ITALIA

Sanpaolo, storie di sporche intese

Il maggior gruppo bancario italiano si racconta etico e verde, ma dietro questa facciata si nascondono finanziamenti a progetti devastanti per l’ambiente

Il gruppo bancario Intesa San Paolo, il più grande gruppo finanziario italiano insieme a  Unicredit, ha fatto parlare di sé lo scorso gennaio, presentando un programma di investimenti green, di sicuro apprezzabili agli occhi di investitori, soci e semplici correntisti. La crisi climatica di portata drammatica in cui siamo immersi è evidente a tutti, e mosse politiche come questa sono ben viste.

In molti pertanto in quei giorni hanno applaudito le proposte dell’azienda, che il presidente emerito Giovanni Bazoli ha così chiosato «La banca conferma piena fedeltà a quei principi che possiamo definire il suo Dna […] patrimonio di valori che viene dalle culture cattolica, socialista e liberale. Un patrimonio che va tutelato». Banca Intesa non è nuova a questo rilancio “etico” della propria immagine. Per 11 anni ha anche creato e sostenuto Banca Prossima, una società del suo gruppo, focalizzata nel finanziare imprese a carattere sociale e in generale il terzo settore, in qualche modo dipingendosi come una banca “buona” nonostante l’evidente collegamento con la banca madre, in cui poi è rientrata nel 2019. In quegli stessi undici anni Intesa rimaneva tra le maggiori banche finanziatrici di armi in Italia.

Il movimento ambientalista mondiale ha sempre denunciato il rischio di greenwashing da parte delle imprese. Per aziende del calibro di Banca Intesa, investire una quota in attività ecologicamente sostenibili è spesso un obiettivo a portata di mano, i dividendi sono comunque garantiti anche in questi casi e il risultato mediatico è efficace per l’opinione pubblica. Investimenti di questo tipo rischiano pertanto di concentrare l’attenzione sul “pulito e verde” e distrarla invece dalle critiche per tutto quello che è insostenibile.

La questione chiave per salvare il pianeta infatti è oggi togliere il finanziamento alle fonti fossili, disinvestire in modo drastico da ogni attività collegata direttamente alla produzione di gas clima-alteranti come metano e anidride carbonica.

Esattamente in questo aspetto, l’operato di Banca Intesa è quanto meno discutibile. La banca infatti è tra le pochissime grandi e internazionali a non aver ancora adottato nessuna politica di restrizione dei finanziamenti alle fonti fossili. Nel 2017 Banca Intesa ha contribuito al progetto DAPL in North Dakota, un oleodotto voluto fortemente dall’amministrazione Trump e per il quale la popolazione indigena nativa ha condotto una strenue resistenza.

Secondo Antonio Tricarico, dell’ONG Re:Common  «Intesa Sanpaolo si propone tra i protagonisti del Green Deal con un fondo di 50 miliardi di euro, ma le  ricerche finanziarie di Urgewald e Re:Common basate sulla Global Coal Exit List rivelano come l’istituto italiano sia il decimo prestatore al mondo per progetti e società che promuovono l’espansione del carbone»,

Nel complesso, tra il 2017 e il 2019 – quando la Comunità Internazionale avrebbe dovuto impegnarsi a rispettare lo spirito dell’Accordo di Parigi sul Clima e mantenere l’aumento di temperature entro 1,5 gradi a fine secolo – Intesa Sanpaolo ha elargito prestiti per 2,6 miliardi di euro ad aziende legate al carbone.

Tra queste, vi è una multinazionale indiana, Adani, da anni al centro di proteste internazionali. Il progetto più controverso di Adani è in Australia e si chiama Carmichael. Prevede la realizzazione di quella che diventerebbe la più grande miniera di carbone a cielo aperto australiana, una tra le più estese al mondo. Adani vorrebbe estrarre 60 milioni di tonnellate di carbone all’anno per sessant’anni: una volta bruciato, questo carbone provocherebbe il rilascio nell’atmosfera di 4,6 miliardi di tonnellate di CO2. Oltre agli impatti sul clima, la miniera minaccia inoltre di danneggiare ulteriormente la Grande Barriera Corallina, a causa dei lavori di espansione delle infrastrutture portuali necessari a consentire l’aumento dei volumi di commercio. Il progetto interesserebbe un territorio di 30.000 ettari violando la volontà dei popoli indigeni Wangan e Jagalingou che si oppongono alla miniera e alla realizzazione delle infrastrutture sulle loro terre. Prevede una linea ferroviaria di 190 chilometri e l’espansione di diversi porti, consentendo la costruzione di altre otto miniere. Infine minaccia le risorse idriche del territorio non solo perché utilizzerebbe 270 miliardi di litri d’acqua per estrarre carbone, ma anche perché rischia di contaminare il fiume dove verrebbero gettate le acque di scarto della miniera. Il premier australiano Morrison ha già promesso ad Adani l’utilizzo illimitato delle fonti idriche una volta che il progetto avrà inizio.

Il costo complessivo dell’opera è stimato intorno agli 11 miliardi di euro, ma l’intensa campagna di pressione internazionale su banche e assicurazioni ha reso finora estremamente difficile per Adani trovare i capitali necessari.

Quasi 40 tra le principali banche al mondo hanno escluso il loro coinvolgimento nel finanziamento diretto al progetto Carmichael, ma molte di queste continuano a prestare soldi ad Adani. Tra loro c’è anche Intesa Sanpaolo, che ha concesso alla multinazionale indiana due prestiti del valore complessivo di 78 milioni di euro. Purtroppo, è noto come Adani abbia finanziato la propria espansione attraverso prestiti e investimenti intra-societari, per cui parte di questi 78 milioni potrebbero finire proprio nel progetto Carmichael.

Lo sfruttamento del bacino carbonifero del Galilee Basin era già stato incluso nel 2013 tra le “bombe climatiche” più pericolose dal rapporto di Greenpeace “Point of no return”.

Si è parlato a lungo degli incendi in Australia nel mese di gennaio. Fridays for Future ha sempre denunciato che questi incendi non sono il prodotto della banale distrazione di chi sta facendo il barbeque, ma sono il prodotto di precise scelte politiche dannose per il clima. Tali scelte vedono lo sviluppo energetico di un paese basato solo su fonti fossili e sono la causa dell’innalzamento della temperatura e della siccità. La combinazione di questi due fattori rende incontrollabili anche fenomeni fino a pochi anni fa gestibili, come gli incedi stagionali. Il governo australiano è stato tra i maggiori oppositori di qualunque accordo sul clima alla recente Conferenza Onu di Madrid, il premier dice di non credere nel cambiamento climatico e non a caso continua a promuovere investimenti nelle fonti fossili.

Casi come quello di Banca Intesa confermano quanto i nuovi movimenti ecologisti hanno sempre sostenuto: la crisi climatica non può essere risolta solo con gesti importanti ma individuali, legati al proprio stile di vita. Il sistema economico mondiale va attaccato, perché è quel sistema che crea la crisi climatica continuando con gli investimenti nel fossile. Nel frattempo l’emergenza si aggrava, le recenti temperature di gennaio in Europa e i 20 gradi raggiunti in Antartide dovrebbero seriamente portare a ripensare l’intero sistema in cui viviamo: agire domani potrebbe essere già troppo tardi.