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MONDO
Salti di specie, patogeni e crisi ambientale
L’attuale pandemia ha posto all’attenzione mediatica il problema della sempre più frequente diffusione di nuovi patogeni provenienti da specie animali. Nonostante la discussione scientifica sia ancora in corso, è utile riflettere su quanto la devastazione degli ambienti naturali e il riscaldamento globale possano incidere su questi fenomeni
Il concetto di spillover o salto di specie
Lo spillover è il fenomeno che si verifica quando un patogeno riesce a passare da una specie animale a un’altra e, in alcuni casi, arrivare fino all’uomo. Un fenomeno, questo, molto meno raro di quello che intuitivamente si potrebbe pensare e che costituisce il meccanismo in seguito al quale si sono diffusi circa 2/3 dei virus umani. Un fenomeno che ha riguardato il virus SARS-CoV-2, responsabile dell’attuale pandemia.
Valutare la probabilità di un evento di spillover in relazione a fattori ambientali è molto difficile perché dipende da molteplici fattori: la variazione delle temperature e della biodiversità, la deforestazione, la probabilità di un contatto tra un umano e un’altra specie. Tutti questi fattori determinano un sistema estremamente complesso e difficilmente riducibile a un modello elementare.
Per intenderci, è ancora ampiamente dibattuta la relazione tra i livelli di biodiversità in un dato ambiente e il rischio di passaggio di patogeni all’uomo. Alcuni studi affermano che un’alta biodiversità favorirebbe l’esistenza di un “serbatoio” più ampio per la circolazione di patogeni. Altri affermano invece che un’alta biodiversità invece favorirebbe una sorta di “effetto diluizione” dei patogeni. Altri ancora affermano che invece il dibattito sia sostanzialmente insensato e che la relazione tra biodiversità e diffusione di patogeni nell’uomo dipenda dallo specifico contesto ambientale e dalla specifica composizione di organismi presenti. Quindi un’alta biodiversità potrebbe favorire il passaggio di patogeni all’uomo in alcune condizioni (ad esempio, quando c’è un’alta diversità di specie di mammiferi, evolutivamente vicino all’uomo) o sfavorirlo – ad esempio quando i naturali meccanismi di predazione e competizione tra le specie animali riescono a contenere il numero di organismi della specie che porta con sé il patogeno. Insomma, se la biodiversità è un bene assoluto da tutelare, non è detto che lo sia sempre quando si parla di passaggio dei patogeni all’uomo. Il che non deve portarci a ritenere preferibile l’estinzione di larga parte delle specie animali. Ma dovrebbe almeno provare a farci affrontare la questione con uno sguardo critico.
Riscaldamento globale e nuovi patogeni
Un altro elemento che ci aiuta a comprendere la complessità del tema riguarda l’innalzamento delle temperature. È diventato virale l’allarme relativo alla possibile circolazione di patogeni arcaici a noi sconosciuti in seguito allo scongelamento dei ghiacciai. Una storia di carattere apocalittico. Un nemico congelato nel ghiaccio da ere geologiche che riemerge per ucciderci. Ma questa questione, per quanto vada a toccare fantasie profonde, è solo parte della storia. Un aumento delle temperature da un punto di vista epidemiologico sarebbe enormemente preoccupante perché causerebbe cambiamenti nel comportamento di moltissimi vettori di patogeni umani.
I pipistrelli, reservoir naturali dei coronavirus di cui tanto parliamo, sono terribilmente sensibili all’aumento di temperatura che ne cambia il comportamento e riduce la disponibilità degli insetti di cui si nutrono, spingendoli spesso ad allontanarsi dagli ambienti selvaggi. La zanzara anofele, vettore della malaria che a oggi continua a mietere circa 400.000 vittima nel mondo ogni anno, potrebbe in seguito all’aumento delle temperature accrescere il proprio areale in regioni che diverranno man a mano più calde.
Gli esempi potrebbero essere moltissimi altri, ma quello che più ci interessa è lo sconvolgimento di molti ambienti naturali che il riscaldamento globale sta producendo e la mutazione delle relazioni tra le specie che li popolano. Un sovvertimento repentino della disponibilità delle risorse per le diverse specie, sconvolgimenti nelle relazioni predatorie, migrazioni massicce di specie animali, estinzioni. Non c’è bisogno di andar a fare le pulci al singolo organismo vettore. Il quadro generale lascia ampiamente intendere come potrebbe darsi un significativo sconvolgimento del quadro che finora ha tenuto moltissimi patogeni zoonotici lontani dall’uomo.
L’effetto dell’attività umana sugli ambienti naturali
La comunità scientifica è concorde: l’azione antropica sugli ambienti naturali ha un effetto sui salti di specie. Nello specifico, pare che le attività umane che più generano rischi siano la deforestazione, l’espansione dei terreni agricoli, l’intensificazione della produzione di bestiame e l’aumento della caccia e del commercio di specie selvatiche. Questo per ragioni piuttosto evidenti: sono tutte attività che da un lato modificano gli ecosistemi e dall’altro causano un aumento nella probabilità d’incontro tra specie animali e uomo. Con tutte le conseguenze che questo comporta.
Ad esempio, nel 1998 la siccità e la deforestazione hanno spinto i pipistrelli in Malaysia a uscire dalle foreste pluviali e recarsi verso i frutteti in cerca di cibo. Questi pipistrelli hanno dunque passato il virus Nipah ai maiali. E da questi è arrivato all’uomo. Il virus di Nipah attualmente è endemico nel sud-est asiatico, con una mortalità tra il 40 e il 70% ma fortunatamente i casi sono sporadici perché pare che il virus sia poco efficace nel contagio da uomo a uomo. In Brasile si sta assistendo da circa 20 anni a un nuovo aumento dei casi di malaria direttamente collegato alla deforestazione che crea un ambiente ideale per lo sviluppo della zanzara anofele, generando ambienti umidi e caldi derivanti dalla costruzione d’infrastrutture lì dove c’erano le foreste.
Altri problemi riguardano l’utilizzo di agenti antimicrobici utilizzati negli allevamenti intensivi e infine l’urbanizzazione, entrambi fattori favorevoli alla circolazione dei patogeni.
Insomma, la relazione tra ambiente e patogeni umani è terribilmente complessa. Ma quel che è certo è che il nostro attuale modello di sviluppo potrebbe certamente portare a un incremento nelle malattie infettive d’origine zoonotica.
Esempi recenti: Coronavirus ed Ebola
Tutto quanto fin qui detto è tornato in auge con l’attuale pandemia di SARS-CoVid-2. Un virus che ha sostanzialmente fatto il salto di specie dai pipistrelli, che ne sono il reservoir naturale, all’uomo. Probabilmente mediante un ospite intermedio.
Una prima precisazione è d’obbligo. Non possiamo avere la certezza che il presentarsi di nuove malattie infettive (EID) abbia necessariamente subito un’impennata negli ultimi anni e sotto un determinato modello di sviluppo. Questo perché se è vero che assistiamo sempre più spesso al presentarsi di EID, è altrettanto vero che lo sviluppo scientifico e tecnologico fa sì che oggi siamo dotati di strumenti diagnostici tali da riuscire a distinguere chiaramente un patogeno da un altro e a ricostruirne l’origine. Insomma, qualche decina d’anni fa SARS, MERS e CoVid19 sarebbero state generiche “polmoniti molto gravi”.
L’outbreak della SARS in Cina nel 2003 era correlato a diversi passaggi da animali selvatici a uomo. In seguito a quell’epidemia, il governo cinese intraprese alcune politiche contro il commercio d’animali selvatici. Ma tale commercio ha un grande valore in Cina. Infatti, larga parte di questi animali non è destinata all’alimentazione quanto all’utilizzo nella medicina tradizionale cinese, avendo dunque un non indifferente valore da un punto di vista culturale – e, per qualcuno, medico. Dunque, nei fatti cambiò poco o nulla. Anzi, la linea utilizzata in Cina era sostanzialmente quella di puntare all’addomesticamento degli animali selvatici ai fini della produzione di carne su vasta scala. Oggi che SARS-CoV-2 ha causato una pandemia su scala globale e un bilancio terribilmente più duro di quello di SARS-CoV, il governo pare voler correre ai ripari con una politica molto più stringente rispetto all’allevamento e il commercio d’animali selvatici. Sono stati chiusi immediatamente numerosissimi allevamenti d’animali selvatici d’ogni genere e vietato il consumo di carne di specie selvatiche a fini alimentari. Insomma, sembrerebbe che addirittura il proverbialmente rigido governo cinese si sia reso conto nel peggiore dei modi di quanto la manipolazione della natura più selvatica da parte dell’uomo nasconda rischi piuttosto elevati.
Un altro esempio molto calzante è quello degli outbreak di Ebola (EV), che ha causato 11mila morti tra il 2013 il 2016. Dal 1976 ne sono stati riportati circa 40, in larga parte nell’Africa centroccidentale. Anche gli EV hanno come reservoir naturale i pipistrelli. E una correlazione tra attività antropica e outbreak di Ebola è ormai evidente per tutti gli scienziati del settore. Gli outbreak sono estremamente favoriti dalla combinazione tra la deforestazione e la presenza di alte densità di popolazione umane nei paraggi. La riduzione dell’ambiente forestale e la sua frammentazione cambia i comportamenti dei pipistrelli. E la concomitante presenza di alte densità di popolazione umana favoriscono enormemente il contatto tra il reservoir e l’uomo. La deforestazione estensiva che ancora procede in larghe regione dell’Africa potrebbe portare a un significativo aumento degli outbreak di Ebola, con conseguenze catastrofiche per le popolazioni umane autoctone: ancora in questi giorni sussiste l’epidemia di Ebola in Congo che procede da lungo tempo, nonostante non se ne parli molto alle nostre latitudini. Un recente articolo apparso sulla rivista “Nature” ipotizza addirittura che i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale porteranno a una probabilità 1,6 volte maggiore di epidemie di Ebola, in un’areale ben più vasto di quello attuale, arrivando addirittura a minacciare altri continenti oltre quello africano.
Prevenire è meglio che curare
In definitiva, il rapporto tra uomo e ambiente è una questione non più rimandabile al fine di prevenire l’ulteriore diffondersi di malattie infettive d’origine zoonotica. Se infatti le istituzioni scientifiche lavorano per studiare e combattere le epidemie quando queste si presentano o quando circolano nelle popolazioni umane, ben poco si è fatto per vedere la questione in termini più generali, per affrontare una problematica che è giusto ribadire ancora una volta essere terribilmente complessa e non semplificabile. Ma che sicuramente per essere affrontata richiede un radicale ripensamento del rapporto tra il nostro scellerato sistema produttivo e la natura.
Silvio Paone è dottore di ricerca in malattie infettive microbiologia e sanità pubblica.
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