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Salvarsi in corso di incendio: l’ecologia oltreumana di Peter Sloterdijk

Nel “Rimorso di Prometeo” e nei saggi post-heideggeriani di “Non siamo ancora salvati” Peter Sloterdijk individua nella tecnologia del fuoco, la pirotecnica (per cottura, disboscamento e metallurgia) una forza oggettiva la cui inclinazione al male è superiore agli iniziali vantaggi e a cui occorre rimediare con un regime di pacifismo energetico e di smantellamento delle concentrazioni metropolitane, la cui parola d’ordine sarebbe: fermate gli incendi!

Ne La colpa di Epimeteo, Bernard Stiegler inquadra (o forse inchioda) la techné come «terzo incomodo tra Natura e Cultura, tra physis e bios»; strumento di reinvenzione della materia inorganica e dell’umano, quest’ultimo attraverso la scoperta di strumenti che ne disciplinino il mondo-intorno, così che possa domesticare anche sé stesso, il proprio corpo e la propria mente (che non sono mai dicotomia, come non lo sono natura e cultura). Di questo movimento, ciò che consente il marxiano ricambio organico, mediazione sociale che rende conoscibile e utilizzabile una natura astratta non certo per un Uomo astratto, ma per questo Uomo e questa società, per questo tempo e per questo spazio – e per questo specifico rapporto di produzione –, torna a parlare Peter Sloterdijk, rivolgendosi però all’altro titano fratello, ne Il rimorso di Prometeo. Dal dono del fuoco all’incendio del pianeta (RP), pubblicato da Marsilio nella traduzione di Marina Pugliano e Giovanna Targia. Perché sarebbe la manipolazione del fuoco – metodo di cottura e di estrazione di proteine, metodo d’incendio sistemico delle foreste sotterranee, incredibile propulsione e spin conferiti a quel corpo bipede implume che era l’astratto essere umano prima di prendere fuoco nella sua corsa – quella speciale antropotecnica che avrebbe mandato l’umano mondo-intorno, ormai fuori misura anche rispetto al globo, fuori dai propri cardini.

Il fuoco, il ricambio organico e il comando

«A queste “potenze della natura” insite nella “corporeità”», scrive infatti il filosofo di Karlsruhe, ricordando il lavoro di braccia e di gambe descritto nel primo libro de Il capitale, «si aggiunge fin dall’epoca preistorica un agens extracorporeo, senza il quale il cosiddetto “ricambio organico con la natura” si arresterebbe al livello vegetativo e chimico-microbico […]. Questo agens extracorporeo è il fuoco, il più antico complice dell’homo sapiens nella sua fuga dalla sfera delle mere condizioni naturali» (RP, p. 12). Il fuoco compariva come attante, parola che Bruno Latour utilizza per nominare qualunque cosa agisca effettivamente, comportando pertanto modificazioni nel tessuto del mondo, al di là della logora dicotomia di soggetto e oggetto, anche nella splendida Brief History di Stephen Pyne, il quale ricorda che il fuoco è stato il protagonista della conquista imperial-coloniale: saper provocare enormi incendi è stata l’originaria tecnica di manipolazione che ha consentito l’innesto prima solo sovrano e poi più finemente biopolitico per assoggettare, spostare, controllare e mettere a tacere intere popolazioni. Con il fuoco si giocava, in ogni senso, la dialettica fra colto e incolto. Con Sloterdijk, e con Marx, potremmo dire che il fuoco è stato strumento incendiario per assoggettare nuova forza muscolare – «Ora si può precisare la formula primaria del ricambio organico: “forza muscolare + x”. In tutto ciò che segue, occorrerà distinguere tra forza muscolare propria (di chi domina) e altrui (di schiavi e animali da soma)» (RP, p. 16) –, per togliere il possesso di sé a tutta quella vita non-nuda ma piuttosto spogliata, che diveniva, attraverso vettori di animalizzazione, razzializzazione, sessualizzazione e naturalizzazione, inerme e inerte non-persona, bene cui era impedita ogni ribellione e ogni fuga (nota Sloterdijk che secondo il Codex Iustiniani lə schiavə che fugge dal padrone compie un furtum sui, un furto di sé, paradossale crimine che ancora una volta mostra l’inanità della separazione fra soggetto agente e oggetto agito: siamo mai andati oltre? Siamo mai stati salvati?).

Ecco, allora, una novella formula del ricambio organico, che va trasformandosi in frattura metabolica: «Potere del comando + parco di biomacchine», ossia corpi messi a disposizione tramite reti di saperi-poteri, «+ x pirotecnica. La massiccia visibilità dell’esercito di schiavi lavoratori ha sempre nascosto il fatto che, anche all’apice del dispiegamento della forza muscolare-energetica, l’aiuto fornito dalla pirotecnica ha sempre introdotto un plus prezioso almeno quanto il lavoro schiavistico nei regimi metabolici delle culture avanzate in via di maturazione» (RP, p. 20). Ed ecco, quindi, il rimorso di Prometeo, che si pente di aver dato alla scimmia (non)nuda quel tizzone che l’ha resa non più animale ma piromane: il mito della modernità vorrebbe raccontare la propria storia come processo di progressiva liberazione, dai vincoli naturali adesso, da una vita quasi-animale e selvaggia poi, da ottusi regime di pensiero più avanti – da quell’oppio che è la religione quando si fa instrumentum regni o da una limitata padronanza del proprio corpo… Il titano Prometeo, di cui il filosofo Sloterdijk immagina le guance incendiate dal rossore, rilegge invece questa storia come progressiva estrazione di energia, manipolazione di corpi messi in moto, invenzione di nuovi metabolismi che rendono le specie più produttive. Eccoci pertanto nell’era della vergogna prometeica, vergogna titanica davanti all’uso ingrato che l’essere umano (meglio: alcuni esseri umani, l’essere umano bianco, abile e padrone – Umano, appunto) ha fatto del dono del fuoco, trasformandolo in una forza del male i cui effetti nefasti muovono oltre misura e ormai incontrollati, spargendo ovunque cenere e devastazione nemmeno comparabili a quegli iniziali svantaggi cui con il dono del fuoco si intendeva porre rimedio.

La domesticazione delll’essere e l’alternativa ecologica

Ne l’Ora del crimine mostruoso, testo che è parte della raccolta Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (NS), ripubblicata da Tlon dopo un quarto di secolo dalla sua prima edizione tedesca, nella traduzione di Anna Calligaris e Stefano Crosara, si affermava già: «Se si chiede a un moderno» – e forse è bene ricordare che moderni siamo noi o che moderno è chi si dice tale, fregiandosi di vivere in una modernità tecnologica, illuministica e giusta, in cui la techné si fa paradossale naturalizzazione di rapporti di potere storicamente determinati – «“dov’eri al momento del delitto?”, la risposta suona “ero sul luogo del delitto”» (NS, p. 387). Perché la modernità è proprio questa rinuncia alla possibilità dell’alibi; perché la modernità si è situata, dice Sloterdijk, dopo quel monito heideggeriano del ritorno e del ritiro (nel cuore della foresta, nel cuore della lingua, verso l’Essere, dimenticato sinora a favore degli enti) – movimento che Derrida sospettava anch’esso imperialista (vi indico dove tornare: al di là della possibilità che io vi offro e che io ho scorto, nel momento del massimo pericolo, non vi è salvezza) e che Sloterdijk invece accentua nella sua sfumatura non di raccolta ma di raccoglimento in sé, di abbandono.

Ancora Heidegger, argomenta Sloterdijk ne La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, altro saggio fondamentale di Non siamo stati salvati, era tornato a tematizzare l’emersione del pensiero, della filosofia come della scienza, attraverso il topos dello stupore o thaumàzein davanti all’accadere: di più, Heidegger aveva radicalizzato questa meraviglia nella figura più propria della modernità, quella del terrore, meditazione del mostruoso e dello smisurato. Viviamo, non a caso, quel secondo millennio in cui il mostruoso è ciò che viene compiuto quotidianamente da «imprenditori, tecnici, artisti e consumatori» (NS, p. 387). Mostruosa è quella rivoluzione perpetua, cui Heidegger avrebbe tentato di opporre un contro-movimento operato dal Capitale; quel progresso che si presume abbia posto fine alla schiavitù, ma che certo non lo ha fatto nel nome della liberazione – «L’inversione di tendenza si è affermata perché il bilancio delle forze nelle società poggia sempre più su fonti di energia non umane e mette in circolo una ricchezza che può distribuirsi su scala più ampia» (RP, p. 54).

Allora quali regole darsi per un nuovo parco umano? La soluzione impiegata da numerose istituzioni (anzitutto commerciali) di piantare alberi per sostituire il perenne, e forse ormai agli sgoccioli, incendio delle foreste di carbone può forse risultare simpatica ma certamente non efficace; a che scopo chiamarsi a essere umani, a che scopo chiamare a un imperativo di rigenerazione e di restituzione già sorto e plasmato nel lessico e della grammatica umanistica? «A che scopo», quindi «celebrare di nuovo l’uomo e l’immagine filosofica e canonica che ha di sé nell’umanismo come la soluzione, quando nella catastrofe del presente si è visto che è proprio l’uomo a fare da problema?» (NS, p. 332). Nessun nuovo imperativo né dettame, ricorda Sloterdijk, sembra provenire in modo sincero dalla politica, che impugna piuttosto facili slogan (“Non sprecare l’energia, usala!”) e muove sempre più in là, tergiversando, il momento della più completa riconversione – ignorando, o fingendo di ignorare, il fermo produttivo generale che a parole si ritiene impossibile, ma che l’appena trascorsa pandemia quantomeno ci ha fatto intravvedere. Niente, perciò sembra poter fermare «la grande ekpýrosis (la nuova dissoluzione del mondo nel fuoco, così come l’abbiamo appresa da Eraclito e dagli Stoici, oltre che dalla mitologia germanica)» (RP, p. 66). Per un nuovo parco (oltre che? non più?) umano Sloterdijk sceglie perciò di immaginare forme “pacifiste” di produzione energetica, che configurerebbero a loro volta la coesistenza di produttorə e consumatorə, dando diverso spessore alle economie locali e agli scambi su piccola scala.

Perché è vero, affermano sia Stiegler sia Sloterdijk, che la techné è domesticazione del fuori e del dentro, e con essa si può dar forma a nuovi mondi e a nuovi (non più) umani – rivelando l’ibrida composizione di natura e cultura, rivelando la natura fittizia dell’umano, che è infine, da lasciar da parte, per scrivere un’altra (contro)favola. Ecco quindi le regole (non leggi!) del parco; combattere il fuoco non con il fuoco – ma con un diverso incendio, con l’esplosione, o l’implosione, dell’esistente, prima che si tramuti in mera cenere. «Lo smantellamento delle aree metropolitane diventerebbe la missione politico-strutturale più esplosiva dei prossimi secoli […]. La parola d’ordine della riforma urbana sarà: la città conviviale è un caso felice, gli agglomerati ipertrofici sono disgrazie costruite mattone per mattone» (RP, p. 69). Un regime di pacifismo energetico, come ipotizzato ne Il rimorso di Prometeo, dovrebbe inoltre determinare una diversa concezione delle risorse energetiche – non più legittimo possesso dello Stato Nazione che se le è ritrovate sotto ai piedi o che le ha conquistate con la stretta presa del ferro, del fuoco (e del ricatto commerciale). Potrebbero diventare patrimonio mondiale – seppure anche questa parola ci sembra forse umana, troppo umana – o ancora essere semplicemente lasciate quale stoccaggio sino a nuovo ordine, in un dialogo aperto con quelle generazioni a venire che un po’ ricorda l’im/possibile democrazia derridiana. Sloterdijk auspica insomma una nuova “classe ecologica”, alternativa e resistente rispetto alla Nazione Piromane: suo destino è forse quello di abolire sé stessa nella lotta, una volta posto fine al sistema che l’ha prodotta e che ne ha prodotto le catene e le ustioni. Che il conto di chi compone questa frangia ribelle rimanga aperto, quindi, e che si apra a quel non umano da cui sinora la forza lavoro è solo stata estratta e volatilizzata nelle fiamme. Sua forza generativa non è tanto un riconoscimento identitario – niente accomuna lə nuovə pompierə, né la postura bipede né le piume sul corpo, né il genere né la razza: solo la volontà di spegnere il fuoco, e di spegnerlo per tuttə. «Qualsiasi forma di configurazione delle future politiche energetiche e mondiali che non sia irresponsabile, non può far altro, nella sua essenza, che dare seguito a un appello post-prometeico alla partecipazione del maggior numero possibile di persone […]. Fire-fighters di tutto il mondo, fermate gli incendi!» (RP, p. 44).

Immagine di copertina: Peter Sloterdijk parla a “Fronteiras do Pensamento” a San Paolo nel 2016 (fonte: Wikimedia Commons)

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