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Rompere la gabbia del potere bianco
Su Difendersi. Una filosofia della violenza di Elsa Dorlin. Una recensione dell’ultimo saggio della studiosa francese, in cui vengono affrontati i presupposti e le potenzialità della controviolenza femminista come forma di autodifesa dalla violenza strutturale dello Stato, dalle suffragette alle Black Panther
«Partire dal muscolo anziché dalla legge. Questo sposterebbe il modo in cui la violenza è stata problematizzata dal pensiero politico. Questo libro si concentra su dei momenti storici di passaggio alla violenza difensiva (alla pratica dell’autodifesa), su dei momenti che non possono essere resi intelligibili sottomettendoli a un’analisi politica e morale incentrata su questioni di “legittimità”. In ogni suo momento, il passaggio alla violenza difensiva ha avuto come unica posta in gioco la vita: non essere abbattutx sin dall’inizio. Questa forma di violenza fisica è qui pensata come necessità vitale, in quanto prassi di resistenza».
È attraverso queste potenti parole, più che pregnanti se si pensa allo stato di emergenza sanitaria ed economica al centro della nostra attuale congiuntura storica, che Elsa Dorlin enuncia sin dall’introduzione il programma d’inchiesta del suo ultimo lavoro, un testo assai suggestivo già dal titolo stesso: Difendersi. Una filosofia della violenza. Uscito nel 2017, appena pubblicato dalla Fandango Libri (20 €), si tratta del primo testo dell’autrice tradotto (finalmente) in italiano. L’opera di Dorlin, femminista, docente di Filosofia all’Università di Parigi VIII, già nota per almeno due opere altrettanto importanti – Sexe, genre et sexualités: introduction à la théorie féministe (2008) e soprattutto il formidabile La matrice de la race: généalogie sexuelle et coloniale de la nation française (2006) – offre sicuramente una delle riflessioni continentali più profonde e stimolanti su quello che può essere qui considerato l’antirazzismo come pratica politica, ma soprattutto teorico-epistemologica.
Incentrati sullo smascheramento del potente intreccio storico di sessismo, classismo e razzismo nella costituzione dei dispositivi moderni e coloniali di dominio, gli scritti di Dorlin si dispiegano a partire da una prospettiva femminista assai originale, si potrebbe dire decoloniale o postcoloniale, che concede poco alle retoriche del momento, alle loro parole d’ordine e alle loro vuote enunciazioni (identitarie) di principio, privilegiando invece nelle sue approfondite analisi storiche una messa al lavoro teorico-critica di quello “sguardo altro” – di quella “conoscenza di parte” – proveniente dall’archivio globale delle lotte del femminismo e dell’antirazzismo nero. Un esempio: pur senza nominare nemmeno una volta il termine intersezionalità, o qualcuno dei suoi derivati, Difendersi ci propone un’analisi tanto esemplare quanto storicamente fondata del modo in cui la combinazione di classe, razza, e genere è stata sempre al centro sia della colonialità del potere capitalistico globale moderno e delle sue tecnologie di governo, sia di buona parte dei movimenti di resistenza e soggettivazione.
Autodifesa e violenza difensiva come soggettivazione
Il testo di Dorlin si snoda a partire da una doppia linea d’inchiesta, le cui rispettive pieghe vengono considerate come una disaggregazione gerarchica, interna e costitutiva, dello stesso esercizio liberal-borghese, moderno e occidentale, del potere: la costruzione/legittimazione politico-giuridica, da una parte di «soggetti degni di difendersi e di essere difesi» e, dall’altra, di “corpi disarmati, violentabili, e quindi costretti ad adottare pratiche di autodifesa”, sia per conservare la propria vita sia per riaffermare la loro stessa esistenza sociale. Si tratta di un dispositivo di gerarchizzazione della cittadinanza non tanto prodotto quanto affinato o riassemblato dalla progressiva razzializzazione della razionalità capitalistica di governo. Particolarmente emblematici, da questo punto di vista, il primo capitolo “La fabbrica dei corpi disarmati”, dedicato alle strategie di governo coloniali finalizzate, in modo del tutto complementare, al riarmo dei coloni europei e al disarmo di nativi, schiavi e indigeni, così come il capitolo V, “Giustizia bianca”, in cui le diverse forme coloniali di vigilantismo vengono considerate come una sorta di «braccio armato della supremazia bianca», ovvero come fenomeni direttamente autorizzati e quindi legittimati dalla stessa architettura legale-culturale dello stato-razziale coloniale.
Traendo spunto da un vecchio saggio di J. Butler – Tra razzismo e paranoia bianca (2011) – Dorlin ricorda, attraverso una brillante analisi dei casi di Rodney King a Los Angeles nel 1992 e di Trayvon Martin in Florida nel 2012, che è proprio l’episteme razzista dei moderni dispositivi di potere, ovvero la costruzione di alcuni corpi come di per sé minacciosi, violenti, pericolosi, illegali, a consentire una (ideologica) inversione dei ruoli, in cui l’aggressore (lo Stato, la polizia, la giustizia proprietaria bianca) diviene la vittima e la preda (non-bianchx, poverx) il predatore. Inutile aggiungere che all’interno di quest’ottica, il sintomatico grido di disperazione, “I can’t Breathe”, pronunciato da Eric Garner e George Floyd nell’imminenza dei loro assassinii, viene ad assumere una nuova e ancora più spettrale valenza. Ma lo stesso potrebbe dirsi, per esempio, del brutale assassinio del bracciante-sindacalista Soumaila Sacko nelle campagne dell’Italia del Sud. La problematica di Dorlin, non si risolve però nel mero (e agambeniano) riconoscimento di un perverso rapporto storico-dialettico tra “potere sovrano” e “nuda vita” come cifra del moderno.
Anzi, Difendersi si propone più che altro come un’affascinante genealogia storica della costituzione di diversi «movimenti di autodifesa», ovvero, per dirlo con le stesse parole di Dorlin, «del passaggio alla violenza fisica difensiva di determinati gruppi come pratica di soggettivazione».
Così, il testo tesse la sua trama principale portando alla luce una suggestiva costellazione politica costituita da alcuni dei più noti “movimenti di autodifesa” della storia: dalle numerose rivolte di schiavi e indigeni avvenute nel mondo coloniale moderno, al ricorso al Ju-Jitsu e all’istruzione alle arti marziali come pratica di autodifesa femminista promosse dalle suffragette inglesi (in particolare da Edith Garrud, fondatrice del Suffragettes Self-Defense Group nel 1909), passando dalla proposta di Pauline Léon e Théroigne de Méricourt, negli anni della Rivoluzione francese, di creare un battaglione popolare di Amazzone in difesa dei diritti della Repubblica; dall’appello all’insorgenza armata dei neri contro la pratica bianca del linciaggio lanciato, tra altrx, dalla femminista nera Ida B. Wells, alle tecniche di combattimento elaborate dagli ebrei nel ghetto di Varsavia contro i pogrom e altre forme di violenza razzista; dalla costituzione del Partito delle Pantere nere per l’autodifesa alla formazione delle pattuglie Queer di autodifesa negli anni immediatamente successivi alle rivolte di Stonewall nel 1969.
Autodifesa (rivoluzionaria) vs legittima difesa (proprietaria)
Queste contro-condotte subalterne, afferma Dorlin, «formano quelle che io chiamo l’autodifesa propriamente detta, in contrasto con il concetto di giuridico di legittima difesa». La principale enunciazione politica del testo sta proprio in questa contrapposizione tra “legittima difesa” (delle classi dominanti) e “autodifesa (dei gruppi oppressi), costruita dall’autrice leggendo alcune delle espressioni principali della teoria borghese del contratto sociale, come Hobbes, Locke e Hegel, a contropelo dei testi di Ida B. Wells, dei discorsi di Malcolm X, de I dannati della terra di Fanon e dell’altrettanto popolare Negroes with Guns di Robert Williams, così come di altri autori ed esperienze centrali all’interno della tradizione radicale nera.
Mentre la “legittima difesa” presuppone un “soggetto di diritto” già legalmente costituito (in virtù del possesso proprietario, così come dell’appartenenza di razza e di genere), il movimento di autodifesa è stata l’unica garanzia di soggettività politica dei corpi subalterni, ovvero il principale strumento di reale empowerment per indigeni, schiavi, colonizzati, donne, omosessuali, ecc. Si tratta di un’affermazione che resta chiaramente valida anche nel caso dell’esperienza storica di migranti e rifugiati. Detto altrimenti, le forme storiche dell’autodifesa, ridefinite da Dorlin come “etiche marziali di sé” – in una chiara rivisitazione (femminista e postcoloniale?) del concetto di “tecnologia del sé” come pratica di soggettivazione abbozzato da Foucault – hanno storicamente rappresentato, per molte delle diverse forme di esistenza subalterna, non solo una reale necessità vitale, data la loro estrema vicinanza a una condizione di morte (fisica o sociale) prematura, ma soprattutto un passaggio necessario alla loro visualizzazione-costituzione come “soggetti di diritto”.
“Legittima difesa” e “pratiche di autodifesa”, dunque, due diversi “dispositivi difensivi” storicamente in lotta: il primo del tutto “legittimo”, garantito dallo Stato attraverso un certo tipo di sussunzione legale (proprietaria, sessista e razziale) della violenza sociale, ma non di rado esercitato anche da associazioni cittadine private autorizzate o stimolate in qualche modo dallo stesso apparato legale (si pensi alla concessione del porto d’armi, così come alla tolleranza o alla complicità diretta statale con diverse forme di vigilantismo, dalle cooperative giudiziarie britanniche del XIX secolo a organizzazioni come il Ku Klux Klan o al fenomeno delle formazioni paramilitari in molti paesi dell’America Latina); il secondo, reso non solo “illegittimo” dalle tecnologie moderne di governo, ma si potrebbe dire, come sintomo di una perversa condizione sociale, altrettanto “necropolitico” (termine non usato da Dorlin): più i corpi subalterni sono spinti ad “autodifendersi” per (r)esistere, più essi rischiano la morte e l’annientamento.
Non si tratta però di fare il gioco del potere e di ristabilire un’impotente spirale senza via d’uscita, bensì di riaffermare che non vi può essere una reale emancipazione dei corpi-soggetti subalterni – nozione che Dorlin usa volutamente in un senso più vicino a quello di Spivak che non di Gramsci – senza un rovesciamento progressivo delle logiche di classe, razza e genere su cui si è costituito il modo capitalistico di accumulazione e il suo ordinamento coloniale-razziale.
L’autodifesa è (definibile come) tale solo quando opera nel senso di una trasformazione rivoluzionaria del sistema. È quanto intendono mettere in chiaro due delle parti più avvincenti del testo: la ricostruzione del passaggio alla “violenza difensiva” rappresentata dall’adozione del Ju-Jitsu come pratica di autodifesa marziale-personale promossa da una delle correnti d’ispirazione anarchica, comunista e internazionalista del movimento delle suffragette (Cap II., pp. 86-95) e quella, comunque più nota, della scelta dell’autodifesa armata all’interno del Black Panther Party (Cap VI, pp. 197-230). Il ragionamento di Dorlin è qui cristallino. Questi movimenti di autodifesa vengono qui posti come un punto di riferimento perché la loro «soggettivazione marziale», per così dire, sta a significare che «il passaggio alla violenza – quella dell’azione diretta e senza compromessi – è inscindibilmente legato a quella constatazione secondo cui la rivendicazione di un’eguaglianza civile e politica non può essere rivolta allo Stato in modo pacifico», dato che esso è l’artefice principale della violenza strutturale contro le donne, contro i neri e contro le altre minoranze indesiderate. Appare dunque del tutto illusorio (chiedere di) mettersi sotto la sua protezione.
Rompere la gabbia del potere bianco
E tuttavia il progetto di Dorlin non deve essere frainteso: ponendo come paradigma l’approccio femminista alla questione del dominio, Difendersi non si limita a proporre uno sguardo feticistico e a buon mercato, in modo tanto nostalgico quanto improduttivo, di alcune delle più note forme storiche di “violenza difensiva”. In questo senso, il testo ci offre un’importante indicazione di metodo per la costruzione di un contropotere: concentrare l’attenzione non tanto sui soggetti politici già costituiti quanto piuttosto sulla politicizzazione della soggettività, «nel quotidiano, nell’intimità dei sentimenti di rabbia racchiusi in noi, nella solitudine delle esperienze fatte della violenza, rispetto alle quali pratichiamo continuamente un’autodifesa non riconosciuta come tale».
In sintesi, Difendersi pone coraggiosamente la questione storica del ricorso alla “violenza difensiva” – alla difesa di sé – come necessario passaggio all’atto (politico) per una molteplicità (oggi sempre più estesa) di soggetti, gruppi e classi oppresse. Si tratta di una questione che torna particolarmente urgente di fronte all’ulteriore ripiegamento in senso dispotico del comando capitalistico globale. Tornare sull’omicidio razzista di George Floyd quanto sulle polemiche nate attorno alla radicalità delle grandi insorgenze antirazziste globali seguite alla sua esecuzione può aggiungere nuova luce all’interrogativo fondamentale a cui Dorlin cerca di rispondere con il suo lavoro: «Cosa fa la violenza, giorno dopo giorno, alle nostre vite, ai nostri corpi, ai nostri muscoli? E a questi ultimi, a loro volta, cosa è consentito di fare all’interno della violenza e attraverso di essa?». E chiaramente, anche viceversa.
Immagine di copertina da commons.wikimedia.org