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Sacro GRA ovvero la Grande Rinuncia all’Abitare

Un film? Un documentario? O piuttosto un invito alla rassegnazione urbana?

In un punto che non sono riuscito a riconoscere il Grande Raccordo Anulare taglia, sovrastandola, una sinuosa pista dove scorrono velocissime automobiline telecomandate. Una serpentina di curve che, rincorrendosi, non spezzano il folle ritmo di quei bolidi. Il contrario di quello che avviene sopra. Qui le colonne di auto procedono lentamente in attesa di trovare come “tirarsi giù”da quell’anello di asfalto imposto, nell’immediato dopoguerra, alla città e fuori da ogni logica urbanistica, dall’ allora rinata Associazione nazionale strade (Anas). Un pesantissimo lascito a segnare per sempre il destino urbanistico di Roma e il proprio espandersi a macchia d’olio.

Non è però all’urbanistica, al comporre il disegno della città (almeno non direttamente), che guarda il Sacro GRA, la pellicola di Gianfranco Rosi vincitrice quest’anno del Leone d’oro della Mostra del Cinema di Venezia. Più che a quell’infrastruttura circolare, che accompagna alla semplicità del proprio tracciato la difficoltà di individuare i punti in cui quella strada entra nel tessuto urbano, Rosi sembra piuttosto domandarsi come un anello, che sembra fatto per percorrerlo senza fermarsi mai, abbia saputo farsi “territorio”.

I potenti signori dell’Anas battezzarono il Raccordo come “autostrada urbana”. Di fatto un ossimoro. Come può un largo nastro d’asfalto (l’autostrada) farsi largo nel tessuto compatto di una città costruita nel tempo: prima dentro le mura e, poi, con una marmellata di case, addossate le une alle altre con insufficienti strade (l’urbano, spalmate tra le vie consolari)? Girandogli intorno. Questo è quanto è stato fatto e, anche questo, ha segnato il primato del trasporto automobilistico privato come elemento principale del muoversi in città.

Solo che, a differenza del Grande Raccordo, che nel tempo prima si è saldato e poi si è andato facendo sempre più largo, la città, Roma, ha subito un metabolismo diverso. Fatto, certo, di aberranti forme di ingrassamento, figlie del processo bulimico della rendita, ma soprattutto facendo dell’urbanizzazione, e quindi della costruzione della città, la struttura principale dell’accumulazione capitalistica.

Il Grande Raccordo Anulare misurabile in termini di chilometri è invece immisurabile. In questa parte della metropoli perde (ma lo è mai stato?) il suo essere un elemento dimensionale, un limite (come le mura), un confine (non individua un dentro e un fuori), un essere lontano e un essere vicino in una città in cui la periferia non è mai stata capace di costruirsi come un’alternativa reale al centro storico. E’ un oltre. Un’ “astrazione“ come ci raccontava Renato Nicolini . Un segno artistico “senza nessun collegamento, dove gli snodi in cui le consolari attraversano il GRA non hanno motivo di essere, tranne l’assolutezza del cerchio”. Una “ macchina celibe , forse – ancora Renato – qualcosa di grande forza simbolica- continuazione ideale della cupola di San Pietro, ma anche, del tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante”.

Un ritratto esatto. Il GRA poggiando sul territorio dell’oltrecittà, dice molto di più delle storie (delle vite) che incontra, diventa il simbolo di come il capitale finanziario costruisce la città scippando le trasformazioni urbane a chi materialmente le produce e privando chi è condannato a vivere in questo abitare di ogni diritto alla città. Il GRA è il simbolo dell’Oltrecittà, quella parte del proprio territorio dove Roma è diventata metropoli perché lì, ma non solo, è iniziata a pensarsi come luogo dove far coesistere le trasformazioni territoriali e quelle istituzionali.

E’ lì che si sommano gli immobili invenduti perché si vuole ogni cittadino indebitato per il resto della vita, ma anche con questo non avrà casa; è lì che i padroni dei “residence” succhiano soldi (tanti) al Comune per riciclare, in case dalle cento finestre corrispondenti ad altrettanti monolocali, le tante famiglie buttate sulla strada magari da quelle stesse case fonte dell’indebitamento; è lì che si costruiscono i recinti “ sicuri” in cui ci si accorge che si ha paura ad abitare in schiere edilizie circondati dall’isolamento sociale, è lì che si costruisce il disprezzo per le “periferie”, per chi le abita, per chi le attraversa; è lì che si torna elezione dopo elezione per dire che finalmente è pronto qualcuno a rappresentarti. E’ in questo magma che il film si cala, costruendo non una storia, ma sommandone alcune.

Solo che, tutte, sembrano avere in comune una sorta di rassegnazione. Lo è quella della ragazza, che vive con il padre in un monolocale, che aspetta che qualcosa accada; lo è quella di chi, sempre nel medesimo residence, rimpiange la casetta del campeggio dove era stata ospitata; lo è quella del sedicente convintissimo principe che affitta per location di set per fotoromanzi (esistono ancora?) una residenza costruita intorno una vasca da bagno dorata, lo è quella della ragazza che balla sul bancone di un bar (attenta a non sbattere la testa su una trave che, anche con le riprese fatte dall’esterno e la sapiente colorazione di Luca Bigazzi, riporta quel locale più che al “Nightawks” di Hopper alla trascuratezza costruttiva di un ingegneraccio romano) decisa a fare a meno del “rossetto rosso che la fa tanto troia”; lo è il pescatore di anguille che sta lì in una casa sul fiume come “mio padre e mio nonno” che ci fa capire, sbeffeggiando il “sapere” di chi si occupa delle sue stesse cose aggravato dal fatto di trovarselo scritto su di un giornale, il senso vero del film: andare a vedere chi ha rinunciato all’abitudine delle relazioni.

L’oltrecittà è metropoli, il luogo dove è più alta la forma di resistenza alla privazione del plusvalore prodotto dall’attività del comune. Nel cerchio del GRA di Rosi non c’è traccia . Ad accorgersene a suo modo è il cacciatore del “punteruolo rosso” che ha capito che per salvare le palme deve riuscire ad ascoltarle. C’è bisogno di ascolto. Lui lo fa con violenza forte della sua “missione”. L’unico a provarci è forse il barelliere con la sua giornata in cui, non per mestiere, mette in pratica esercizi di cura verso gli altri: asciuga le mani dell’anziana mamma preda ad una forma di perdita senile di memoria, le tira fuori i gorgoglii di quand’era bambina, fa lo stesso, aiutandosi con garze e fazzolettini, togliendo il sangue dal volto verso chi raccoglie dopo un incidente, ma non trova nessuno che mostri attenzione a lui. Così per avere compagnia mangia parlando con una ragazza pescata in un collegamento Skype con il computer infilato tra piatto e bicchiere.

Tutti i protagonisti del film, personaggi reali, che sullo schermo interpretano se stessi e le loro storie di ordinaria rinuncia, sembrano riciclare intorno quell’anello un abitare che non hanno mai avuto. Che sono decisi a rinunciare ad avere. Costretti a scegliere (ed accettare?), come sono: se in quei pochi metri quadri mettere un tavolo o un letto o, quando c’è la necessità di tutti e due, optare per la soluzione del letto a castello; a ricevere dalla città quale esclusivo elemento di spettacolo solo traffico; a stupirsi di vedere un segno urbano (ringraziare?) che “comunque il cupolone si vede anche da qui; ad assicurare ( quindi tutto funziona ?) che quella strada gira e rigira, ma trova sempre, se hai un incidente, come portarti all’Ospedale; che affittando stanze puoi tirar su i soldi e continuare a compiacerti della pergamena che elenca i tuoi “titoli”; che da solo puoi, non tanto salvare una palma, ma far valere le “tue ragioni” che tu si che….; che puoi continuare a vendere il tuo corpo con la libertà di scegliere di farlo a casa tua e, quindi, alzare il prezzo; di parlare di vini e di viaggi che non hai mai fatto, ma che devono essere certo descritti in qualche libro che forse hai letto…..

Percorrendo l’Oltrecittà solo pochi anni prima (il progetto ancora continua) gli Stalker (gruppo interdisciplinare di esplorazioni urbane) hanno saputo trovare e riportare sulla scena urbana altre storie. Persone e comunità resistenti, conflitti e progetti di trasformazione, saperi e lavori , affetti, lotte e sogni. Sempre, girando a piedi intorno lo stesso anello, ovunque incontrando in tutti (e fornendo a chi li ha accompagnati in questi anni di viaggio) la consapevolezza di essere lì dove viene rivendicato il diritto alla città.

L’occhio di Rosi pare non volersene accorgere preferendo sezionare la vita degli “altri” quasi con intento divulgativo. E’ casuale che faccia parte del gruppo di produzione il medesimo produttore (Marco Visalberghi) che da sempre segue le incursioni televisive di Piero Angela?

Solo qualche mese fa lo Gianfranco Rosi ci ha consegnato una preziosa “anteprima”; una sorta di “prologo”al suo lavoro, in cui Renato Nicolini ripreso in un viaggio sul GRA in un camper, ci raccontava una Roma diversa, perché sapeva che a quell’anello comunque erano aggrappati, o sfiorava, tanti “ futuri possibili”. Gianfranco Rosi, con straordinarietà, è riuscito in quell’occasione a farsi complice di Renato nel farci capire che il futuro a cui lui faceva riferimento era quello anteriore: il tempo in cui pensiamo all’oggetto del nostro interesse come realizzato anche se ancora ciò non è avvenuto. Renato sapeva che il dominio del capitale finanziario ci avrebbe stretto intorno questa città, ma che saremo stati capaci ( avremo lottato) per liberarsene.

Non ho “individuato” il posto dove il GRA seziona le piste de minibolidi, ma ho ben riconosciuto, per averla progettata qualche anno fa, una piazza ritagliata all’interno di una zona di edilizia popolare. Lasciata alla più completa assenza di ogni forma di manutenzione è oggi quasi una miniforesta. Vedendo che non ci sono però elementi di degrado o di rottura delle sedute o delle pavimentazioni mi pare di capire che chi quella piazza usa, anche lasciando crescere il verde, non ha rinunciato a far morire uno spazio di libertà dal cemento. Intorno al GRA nell’oltrecittà il viaggio continua.