonte, 7-8 marzo 2020. Gli impianti vengono presi d’assalto per le ultime giornate utili per lo sci, nonostante il Paese sia ormai chiaramente in emergenza sanitaria.
Inschgl, Austria, 13 marzo 2020. Nota località sciistica internazionale (per i media italiani è addirittura la Ibiza della neve), è costretta al lockdown per l’alto numero di contagi riconducibili ai soggiorni presso le proprie strutture. Già il 1 aprile, si contano a centinaia i casi che in tutta Europa (fino in Islanda) sono collegati alla cittadina tirolese.
Queste immagini, che rimandano all’escalation del contagio lo scorso anno, dovrebbero essere rimaste impresse ai più e, al di là dell’emotività che suscita guardare indietro a quelle settimane; queste “fotografie” dovrebbero anche far riflettere sul destino dello sci da discesa dopo la pandemia.
Nonostante la parola tracciamento non fosse ancora entrata nel lessico di uso comune, è abbastanza probabile che gli impianti sciistici dell’arco alpino – frequentati da milioni di europei tra febbraio e marzo – abbiano allora giocato un ruolo rilevante nella diffusione del virus di Covid-19. In questi giorni di febbraio 2021, a distanza di un anno, la riapertura delle piste, rinviata per ora a inizio marzo (con lungimiranza e forse troppa incertezza iniziale) è tornata a far discutere, con annesse polemiche sullo sci come sport “d’élite”.
Come altre categorie prima di loro, anche gli imprenditori degli impianti di risalita e dell’indotto denunciano astronomiche perdite di fatturato, investimenti andati a vuoto, crisi occupazionale. Così come per le aree metropolitane orientate alla monocoltura del turismo low cost e dell’economia della somministrazione, Covid-19 ha portato al pettine i nodi del modello di sviluppo territoriale fondato su settori il cui destino era probabilmente già segnato ben prima della pandemia.
I costi economici e sociali saranno altissimi, tuttavia non si può pensare di tirare un tratto di penna su quanto accaduto: questa pandemia (e quelle che verranno) ha assunto i contorni di un fenomeno strutturale della società globale, col quale dovremo fare i conti noi e le generazioni a venire.
A cercare il lato beffardo, i rimpianti per gli operatori sono anche “giustificati”, perché quest’anno di neve ne è scesa, tanta, già dall’autunno e in tutta Italia. A differenza di tante altre stagioni che negli ultimi anni erano state calde e secche.
Lo sci da discesa, nella sua dimensione di massa – sono lontani i tempi del loisir elitario di inizio Novecento – nel corso del XX secolo ha letteralmente ridefinito e riorganizzato il paesaggio alpino e appenninico, prima quello più prossimo ai grandi centri urbani, poi, con l’infrastrutturazione e la diffusione dell’automobile, in maniera sempre più capillare fino a colonizzare centinaia di valli e versanti – fenomeni descritti, tra gli altri, da studiosi come Antonio De Rossi, Enrico Ciccozzi, e Andrea Macchiavelli.
Nella seconda metà del Novecento sono nate vere e proprie newtown fatte di alberghi, seconde case e attività ricettive e di somministrazione, permettendo al “mondo dei vinti”, che Nuto Revelli indagava negli anni Settanta, di affacciarsi al benessere senza essere costretto a vendersi come manodopera nelle fabbriche di fondovalle.
Quella dell’abbandono e dell’impoverimento, fenomeno per altro oggi ancora più marcato nelle aree interne, è una delle clave utilizzate da operatori e amministratori locali per chiedere una rapida riapertura delle attività turistiche sulla neve per la stagione 2020-2021.
Foto da Wikicommons
Il problema è reale: il Rapporto montagne 2017 segnalava lungo la dorsale appenninica un reddito pro capite disponibile di poco superiore ai 10.000 euro (circa 2.500 euro sotto la media nazionale) – con diffuse sacche inferiori a questa cifra dall’Umbria in giù – e tassi di attività inferiori al 45% e al 35% per le donne.
Tuttavia, quello che bisogna chiedersi è se, a prescindere dalla pandemia, non sia giunto il momento di mettere in discussione l’intera baracca, che sta mostrando tutti i limiti di un settore troppo legato a condizioni ambientali sempre più fragili: se quest’anno è stato il Covid, gli anni scorsi sono stati l’assenza di precipitazioni o le alte temperature, che hanno per altro reso ancora meno sensato l’uso della neve artificiale. E così forse sarà per i prossimi anni. Ci troveremo di fronte a un vero e proprio processo di deindustrializzazione, con costi sociali e ambientali enormi.
Ovviamente, non si stanno prendendo in considerazione le esternalità in termini di drenaggio di risorse idriche, consumo di suolo, inquinamento acustico e dissesto che la messa in opera degli impianti di risalita comporta. Bene, mettiamo al primo posto i fattori economici, in contesti fragili ha un suo senso. Ma andiamo poi a rivedere il documentario The Peak. Un mondo al limite di Hannes Lang (2017): un “backstage” delle stagioni turistiche sulla neve che presenta uno scenario a dir poco sconcertante, tra sbancamenti, cantieri ad alta quota e macerie.
O, ancora meglio, andiamo a sgambare per le città fantasma di questa deindustrializzazione in corso: Mountain wilderness ad esempio ha elaborato dei censimenti degli impianti abbandonati in Piemonte, Lombardia, Friuli; la rivista del Cai, “Montagne360”, da tempo cura reportage sulle conseguenze ambientali dell’abbandono degli impianti. Stefano Ardito, penna ben nota a chi si occupa di montagna, lo scorso gennaio pubblicava un lungo elenco dei progetti mancati e falliti che interessavano l’Appennino: usiamolo come guida per esplorare questa rappresentazione materiale dell’antropocene e trarre le nostre conclusioni.
Ragionare in termini economici, non può significare spremere una risorsa finché non ne viene più fuori nulla, ma investire per trarne il maggior beneficio il più a lungo possibile.
Eppure, a fronte di nevosità sempre più irregolare, spesso scarsa e concentrata nel tempo, a fronte delle chiusure di stazioni un tempo fiorenti o della concentrazione in imprese sempre più grandi e lontane dagli interessi locali, si prosegue con l’idea che lo sviluppo economico montano sia sinonimo esclusivo di funivie, skilift e resort.
Si arriva al grottesco di un Beppe Sala sguaiato per festeggiare le Olimpiadi invernali 2026 tra Lombardia e Veneto: un colossale spot alle attività invernali e un boccone avvelenato che nessuno voleva e che ora toccherà mandare giù, al costo, stando ai giornalisti del “Fatto quotidiano”, di un miliardo di euro stanziato dal Fondo per gli investimenti del Mef. Una spesa ben al di là della soglia proposta al momento della candidatura.
La lezione di Torino 2006 è tutt’altro che imparata: bene che vada, enti locali già in sofferenza per mantenere in funzione l’esistente si troveranno un patrimonio di infrastrutture costose, abbandonate e insostenibili.
Ci si aspetta, ancora una volta, che il rubinetto faccia colare qualche goccia davvero utile a dissetare il territorio: ma tra costi e benefici, sono necessari i grandi eventi per mettere in sicurezza Santa Caterina Valfurva, per citare un esempio, che negli ultimi anni si è trovata in più occasioni isolata per le frane che incombono sull’unica strada di collegamento con la provincia di Sondrio? Quali costosissime mostruosità riceverà in cambio la Valtellina?
Ma la neve è davvero ancora un business così redditizio? Il Cai, ha colto l’occasione dell’ultimo anno per elaborare uno documento strategico sulla destagionalizzazione del turismo in montagna, inviato a tutti i soci nel dicembre 2020. La posizione del Cai (che conta oltre 320.000 iscritti, vale ricordarlo) si allinea a quella delle omologhe organizzazioni tedesca, austriaca, svizzera e francese e quella della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra).
Foto da Pixabay
Nonostante i 25-30 milioni di ingressi annui nelle stazioni sciistiche italiane – sono oltre 3 milioni gli utenti italiani delle piste – per quanto numeri importanti, non sono più sufficienti a perseguire questo modello economico che, escluse alcune stazioni maggiori, ha ricadute limitate sul benessere del territorio.
Ancora più critica è la situazione dell’Appennino, con un mercato ormai spezzettato e lowcost che comunque non garantisce più di un paio di centinaia di migliaia di ingressi l’anno, almeno (per fare un esempio) nelle stazioni di Campo Felice e Ovindoli-Monte Magnola, tra le più prossime e meglio collegate a Roma, tanto da poter proporre anche skipass infrasettimanali a prezzi decisamente bassi.
Sicuramente un incentivo alla frequentazione di quelle località, ma anche un segnale della crisi che attraversa il settore. I dati sono del 2016, è improbabile che a prescindere dalla pandemia la tendenza si sarebbe invertita in questo breve lasso di tempo.
Accanto al Cai, lo schieramento di chi sta elaborando e praticando alternative al turismo degli impianti è decisamente ampio: si va da Sweetmountains che sulle Alpi occidentali mette in rete rifugi e altri operatori ricettivi per promuovere un turismo meno invasivo, al Parco nazionale dello Stelvio che sta investendo risorse per la valorizzazione del patrimonio storico-culturale del territorio, fino alle cooperative di comunità dell’Appennino emiliano e marchigiano.
Fin qui sono state prese in considerazione solo le questioni legate alla riconversione. Il terreno più complicato è naturalmente la sfida all’abbandono o – auspicabilmente – l’inversione della tendenza. Permettere che le persone possano continuare a vivere ad alta quota, mettendo da parte gli slogan sul ritorno ai borghi: il rischio è infatti che si cerchi ancora una volta di “portare la città in montagna”, con tutte le sue distorsioni, i suoi ritmi, le sue filiere insostenibili. Gli strumenti di politica pubblica esistono.
La Strategia nazionale aree interne è già rodata da decine di interventi per agevolare la stanzialità e una convergenza nazionale in termini di opportunità, formazione, benessere generale. Il Recovery plan nell’elaborazione del governo Conte prevedeva un’area di intervento per “Siti minori, aree rurali e periferie” con un budget di 2,40 miliardi di euro per la messa in sicurezza del territorio e la valorizzazione del patrimonio abitativo e ambientale, ma altri campi di intervento d’interesse per le terre alte erano investiti da ulteriori risorse.
Ad esempio, i quasi 8 miliardi per la digitalizzazione della pubblica amministrazione avrebbero impattato positivamente su aree caratterizzate dalla rarefazione dei servizi e degli uffici pubblici. Staremo a vedere cosa esce dal cilindro (e soprattutto dal portafogli) del nuovo esecutivo, che si fregia di aver anche dedicato un ministero alla transizione ecologica.
L’emergenza Covid-19, come per tante altre questioni collegate al nostro modello di sviluppo e in particolare ai consumi insostenibili (compresi e in particolare quelli connessi con l’economia della riproduzione e del divertimento), ha dato una spinta a un sistema già claudicante.
Intorno al 2015, all’indomani della crisi finanziaria che trascinò nella polvere il settore immobiliare e l’edilizia, gli analisti intravedevano margini di ripresa proprio sulle basi della transizione ecologica e dell’innovazione, da cui però non tutti sarebbero usciti vincitori. Il banchetto dei decenni precedenti era finito. L’economia dello sci, a causa della Covid, del clima e di altri fenomeni evidentemente non negoziabili come lo è (in teoria) il mercato dei mutui, ha superato quella soglia.
Foto di copertina di Simone Tagliaferri da Wikicommons