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INCHIESTE
Sacerdoti per sempre. Viaggio nell’istituto del celibato
Sono molti gli interrogativi rimasti aperti alla fine del summit sulla pedofilia, il primo nella storia della Chiesa, in cui Papa Francesco ha convocato circa 190 rappresentanti da tutto il mondo, fra vescovi e cardinali, per affrontare apertamente il problema della pedofilia fra i preti.
Come punire adeguatamente questi episodi di pedofilia? È possibile prevenirli? La pedofilia è un fenomeno tendenzialmente omosessuale? Può il celibato essere una delle cause della pedofilia?
Le risposte sono diverse e discordi. Si tratta di questioni estremamente delicate per l’istituzione ecclesiastica stessa, che appaiono rischiose da mettere in discussione.
Il celibato, ad esempio, è legge canonica dal IV secolo: è solo in seguito al Concilio di Trento che i sacerdoti della Chiesa cattolica di rito latino assunsero l’obbligo di non sposarsi. Sono molti, però, quelli che lo ritengono ormai una pratica obsoleta e difficile da rispettare
Le strade di Civitavecchia sono roventi. La stazione è deserta, i treni cigolano sui binari. Qualcuno sbircia da una finestra vicina, si sporge e tiene d’occhio il marciapiede. La tendina di pizzo bianca le copre il volto, come un velo nuziale. È Anita, la compagna di Paolo. Al suono del citofono corre ad aprire la porta del palazzo. Sorride, ma è piuttosto tesa. Gioca incessantemente con il braccialetto che porta al polso. Quando arriva Paolo ci accomodiamo in cucina, seduti attorno al tavolo.
«Sono stato prete fino a tre anni fa», esordisce lui. Anita tira finalmente un sospiro di sollievo.
«Ero contento della mia vocazione, ma l’amore per lei mi ha travolto come un vortice. È stato un vero uragano». Paolo ha 63 anni, capelli bianchi e occhiali da vista posati sul naso. La sua voce è pacata, morbida come una carezza. Racconta di essere stato missionario in Uruguay e sacerdote in alcune chiese di Spagna e Italia. «Io e Anita ci siamo conosciuti nella parrocchia di Taranto. Condividevamo la stessa passione e abbiamo organizzato insieme un coro di bambini». Guarda fisso davanti a sé in cerca di ricordi. «Le dedicavo canzoni. Poi mi sono accorto che non erano canzoni d’amicizia. Il mio era un sentimento d’amore. Lei era diventata qualcosa in più, una sorella, una mamma. Era una presenza che mi sapeva capire e vicino a lei mi sentivo forte». Anita tiene gli occhi su Paolo e annuisce, aggiunge solo alcune cose sottovoce: «Sentivamo davvero un forte amore l’uno per l’altra. Ma allo stesso tempo cercavamo di respingerlo, perché sapevamo che avrebbe causato tanta sofferenza. Era come se stessimo su un vulcano pronto a esplodere».
Quando si è reso conto di essersi innamorato, Paolo ha vissuto un periodo di profonda crisi. «Non potevo fare una doppia vita, continuare a svolgere il ministero e amare Anita di nascosto». Alla fine, ha chiesto di lasciare il suo incarico di sacerdote per stare con lei.
Anche Alvaro ha avuto un’esperienza simile, ma rispetto a Paolo l’ha vissuta qualche anno prima. «Ho conosciuto mia moglie nella chiesa dove lavoravo come animatore – racconta lui – Silvia aveva solo 18 anni, io ne avevo 15 in più. Mi sembrò subito una donna coraggiosa, decisa, piena di qualità». Alvaro è di origine spagnola ed è stato sacerdote missionario nello Zaire. Oggi ha 62 anni e vive a Torino. Ha i capelli scompigliati, le sopracciglia buone e un sorriso contagioso.
«Quando mi sono innamorato di Silvia, la mia vita mi è apparsa improvvisamente di cartapesta, senza profondità. Per questo ho dovuto abbandonare la strada religiosa».
Alvaro ha comunicato il suo disagio alla congregazione dei missionari a cui apparteneva e i suoi superiori gli hanno dato del tempo per pensare. Lui ha colto l’occasione per passare qualche mese in Spagna.
«Quando un prete affronta una crisi vocazionale, la Chiesa invita sempre a fare un approfondimento», afferma il professor Marco Ermes Luparia, presidente dell’Apostolato accademico salvatoriano. Polo grigia e croce di legno al collo, Luparia è diacono permanente. Seduto in poltrona, fruga fra le sue carte e scrive appunti. È a capo di una struttura che si occupa di preti con difficoltà psicologiche, ma ospita anche quei sacerdoti in crisi che vogliono trascorrere lì il loro periodo di “discernimento”. «Il discernimento è una sorta di ritiro spirituale» spiega Luparia. Il prete si allontana per alcuni mesi dal luogo in cui opera e, con l’aiuto di altri preti e di psicologi specializzati, cerca di approfondire le motivazioni che lo rendono infelice. «È un momento per riflettere su di sé e sulla propria vocazione. Non è obbligatorio. Ma è auspicabile che ciascuno lo faccia». È un periodo di profonda sofferenza, pieno di tormenti e lotte interiori. «Non ho affrontato il discernimento da solo, la mia congregazione mi ha sostenuto – racconta Paolo – ma per me è stato comunque un dramma». Anche Anita gli è stata vicino, incontrando le persone che si occupavano di lui: «Ho spiegato loro che le mie intenzioni erano sincere e che non ero solo una acchiappauomini».
Quando un prete è davvero convinto di voler abbandonare il ministero, fa poi una richiesta ufficiale ai propri superiori, i quali presentano il caso direttamente al papa. «Giovanni Paolo II non tardò molto a rispondermi – racconta Alvaro – ci vollero solo 4 mesi. E nell’attesa di essere dimesso non ho avuto alcun obbligo, nemmeno quello di celebrare messa. In quei mesi ho iniziato a cercare un lavoro». Un prete che viene “dimesso dallo stato clericale” infatti si trova a dover ricominciare la propria vita da capo, come fosse appena nato in una terra di mezzo sociale e psicologica. Ha bisogno di una casa, di un lavoro e deve in qualche modo reinventarsi. «Ho trovato un posto da educatore in una comunità di minorenni a rischio e ho avuto una casa in comodato d’uso. La pagavo un euro l’anno – spiega Alvaro – Me la sono cavata. Poi, grazie all’aiuto di un vescovo e di diverse persone che avevano frequentato la parrocchia, sono riuscito a diventare insegnante di religione».
La Chiesa non prevede un aiuto economico ufficiale per i preti che la abbandonano.
«Ho ricevuto del denaro dalla mia congregazione – racconta Paolo – poi sono arrivati tanti piccoli miracoli, che mi hanno permesso di pagare l’affitto». Tutto dipende dai rapporti che, nel corso del tempo, un prete è riuscito a instaurare con i vescovi, con gli altri preti e con la propria comunità. Oggi Paolo vive di donazioni e del reddito di inclusione. «Ho cercato lavoro, ma è davvero difficile, soprattutto alla mia età». Ha chiesto una mano a numerosi parroci, ma non tutti si sono rivelati disposti ad aiutarlo: talvolta la Chiesa preferisce mettere al bando gli ex-preti dalle sue comunità. «Mi sentivo in colpa – confessa Anita – per averlo messo in questa situazione». Altre volte invece sono gli stessi preti che, una volta dimessi, non riescono a chiedere assistenza. Avvertono un senso di vergogna eccessivo e preferiscono sparire. Il passaggio da sacerdote a uomo laico è molto doloroso e non tutti sono in grado di affrontarlo. «Quando ho capito cosa mi stava succedendo, ho cominciato a scrivere delle lettere agli amici, alle sorelle, chiedendo loro perdono per il mio comportamento – confessa Paolo – La mia famiglia è di quelle cattoliche tradizionali, per cui quando l’hanno saputo, hanno sofferto tantissimo. Sono riuscito a dirlo a mia madre soltanto l’anno scorso, procurandole un grosso dolore». C’è chi si rivela pubblicamente con una cerimonia, chi lo fa individualmente e in maniera graduale. L’impressione però è sempre quella di ferire gli altri.
«Nessuno della mia famiglia è venuto al mio matrimonio – racconta Alvaro – Per mia mamma è stato un colpo così duro da arrivare a dirmi: non sei più mio figlio. Ma l’ho capita. Per lei è stato come se avessi rinnegato la fede, come se fossi un traditore». Paolo aggiunge che una delle sue più grandi preoccupazioni era quella di turbare le persone fragili nella fede.
«Ho dedicato una vita al sacerdozio, stavo male a pensare che potesse essere stato tutto inutile. Poi un amico mi ha detto: non ti preoccupare, il bene che hai fatto non sarà dimenticato».
Perché molti dei preti che si dimettono per amore, in realtà, sentono la fede ancora più di prima. «Io mi sento missionario e sacerdote ancora oggi. Lo sento dentro. La Chiesa non può toglierti il sacramento, può solo toglierti la facoltà di esercitarlo», afferma Paolo. Perché in effetti un sacramento non può essere cancellato e i sacerdoti, pur ridotti allo stato laicale, rimangono sacerdoti per sempre. Potrebbero continuare a esercitare il loro ministero, se volessero. Un ministero illecito, ma pur sempre valido. «Non ho mai sentito il bisogno di farlo – confessa Alvaro – Prego. Ma non ho mai voluto celebrare l’eucaristia, neanche fra gli amici». Eppure, sono molti gli ex-sacerdoti che continuano a celebrare i sacramenti e a offrire servizi alla comunità. Vocatio ne raccoglie a centinaia. Nata nel 1981, è un’associazione di preti sposati che si appoggia alle Comunità cristiane di base sparse in Italia.
«La maggior parte di noi non ha avuto alcuna crisi vocazionale – spiega Rosario Mocciaro, prete sposato, presidente dell’associazione e responsabile della Comunità di base di San Paolo a Roma – per questo ci sentiamo chiamati a essere ancora preti di una comunità». Non intendono creare un’altra Chiesa, ma contribuire a rendere “altra” la loro Chiesa di appartenenza. «Noi ci riuniamo qui», varca un cancello di ferro su via Ostiense e indica una grande sala quadrata. Cartelloni colorati e avvisi alle pareti, sembra di essere a scuola o al catechismo. Un tavolo di legno e nient’altro: «Quello è l’altare su cui celebriamo messa la domenica». Alcuni però non condividono questo atteggiamento. Per Paolo, ad esempio, è una questione di rispetto: «Anche io vorrei che la Chiesa cambiasse e ci lasciasse sposare. Ma la rispetto e non potrei mai celebrare la messa. Quelli che lo fanno non sono in piena comunione con la nostra Madre Chiesa».
Scheda
In base ai dati dell’Annuario statistico vaticano, sono circa 40 i sacerdoti che, ogni anno, scelgono di lasciare il ministero, su un clero formato da quasi 32.000 preti. I motivi per lasciare si riducono a tre: un prete può essere cacciato per aver commesso qualcosa di sbagliato, può improvvisamente non credere più in ciò che stava facendo, oppure può innamorarsi. E di preti innamorati, costretti a scegliere fra il sacerdozio e il matrimonio, ce ne sono sempre di più.
I sacerdoti della Chiesa cattolica di rito latino hanno l’obbligo di non sposarsi: il celibato è legge canonica dal IV secolo, ribadita dal Concilio di Trento. Molti però lo ritengono ormai una pratica ecclesiastica difficile da rispettare.
Per questo si sta iniziando a parlare della possibilità di abolirla. Papa Francesco, intanto, sembra aver assunto una posizione di apertura sul fronte dell’ordinazione dei cosiddetti viri probati, “uomini sposati di provata fede”, piccoli gruppi di laici impegnati in parrocchia, già sposati o vedovi, con figli adulti, che verrebbero ordinati sacerdoti in quelle zone della terra, come l’Amazzonia, dove c’è carenza di clero. I viri probati farebbero parte di una sorta di sacerdozio parallelo e complementare a quello dei preti che escono dal seminario: sarebbero qualcosa in più rispetto a un diacono e qualcosa in meno rispetto a un prete. La loro ordinazione rappresenterebbe un primo segnale importante di evoluzione da parte della Chiesa nei confronti del celibato.