ROMA
Roma: tre sindaci e un commissario. Ripercorrendo cinque anni vissuti pericolosamente
Tre sindaci e un commissario hanno attraversato Roma durante i nostri “primi” cinque anni. Ognuno di loro ha legato il proprio mandato a specifici progetti e iniziative per la trasformazione della città. DinamoPress li ha marcati stretti andando sempre a vedere come ad ognuno di quei corpaccioni di cemento, che via via hanno proposto, si legasse un‘idea di città. Cosa abbiamo scoperto? Pur nelle dovute differenze sembra esserci un tratto costante: passare dal pensare alla metropoli come merce a considerare chi l’abita (noi) come merce.
Roma. Atto primo: Con Alemanno da casa… nasce casa
Il nostro portale s’inaugura analizzando (e combattendo) il diluvio di delibere urbanistiche (64!) che l’allora sindaco Gianni Alemanno intende portare al voto dell’aula Giulio Cesare. Lui le interpreta come una sorta di voto di fiducia collettivo sulla sua stagione. Il volume di fuoco cementizio messo in campo dal sindaco neofascista mette paura. Ancor di più pesano la disinvolta ingegneria procedurale proposta e la sudditanza all’immobiliarismo finanziario che quei progetti comportano. Riportiamo tutto su di una carta.
Proponiamo di leggerla ad alta voce chiedendo «ai movimenti, alle associazioni, a chi la città abita, a chi vuole trasformarla, di aiutarci a far parlare questa carta con lotte, ipotesi, connessioni, ragionamenti, sogni da condividere per sconfiggere la miseria e la solitudine con cui hanno deciso di circondarci».
È la nostra cifra con cui intendiamo caratterizzare il nostro lavoro: inchiesta e informazione.
Ci accorgiamo che queste delibere si accodano al piano regolatore di Veltroni (2008) alla perfezione. Considerano l’intero territorio della città come «offerta». Disponibile a essere programmato da chi decide gli investimenti scompare la distinzione urbana tra interessi pubblici e interessi privati.
Chi investe rovescia il paradigma urbanistico. Ora non è più la comunità insediata a scegliere cosa fare. Si fa al contrario. Si decidono destini edilizi indipendentemente dall’abitare o dall’assicurare il raggiungimento di questo diritto da parte di molti.
A Roma il valore della qualità della vita non conta. Prevale il valore del mercato. Con questo metro si guarda alla trasformazione della città.
Le 64 delibere sono fulmini di cemento destinati a pesare più di 20 milioni di metri cubi. Roma scopre allora il fenomeno dell’invenduto. Stime prudenziali fissano, siamo nel 2013, il numero degli appartamenti tenuti serrati in una cifra superiore alle 200.000 unità. All’interno di un quadro generale previsto da Veltroni (60 milioni di metri cubi e neppure un mattone per l’edilizia residenziale pubblica), Alemanno vuole piantare 12 milioni di metri cubi destinati esclusivamente a case private.
La fotografia di Roma al 2013, al momento dell’uscita di scena del sindaco post-fascista, prospetta un panorama fatto di: costruzione di case, consumo di suolo, realizzazione di un patrimonio edilizio destinato a restare invenduto. Cosa è attaccato a quei corpaccioni edilizi? Aree densificate senza la necessaria dotazione dei servizi, edifici pubblici (così vuole e ottiene la Bce) in svendita, un territorio impoverito, realizzazioni pensate dalle istituzioni di finanza per colpire al cuore la vita stessa di ognuno di noi.
Le delibere sono respinte al mittente. Prima dalla città. Poi dall’opposizione in aula.
I movimenti lasciano sul terreno due sgomberi eccellenti: Scup a San Giovanni (8 febbraio 2013) e Communia (16 agosto2013). Ben presto però occupano nuovi spazi per continuare le proprie attività.
La città di Alemanno poggia sulla costruzione di spazi indefiniti per intervenire, direttamente sul corso della vita di tutti noi, con lo sfaldamento e la rimozione di ogni programma di aiuto sociale, la contrazione salariale e l’aumento dello sfruttamento del lavoro, la privatizzazione di ogni risorsa naturale e comune al fine di spingere sempre più avanti l’indebitamento delle famiglie per accaparrarsi e assicurarsi immediatamente rendita e profitto. Tutto sembra avvenire all’interno di «un gruppo di famiglia» in cui si scambiano tra loro ruoli pubblici e ruoli privati.
Così DinamoPress inizia a raccontare di: «edifici che cambiano destinazione e valore in un giorno, mezzi di trasporto comprati anni prima di realizzare (a volte perfino progettare esecutivamente) le infrastrutture per contenerli, terreni che avrebbero dovuto ospitare esclusivamente funzioni collettive invasi da centri commerciali, luoghi del lavoro e dei servizi abbattuti e fatti saltare in aria per fare case di lusso. Ancora: la lunga linea di costa cementificata e regalata ai padroni della spiaggia di Ostia, metropolitane che non si faranno ma di cui si affideranno lo stesso i lavori di costruzione, opere iniziate e lasciate a metà, case inutili e destinate a restare vuote, società a partecipazione pubblica che, prima vendono un proprio bene per, poi ricomprarlo dopo poco tempo, a un prezzo nettamente superiore».
DinamoPress titola: Nun je da retta Roma. Questo dicono i movimenti e le forze che lottano e non vogliono che la città venga considerata esclusivamente come un soggetto economico in cui la vita di tutti noi sembra destinata a contare davvero poco se continuerà a essere confinata dentro questi recinti urbani che i gruppi della finanza immobiliare vogliono inchiodarle addosso.
Roma. Atto secondo: Con Marino. È la finanza bellezza!
Ignazio Marino da sindaco chiarisce subito che non intende mettere mano al piano regolatore di Veltroni. Di questo prende tutto «vuoto per pieno»: la (tanta) cubatura e i meccanismi di quello strumento. Con loro il sistema di potere che guarda all’attuazione del piano puntando a privare un vasto settore tra chi è accolto sotto il cielo di Roma di qualsiasi diritto alla città. Chi comanda Roma? Il nuovo sindaco se lo chiede, ma non riesce a capire quello che i nuovi strumenti dell’urbanistica occultano e soprattutto di come il capitale finanziario abbia dichiarato da tempo guerra alla città. Lui, il Sindaco, decide di arrendersi prima di capire che loro ancora non hanno vinto. Ha paura. Vede che hanno schierato le truppe per acquisire facilmente gli edifici pubblici in dismissione.
Due i luoghi simbolici proprio allora nel mirino della rendita. Quello degli stabilimenti di Cinecittà che un banchiere intende cancellare, per fare rendita immobiliare del grande spazio dove con l’immaginario cinematografico romano si è costruita una buona parte dell’immaginario cittadino. Quello delle torri all’Eur (ex ministero delle Finanze) dove tutti: enti pubblici, finanzieri, costruttori, politici, si candidando al ruolo di necroforo della città bene comune.
Anche Marino si trova di fronte il problema della casa. A Roma sono 50.000. famiglie in difficoltà abitativa. Il numero dell’invenduto cresce. Le case vuote rendono evidente di cosa sono fatte le città colpite dalla crisi. L’invenduto e l’inoccupato edilizio è divenuto il loro panorama distintivo. Pochi mesi prima della sua elezione, nel dicembre 2012, altre 2000 persone si sommano al numero dei 10.000 che occupano una casa. Sono 850 famiglie. Marino deve poco dopo (2014) fare i conti con il dispotico decreto Lupi che, all’art. 5, nega il riconoscimento della residenza a chi occupa, con esso cancellando ogni diritto, dalla salute alla scuola.
Le occupazioni parlano alla città nel momento in cui questa è impegnata nella ridefinizione del proprio spazio urbano.
Anche questo sindaco inanella sgomberi. Quello dell’Angelo Mai (marzo 2014) che impacchetta per lungo tempo quella preziosa attività culturale e quello nell’agosto del medesimo anno del teatro Valle – condannato da allora a essere uno spazio abbandonato, mentre prima mostrava una creatività culturale quotidiana riconosciuta in tutto il mondo.
Marino non capisce che le occupazioni stanno lì a dimostrare come il problema della casa non possa essere affrontato in modo disgiunto da quello della città. È proprio intorno al “costruito”, a questi nuovi panorami edilizi, messi su privando masse sempre più numerose di persone di ogni diritto alla città, che si sviluppa il conflitto.
Tra i movimenti sociali che puntano al suo utilizzo e, con esso, ad un grande progetto di riconversione delle nostre periferie, con l’utilizzo di spazi e immobili per nuovi servizi, attività produttive e culturali e chi, il Governo, che quale esecutore di ordini altrui, vuole continuare a non interrompere i processi di rendita privata, a dismettere il patrimonio pubblico consegnando al mercato, insieme agli immobili, il decidere di cosa fare delle città.
Esplode il caso della ex dogana di San Lorenzo, paradigmatico dell’attività di valorizzazione operata da Cassa Depositi e Prestiti. San Lorenzo diventa centrale. Marino consegna il quartiere ai progetti che in nome della rigenerazione urbana interpretano i peggiori dettami del Piano Casa nazionale, voluto dal governo Berlusconi ed accettato nella sua versione locale da tutti i governatori della regione Lazio. A San Lorenzo nasce un’opposizione senza pari da parte di chi abita che già hanno visto le ruspe demolire la vecchia fabbrica Bastianelli, lo sgombero dell’occupazione dello spazio sociale di Communia, nella proterva volontà di costruire piscine volanti sopra importanti reperti archeologici, di trasformare interi isolati, di rendere il quartiere la «capitale dei posti letto»
L’ex-Dogana diventa esemplare di come si voglia trasformare la città. Fa parte di un patrimonio di pezzi preziosi ceduto dallo Stato per fare cassa a prezzo irrisorio alla Cassa Depositi e Prestiti. Marino accetta che sia lei a decider cosa farne. Ed ecco arrivare la proposta: palazzine e un centro commerciale. Il protagonismo sociale dei cittadini respinge al mittente quel progetto che alla fine non si farà.
Marino non si arrende. Punta su un doppio evento: Roma città olimpica nel 2024 e il nuovo stadio della Roma. Inizia a intessere la narrazione del grande evento quale forcipe che tirerà fuori la nuova città dalla pancia della rendita attraverso il negoziare qualcosa (poco) in cambio del (tanto) che si intende concedere.
Non si accorge di Mafia Capitale e di come questo sistema si faccia nei fatti agente delle forme estrattive della finanza per garantire un nuovo e e continuo percorso di rendita che va spostandosi all’interno delle tante periferie della città, sociali e urbanistiche.
Non capisce che la stessa finanza che ora corteggia con i suoi grandi progetti (Olimpiadi, Stadio della Roma, La nuova città dei Mercati Generali, le aree centrali della via Colombo e quella della ex fiera, oltre a ricevere le offerte (sic) di Cassa Depositi e Prestiti) ha iniziato a portare i propri paradigmi estrattivi all’interno dell’abitare di tutti gli abitanti romani. Li abbraccia con un doppio debito. Quello pubblico che devono in quanto cittadini. Quello personale a cui ognuno è destinato a restare attaccato per sempre. Prima legandosi all’estinzione di un mutuo, poi nel cercare di resistere indebitandosi in una città che non si vuole far funzionare e riconoscere come tale.
La città decide che ce la può fare da sola. Esemplare è il caso del lago della ex-SNIA, il lago che combatte. Sono i cittadini a strappare quello che è ora uno straordinario invaso d’acqua naturalistico alla speculazione. A pretendere di farlo diventare un parco pubblico.
Intanto Roma scopre il proprio razzismo alla fermata di un autobus. È il settembre 2014 succede a Corcolle. Corcolle? Sono in molti a chiedersi dove sia un simile posto. Ma non è ignoranza geografica. È il risultato della scelta di fare di Roma una città diffusa servita ai signori della rendita. Il risultato: sono molte le periferie che si sono sovrapposte al corpo della città. Politicamente decise e realizzate, ma non urbanisticamente risolte. Per chi li abita anche se è asservito al debito contratto per avere quel tetto, quel tetto sembra l’ultima risorsa che pensa di avere. Si sente pronto a difenderla Ad iniziare dal non sopportare coloro, come è successo a Corcolle, che con la loro sola presenza pensano possano rappresentare un deprezzamento di quel loro bene.
Sulla divisione di chi abita questi spazi, sulla ghettizzazione di quegli spazi, sulla frammentazione urbana, immobiliarismo e finanza hanno costruito la propria rendita. Per continuare in questo modo hanno bisogno di aggiornare il modo di come narrare le periferie. Ad iniziare dall’appiccicargli addosso ogni problema che non si sa o si vuole risolvere per alimentare le divisioni tra loro e al loro interno. Segregandole, colpendole nell’ elementare diritto alla mobilità. Costruirle continuamente come radici urbane della crisi della città.
Marino non riesce a vedere che a tutto questo si oppone una nuova estesa geografia: quella degli spazi sociali occupati. Non riconosce il loro progetto che punta a realizzare forme di inclusione urbana e sociale per ridefinire la città. Un progetto che nasce da una considerazione precisa: il disastro attuale della città è lo specchio della diseguaglianza sociale.
Non capisce che Roma è oggi uno spazio metropolitano e che questi spazi sociali che lui vuole cancellare per mettere a reddito quei metri quadri con la delibera 140 /2015 sono in realtà altrettante costruzioni di parti del territorio, per cui ipotizzano forme di autogoverno e costruiscono un immaginario attraverso cui dare vita alle strutture sociali della vita quotidiana.
Marino punta a mettere le mani su quel poco che l’immobiliarismo finanziario lascia sul terreno. Le città costano e non si fanno con le elemosine, con i resti. Il sindaco cade stritolato nella guerra scatenata dai tanti, come lui elemosinieri, sul corpo della città.
Roma. Intervallo: Tronca un commissario che volle farsi re
Il commissario di governo Paolo Tronca, dal novembre 2015 al vertice del Campidoglio, trova ad attenderlo una campagna popolare che prende il nome di «Roma non si vende». Di fronte alle dispotiche richieste di adeguamento ai prezzi di mercato e alla pratica di sgombero portata avanti contro alcuni spazi sociali, la città si organizza. Decide Roma, questo il nome del coordinamento cittadino, assume come obiettivo praticabile quello di «passare dal minimo comune denominatore (le famose letterine con cui il comune richiedeva ad associazioni e a spazi sociali presunti saldi di affitto a seguito della delibera di Marino) al minimo comune multiplo (rigettare la delibera, difendere gli spazi)».
Il 19 marzo 2016 Tronca conosce di che cosa è fatta questa città. Una manifestazione di 20.000 persone attraversa Roma. Chi c’è? La città solidale che si stringe intorno le sue rappresentanze sociali, le sue lotte. Si arriva al Campidoglio, si occupa la piazza, per ribadire che non si vuole per la città un governo di polizia. Si da vita ad un’assemblea popolare.
Prende parola contro «il governo dei pochi, delle mafie e delle cricche» una moltitudine che rappresenta tutta questa ricchezza, con gli interventi di lavoratori delle municipalizzate, occupanti di case, inquilini delle case popolari, spazi sociali, maestre degli asili in lotta, comitati di quartiere.
Ma è ancora sul tema della casa che il commissario dimostra il proprio asservimento ai poteri forti e alla nascente feroce deriva che, in nome di combattere il cosiddetto degrado, non fa altro che cercare di rendere sistema le nascenti forme legate a crescenti episodi di razzismo e il moltiplicarsi di forme di ferocia sociale.
Lui odia la città. Lo fa attaccando la capacità che Roma ha di farsi luogo della cooperazione sociale a partire proprio dalle occupazioni.
La regione Lazio, per la prima volta parla di superamento dell’emergenza abitativa mettendo a disposizione una prima significativa cifra di 197 milioni di euro. Tronca si oppone imbevendo di veleno l’ultimo colpo di coda del suo dispotico comando. Blocca il piano. Vuole ridurre lo stock abitativo destinato a chi occupa e vuole iniziare non ricercando case, ma con gli sgomberi.
A lui si deve lo sgombero di Boabab che compie tra i suoi primi atti inaugurando una lunga scia di atti di ferocia verso rifugiati e richiedenti asilo.
Dimostra di avere per Roma un progetto preciso: stroncare i percorsi del protagonismo sociale che offre alla comunità un bene trascurato riconsegnandolo come individuo edilizio capace di rappresentarsi non solo come tetto, ma come realizzazione compiuta del diritto all’abitare e di accogliere chi chiede aiuto.
Roma. Atto terzo: Virginia Raggi prepara la città dell’esclusione
Per Roma la nuova sindaca Virginia Raggi ha una partenza sprint. La sua giunta sembra fare sul serio. È il 10 agosto del 2016 quando Paolo Berdini assessore all’urbanistica porta in votazione una delibera che aldilà della cubatura, ridotta rispetto alla precedente decisione di Marino per l’area dell’ex-Fiera di Roma sulla Colombo, dice chiaramente no alla trasformazione dell’urbanistica in moneta di scambio. Non si salvano i bilanci delle società decotte moltiplicando la possibilità di aumentare la cubatura.
La Sindaca, di suo, prende le distanze dalla potente associazione dei costruttori romani. Diserta la loro annuale assemblea. È uno sgarbo. Nulla in confronto a quando, nel settembre, aveva sganciato una vera propria bomba esprimendo il no della città a proseguire nell’avventura olimpica. Sembra l’inizio di una nuova era. Salta la scelta di replicare lo schema dell’Expo milanese: pensare ad un avvenimento al di là dell’evento stesso. Indifferentemente da quello che accadrà, al di fuori del disegno della città. In un’area da valorizzare e dopo rimettere nel mercato. Non un luogo, esistente o da realizzare legato ad un’ipotesi di sviluppo, ma quale “offerta” da liberare ora, da tenere latente per i futuri investitori, che sapranno cosa farci dopo.
Scrive DinamoPress: «Non è più la città con le proprie funzioni a costruire il territorio, ma è il mercato a trovare le proprie convenienze scegliendo tra le offerte e, in base a queste, a portare le proprie funzioni. Roma deve essere privata del proprio territorio. Come sta accadendo con la consegna alla Cassa Depositi e Prestiti del Patrimonio pubblico, come si vuole che continui».
Sembra essere messo in discussione il ruolo della città come advisor per chiunque in futuro voglia investire presentando un’offerta variegata di luoghi “predisposti” a realizzare qualsiasi cosa e soprattutto a permettergli di decidere che fare.
Non dura. La sindaca addomestica il progetto dello Stadio riducendo il costruito del 35% rispetto la prima versione. Così assicura ai proponenti un risparmio notevole legato alla forte riduzione del contributo economico straordinario dovuto in rapporto al peso delle opere pubbliche. Viene cancellato un ponte sul Tevere e si decide di usare l’altro, quello dei Congressi che graverà sulle finanze statali.
È l’inizio di una pesante inversione. Non solo urbanistica. Non cambia solo l’assessore. Si mette in cantiere la città dell’esclusione. Si sgombera il Rialto, lo studentato di Point Break, ci si accanisce contro il Corto Circuito, si soffoca l’Alexis. Si puntano le occupazioni abitative (via Quintavalle e via Curtatone) mentre si rinnovano, come a Piazza dei Navigatori, vecchie concessioni che si sarebbero dovute chiudere, mentre si affronta balbettando e non con la risolutezza dovuta la questione della truffa dei piani di zona.
La sindaca Raggi si appresta ad allestire la città dell’esclusione.
A via Curtatone a fine agosto fa le prove generali, quando a essere sgomberati dall’edificio che occupano da anni è una comunità di richiedenti asilo. Non ci deve essere posto di quei corpi e di quelle tante storie lì. Tutto deve essere allontanato. Fuori nel territorio della città metropolitana.
La sindaca sa come procedere, la solita indicazione: la strada. La storia dello sgombero di via Curtatone, che segna una delle pagine più nere dell’abitare romano, è destinata ora a continuare.
Scrive DinamoPress: «Alla fine del mese di ottobre dal Campidoglio esce un capitolato speciale di riferimento per, mediante procedura di gara negoziata aperta a cooperative sociali, affidatari dei servizi di accoglienza, organizzazioni umanitarie per sperimentare forme di accoglienza preferibilmente diffusa nel territorio cittadino e nell’area Metropolitana per nuclei familiari che a seguito di eventi contingenti ed urgenti, in ragione delle proprie condizioni di fragilità, sono nell’impossibilità di rintracciare soluzioni alloggiative autonome».
Una vera e propria imboscata alla città. La costruzione della città affidata al Dipartimento delle Politiche sociali, immagina moduli disseminati in aree sempre più marginali, ghetti per i poveri, costruzioni delle quali non è possibile neppure definire la tipologia.
Dov’è la discontinuità con quanto è avvenuto negli atti precedenti, con quanto raccontato dei precedenti sindaci?
Tre sindaci e un commissario. Cinque anni vissuti pericolosamente.