OPINIONI
Roma, il vero degrado è la mancanza di alloggi pubblici
Le istituzioni capitoline si richiamano al principio dell’inclusione sociale e del diritto alla casa, ma la realtà è che continuano le svendite di immobili a privati e spesso si dorme sul marciapiede all’ombra di edifici progettati da sapienti architetti.
L’elenco degli immobili occupati da senza tetto inseriti nella lista prioritaria degli sgomberi sottoscritta tra la Prefettura e il comune di Roma desta ogni volta impressione. Si tratta di centinaia di famiglie, migliaia di persone la cui unica colpa è di non avere il reddito sufficiente ad affittare un alloggio nel “libero mercato” drogato dalla speculazione immobiliare. Tra le ultime transazioni immobiliari avvenute in città, va segnalata la vendita da parte di Unipol Sai alla fondazione Gucci di un intero palazzo storico in via del Corso: mille e trecento mq sono stati venduti a 13 milioni. Acquistare in centro costa dieci mila euro al metro quadrato. Un alloggio modesto di quaranta mq fa 400 mila euro, tondi tondi. Gli affitti si adeguano a questa follia.
Nessuna persona onesta intellettualmente può dunque meravigliarsi se chi non ha reddito o vive di lavori precari ha cercato di risolvere un obiettivo fondamentale scritto a chiare lettere nella Costituzione repubblicana (art. 3) laddove si afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
Il degrado di Roma sta dunque nella mancanza di alloggi pubblici a basso reddito, sta nel mancato riconoscimento della dignità della persona a prescindere dal suo reddito. Eppure, nelle premesse alla lista degli sgomberi si dice testualmente che nelle occupazioni possono sussistere «circostanze segnalate dalle quali si evincano condotte idonee a sortire un impatto critico sullo svolgimento ordinato del servizio di raccolta dei rifiuti e sulle condizioni generali di decoro urbano». Gli estensori del documento, a iniziare dagli esponenti capitolini potrebbero per esempio fare una visita all’esterno della “Casa della città. Trasparenza e partecipazione”, nome impegnativo che richiama al concetto di inclusione sociale dove invece si dorme sul marciapiede al di sotto di un anfratto disegnato dalle mani di sapienti architetti.
Siamo a largo Giovanni da Verrazzano e ci vivono gli scarti che non hanno avuto neppure la forza di entrare nelle occupazioni romane. In quello stesso edificio hanno sede gli uffici dell’assessorato capitolino alla casa. Nessuno vede questi drammi quotidiani. Nessuno vede questo degrado inammissibile in una società civile.
Ma la denuncia non basta più. La capitale d’Italia non deve più essere la capitale delle occupazioni e dei residence ghetto. Deve tornare alla normalità. Roma non può vivere più nel degrado della mancanza di alloggi pubblici e l’elenco contenuto nel documento del tavolo di lavoro ci aiuta molto in questa direzione.
Prima categoria. Le proprietà pubbliche devono contribuire a risolvere il problema. Nell’elenco dei 29 immobili da liberare in via prioritaria uno è del comune di Roma, uno dell’Agenzia del Demanio, uno del Demanio militare, uno della Asl Rm E, due dell’Inps, uno del Cotral, uno di Enasarco e uno dell’Acea. In tutto nove immobili, 31% delle occupazioni. Si tratta, come noto, di enti che vivono dei finanziamenti pubblici. Questi immobili devono essere destinati con apposito accordo di programma a contribuire alla soluzione dell’emergenza abitativa. Per le necessarie ristrutturazioni ci sono i finanziamenti Pnnr.
Seconda categoria. Le proprietà degli istituti di credito hanno la concreta opportunità di sperimentare l’housing sociale. Come è noto, in Italia non esiste più il concetto di casa popolare. È stato sostituito dall’housing sociale, fortemente voluto dagli istituti di credito per innovare l’offerta abitativa. Tra le occupazioni in atto tre sono di proprietà di Investire SGR, uno di Unicredit, uno di Idea Fimit, tre di Mediocredito Italiano. 8 immobili in totale (27% del totale) da sottoporre a procedimento di individuazione di nuove forme di abitare in cui almeno il 50 % degli occupanti sia garantito. I finanziamenti ci sono nelle leggi sull’housing sociale.
Terza categoria. Come si vede, il 60% delle occupazioni può essere risolto con efficacia e lungimiranza senza sgomberi. Basta volerlo. Ora resta da analizzare il restante 40% di proprietà di singoli o di società. In questo caso un’ulteriore scrematura può essere effettuata ricordando che molte di quelle occupazioni hanno mantenuto in vita il bene immobiliare, salvandolo dalla vandalizzazioni e dal degrado.
Anche in questo caso si tratta di operare cum grano salis e verificare le possibilità di accordi che pongano fine alle tensioni sociali.
E infine, nei rari casi in cui ci sia la necessità della liberazione dell’immobile, ci sono le proprietà pubbliche abbandonate (caserme e servizi pubblici) a formare l’ammortizzatore sociale. Si opera così in ogni capitale europea. Si deve farlo anche a Roma mettendo fine al vergognoso degrado dei residence in affitto che costano alla collettività 28 milioni all’anno e finanziano l’allegro mondo della mano morta immobiliare.
Immagine di copertina di Costanza Fraia