DIRITTI
Ru486, da domani anche nel Lazio in day hospital
Cancellata la norma eredità del governo di Renata Polverini che costringeva al ricovero per accedere all’aborto farmocologico, una norma punitiva e vessatoria nei confronti delle donne, in una regione come il Lazio con il sistema sanitario al collasso e la maggior parte dei medici obiettori.
La Regione Lazio, è cosa nota, in campo sanitario è vicina al collasso. Mancano concorsi pubblici per le assunzioni di nuovi medici dai primi anni novanta, gli scandali di gestione clientelare e i presunti casi di malasanità travolgono interi reparti ospedalieri, le attese per le prestazioni sanitarie sono lunghe e alla fine della trafila per l’utente c’è sempre il pagamento del ticket in quello che dovrebbe essere un servizio pubblico, universale e garantito. Il dissesto finanziario è stato dichiarato da una decina d’anni e, come se non fosse abbastanza, il buco di bilancio nella sola sanità che ammonta a circa 12 miliardi di euro ha avuto come conseguenza il commissariamento forzato, benchè in questo disastroso contesto appaia illogica la mancanza di un assessorato dedicato alla sanità e di una figura competente che possa assolverne i ruoli. In un momento in cui tutto ciò che ruota attorno alla salute e al corpo della donna è al centro del dibattito, fra il clamore suscitato dalla storia di Valentina (affetta da malattia genetica e costretta a abortire il feto a sua volta affetto ormai al quinto mese per non avere accesso alla diagnosi pre-impianto grazie all’assurdità della legge 40) e il festoso corteo dell’otto marzo che ha attraversato Roma, arriva sulla scena l’attuale commissario Nicola Zingaretti che sceglie di porre fine a un’anomalia molto costosa sia in termini economici che in termini di qualità del servizio sanitario offerto. Da oggi infatti la somministrazione della RU486, fatta salva la discrezionalità del medico nel valutare da caso a caso, sarà in day hospital anzichè in regime di ricovero ordinario, peraltro rifiutato da una percentuale che sfiora l’80% delle donne richiedenti questo metodo abortivo che scelgono di firmare la dimissione volontaria e tornare a casa per ripresentarsi il giorno successivo in ospedale.
Scoperto nel 1980 in Francia ma arrivato in Italia in un nugolo di polemiche solo nel 2002, il mifepristone, principio attivo della Ru486, è un anti-progestinico somministrato fino alla settima settimana di gestazione in associazione alle prostaglandine. Il primo causa il distacco dell’embrione dalla mucosa uterina, le seconde inducono le contrazioni uterine necessarie all’espulsione dell’embrione e della mucosa attraverso la vagina. La procedura ha quindi evidenti vantaggi rispetto all’aborto chirurgico: viene somministrata in forma di compresse e può essere eseguita anche nelle fasi precoci della gravidanza, risultando così meno invasiva e meno traumatica rispetto alle procedure chirurgiche. Ciononostante, per la Ru486 è richiesto un ricovero che varia dai tre ai cinque giorni, mentre l’aborto chirurgico viene effettuato in regime di day hospital. La delibera regionale, oltre a porre fine a questo nonsense e seguire quelle che sono le linee guida internazionali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla somministrazione in day hospital, rende questo trattamento più accessibile per tutte le donne, soprattutto precarie o lavoratrici in nero, che non hanno la possibilità di assentarsi dal lavoro. Nella pratica, da oggi negli ospedali laziali gli accessi in reparto saranno in totale tre, con la dimissione che avviene già in mattinata: il prericovero per effettuare gli esami ematochimici e indagini ecografiche per stabilire l’effettiva presenza intrauterina (non è efficace con le gravidanze extrauterine che vanno trattate chirurgicamente) e tempistica della gravidanza, il secondo per la somministrazione delle compresse (da una a tre) e un terzo per controllare l’avvenuto distacco e una eventuale espulsione diretta che avviene solo nel 5% dei casi, per il restante 95% si procede con le prostaglandine (a cui fa seguito un’emorragia simil-mestruale, dunque perfettamente controllabile). L’ultimo accesso avviene a 21 giorni, per controllare nuovamente se è avvenuta l’espulsione e lo stato di salute generale della donna.
A parte rari eventi avversi che possono verificarsi nella somministrazione di qualsiasi farmaco, dall’aspirina agli antibiotici, fra le controindicazioni e i fattori di rischio non si trova nulla di pericoloso o letale che giustifichi il ricovero poiché sono tutte refertabili prima dell’inizio della procedura: fumo, cardiopatie, lo stato di coagulabilità della paziente e via dicendo. Eppure anche questa volta Olimpia Tarzia, che a suo tempo propose di trasformare i consultori in veri e proprie roccaforti dei movimenti anti-abortisti, ha avuto i riflettori puntati e l’occasione di diffondere falsità, millantando una presunta pericolosità del trattamento che come tale va monitorato 24h (questa volta non c’è bisogno nemmeno di citare esempi oltreconfine per trovare sprazzi di civiltà e buonsenso, il day hospital è già praticato in Toscana, Emilia e Umbria), e mostrando sincera preoccupazione che questo provvedimento spingerà le donne all’aborto fai-da-te (forse si è scordata che dove l’aborto è illegale le donne abortiscono da sole con vecchi ferri arrugginiti o in mano a qualche delinquente in uno scantinato). Invitiamo la Consigliera a tenere strettamente per sé le sue opinioni anacronistiche in quanto antiscientifiche, perché, nel caso non lo sapesse, in medicina le cose antiscientifiche danneggiano il paziente, la sua salute ma soprattutto il più delle volte uccidono.
*Assemblea di Medicina – La Sapienza