approfondimenti
MONDO
Da Roma a Gaza: lo sport popolare è contro l’assedio
Carlotta Bartoloni, Giovanni Cozzupoli e Giulio Bonistalli sono tre sportivi e attivisti della palestra popolare del Quarticciolo e di quella intitolata a Valerio Verbano, al Tufello. Da Roma sono partiti alla volta di Ramallah e Gaza, all’interno del progetto «Boxe contro l’assedio». Ci sono rimasti 10 giorni, dal 16 al 27 gennaio scorso. Questo è il loro racconto corale, accompagnato dagli scatti di Daniele Napolitano e Valerio Nicolosi.
RAMALLAH
Giulio
«Nader è allenatore e proprietario della palestra di Ramallah dove siamo stati. È un ragazzo palestinese che ha studiato negli Stati Uniti e viene da una famiglia benestante. In palestra fa un discorso simile al nostro, sostiene gli allievi anche oltre lo sport, ad esempio dal punto di vista dello studio. Le entrate vanno sempre a finanziare trasferte o altre possibilità per gli atleti. Gli istruttori ricevono uno stipendio minimo. In quell’esperienza di Ramallah la pratica sportiva impatta sul sociale. Siamo stati un giorno, poi ci siamo fermati a cena con lui».
Gianni
«Mentre a Ramallah vivi l’occupazione, a Gaza vivi l’assedio. Nella West Bank hai possibilità di muoverti in determinate aeree. A Gaza le persone sono chiuse dentro. Sono in un carcere a cielo aperto. Entrare a Gaza è scoprire una dimensione che mai ti aspetteresti. È difficile da spiegare e ancor di più da vivere».
Carlotta
«Dal punto di vista sportivo ho avuto la possibilità di confrontarmi con delle ragazze soltanto fuori da Gaza. All’interno della Striscia erano organizzati due incontri con gruppi femminili ma non abbiamo avuto modo di realizzarli per difficoltà logistiche e organizzative. A Ramallah ho fatto sparring con Lisa, una ragazza che si allena nella palestra di Nader. È stato emozionante. Lei non aveva mai avuto la possibilità di fare questo tipo di allenamento in maniera corretta. Nella palestra si allenano poche ragazze e può confrontarsi solo con una di loro, che però è molto più piccola, oppure con i maschi. I ragazzi nei momenti in cui fai sparring con loro tendono a frenarsi, mentre combattere con altre ragazze ti permette di esprimere le tue potenzialità al meglio».
DENTRO E FUORI GAZA
Gianni
«C’è molta differenza. Prima di Erez, dove c’è un valico, si passa in una città che si chiama Aschelon. Non è bella, ma gli edifici sono curati. C’è vita e si nota un certo benessere. Gaza è in una situazione di assedio che riguarda non solo il transito di essere umani, ma tutto: dai generi di prima necessità ai materiali per l’edilizia. Soprattutto è sotto l’attacco a bassa intensità ma costante di Israele. Capitava di andare in giro per Gaza e sentire: “ah guarda, quello è un palazzo bombardato una settimana fa, questo un mese fa”. Noti che è una zona assediata. Lo stacco è importante e si vede soprattutto addosso alle persone. È uno stacco emotivo molto forte, ti rendi conto di essere entrato in uno dei luoghi più controllati al mondo. Percepisci la frustrazione, il peso, l’angoscia».
«L’ingresso a Gaza è determinato sempre e solo da Israele. I primi che ti devono concedere il visto sono loro. Poi c’è il permesso di Hamas, ma i controlli di Hamas sono soprattutto di intelligence: chi sei, cosa fai, etc. È difficile ti neghino di entrare. Israele invece fa delle verifiche molto più approfondite. Quando arrivi entri in questo specie di hangar. Sembra un piccolo aeroporto. Il primo controllo passaporti lo fai all’esterno e sotto tiro, a dieci metri hai un militare col fucile puntato. Accedi al primo cancello, poi hai un nastro all’interno del quale fai passare tutta la tua roba, tipo in aeroporto. Successivamente passi da un gabbiotto dove ti danno un foglio che certifica che puoi entrare. Attendi. Fai un altro passaggio in cui ti danno un foglio da riempire spiegando chi sei, cosa fai, perché sei lì. Sono domande abbastanza mirate. Dopo devi passare in mezzo a 4/5 tornelli che sono davvero inquietanti. Tra il primo e il secondo step ti ritrovi in un tunnel grigio, angosciante, asfissiante. Ti dà l’idea di un controllo totale, strutturato in modo da scoraggiarti. Quando pensi di aver finito tutto c’è la buffer zone, la zona cuscinetto all’interno della quale non si può entrare, non può starci nessuno. In questo lembo di asfalto transitano solo pochi taxi che ti portano dal check point di Israele a quello di Hamas. Lì fai un controllo passaporti molto più easy. Subito dopo rimane l’ultimo pezzo di strada. Poi sei dentro Gaza».
Giulio
«Per entrare a Gaza passi da un edificio che sembra l’hangar di un aeroporto. Poi, però, superi tutti quei controlli e hai ancora tornelli, muri, filo spinato. Dalla parte di Hamas c’è solo un container da cantiere. Noi eravamo il secondo turno del progetto. Il primo era stato fatto a settembre da Carlo Bentivegna e la palestra popolare di Palermo. Carlo è stato il primo pugile professionista a entrare nella Striscia. I ragazzi hanno grande interesse a imparare, ma soprattutto hanno una grande carica emotiva. Sono felici di incontrare persone che vengono da fuori, che non sono della Striscia e sono andati là per avere uno scambio con loro. C’è sempre questo impatto molto forte, le persone restano quasi a bocca aperta e ti guardano con gli occhi sgranati, come fossi un marziano. Superato il primo impatto iniziano i selfie insieme. Siamo stati in tutto in tre palestre. Nella Striscia ce ne sono anche altre dove non siamo riusciti ad andare. La possibilità di muoversi dipende dagli orari e dalle zone. Quella centrale è più a rischio bombardamenti o rapimenti dei salafiti. In alcune aree a una certa ora scatta il coprifuoco. Comunque quando sei là fai una vita normale. Non hai questa sensazione della guerra immediata. Anche se da un secondo all’altro può cambiare tutto. Un giorno mentre ci allenavamo da dentro la Striscia hanno sparato a una jeep israeliana ferendo un ufficiale. La risposta di Israele è stata cannoneggiare la postazione da cui pensavano fosse partito il colpo. Hanno fatto un morto e quattro feriti. Poi nella notte hanno bombardato la zona di Jahmali. Non eravamo vicinissimi ma ci sono state due ore di tensione in cui si temeva che ci potesse essere un’escalation. Il passaggio degli aerei faceva tremare la porta del posto dove stavamo noi. Il conflitto è diventato improvvisamente concreto».
Carlotta
«Uno magari pensa che Gaza sia solamente una zona di guerra in cui le persone vivono costantemente in trincea. Invece anche a Gaza esiste la bellezza. Dentro c’è vita. Nonostante l’assedio e le bombe le persone vanno avanti. Non c’è solo distruzione. Si va a scuola, all’università, si fa sport, si lavora. La gente è molto ospitale e piena di vita, anche se la frustrazione per la situazione politica e militare è tanta. In ogni caso, la voglia di lottare è incredibile».
ATTIVITÀ
Gianni
«Abbiamo incontrato persone dai 10 ai 45 anni, con un’età media tra 17 e 20. Il nostro arrivo ha rappresentato una boccata d’aria fresca. Subito prima era stata negata la possibilità a quattro atleti di partecipare a delle gare a Ramallah. Solo uno su cinque aveva avuto il permesso dagli israeliani di uscire dalla Striscia. Questo episodio aveva abbassato il morale. Perché c’è questa voglia, questa necessità di uscire fuori, vedere il mondo, conoscere un pugilato differente. Soprattutto tra gli adolescenti. L’attesa nei nostri confronti era alta. Mi ha colpito il modo in cui i ragazzini vivono gli svantaggi a livello sportivo. Attraverso lo sforzo fisico si sfogano, mettono da parte per un attimo tutto quello che accade intorno e bene non va».
Giulio
«È incredibile il lavoro che riescono a fare in quelle condizioni. Non hanno strumenti, molti ragazzi devono combattere senza guantoni. Uno degli sport prevalenti è il calcio, quindi spesso gli ambienti per il pugilato sono un po’ risicati, piccoli, con pochi sacchi, organizzati alla meno peggio con le gomme delle macchine o qualsiasi altra cosa. Mancano paradenti, caschetti e un discorso sulla sicurezza e la salute sportiva. Il problema più grosso è l’assenza di formazione. I tecnici sono gli atleti diventati più grandi che hanno smesso di fare pugilato. Ma non hanno mai affrontato un discorso su metodologia di allenamento, alimentazione, salute, controllo del rischio, tutta una serie di questioni che rispetto a uno sport come il pugilato sono molto importanti. Questo perchè non possono uscire, non gli arrivano informazioni da fuori e quindi non possono aggiornarsi. Possono solo apprendere via internet, ma senza una base di formazione difficilmente si riescono a mettere insieme le informazioni rimediate in quel modo. Siamo rimasti sorpresi che nonostante tutto ciò ci fossero anche ragazzi con un buon livello».
TRASFORMAZIONI
Gianni
«Come militante politico ero convinto di aver letto tanto e di aver capito quanto può arrivare in basso l’animo umano e quanto l’uomo può fare schifo contro un altro uomo. Però, ecco, vedere quella situazione specifica di cui tanto si parla e si scrive, vederla proprio da vicino è qualcosa che ti proietta in un altro mondo. È come aver superato un nuovo limite: si può fare ancora peggio del peggio che pensavo. Allo stesso tempo, però, noti che le persone che subiscono tutto questo, che vivono assediate, non mollano, non smettono di combattere, non ci pensano neanche. Sono un vulcano di energie, di iniziative. Non si fermano mai. Bastasse questo per vincere lo avrebbero già fatto».
Giulio
«Sono tornato a Roma con una strana sensazione corporea, con il cervello che continua a macinare pensieri su quello che ho visto e fatica a ritornare immediatamente nella normalità. Non riesco a smettere di pensare e ripensare a ciò che ho vissuto. Anche quando vado a dormire mi capita spesso di sognare Gaza. È una di quelle esperienze che ti segnano. È come vivere in un grande carcere: quello è a tutti gli effetti un carcere con il muro da una parte, i cecchini dall’altra, i droni sulla testa, senza via di fuga. Ormai neanche più dall’Egitto…».
Gianni
«… quella egiziana è l’ennesima vendetta che il popolo gazawi sta subendo. Fino a quando in Egitto c’era Morsi il valico di Rafa era aperto, passavano i materiali, entravano le medicine, si poteva avere accesso alle cure, era una valvola di sfogo. Morsi era un “Fratello musulmano” e Hamas la componente dei Fratelli musulmani dentro la Striscia. Con l’avvento di Al Sisi il valico di Rafa è stato chiuso completamente. Per i pochi che riescono a transitare c’è un inferno: gli egiziani rubano le cose, fanno angherie».
Carlotta
«Non so se esiste un aggettivo che può aiutarti a descrivere quello che vivi là dentro. Di sicuro capisci che l’uomo è folle e che quella follia fa fare cose tremende. Nonostante tutta questa pazzia vedi anche la forza di un popolo fantastico».
RESISTENZE
Giulio
«Diverse volte ci hanno detto che gli israeliani hanno paura, mentre i palestinesi vivono la quotidianità, i momenti di scontro, i bombardamenti, quasi senza timore. Pensate alle passeggiate del venerdì in cui sfidano i cecchini con fionde e sassi. Le persone restano mutilate, alcune muoiono. Nonostante questo continuano a farle. È un approccio alla vita molto diverso».
Gianni
«Un nostro coetaneo nato tra il 1985 e il 1990 e cresciuto a Gaza, nella migliore delle ipotesi, ha vissuto tre guerre, due intifade e una guerra civile. Tutte in prima persona. Sono esperienze che segnerebbero chiunque, lasciando cicatrici profondissime a livello psicologico. Forse quando ti tolgono la libertà, la terra, la possibilità di vivere tranquillo scatta qualcosa che ti fa dire “venderò cara la pelle”».
Carlotta
«Un episodio che mi ha colpito molto, soprattutto a livello emotivo, è stato il giorno in cui siamo usciti da Gaza. Un passaggio emotivamente significativo. Si sono condensate mille emozioni contrastanti e destabilizzanti. Siamo andati subito a Ramallah, dove abbiamo incontrato di nuovo Nader, nella sua palestra. Vedendomi spaesata, mi ha detto di non essere triste, di non stare là con la faccia appesa, di scrollarmi di dosso tutto quanto. Mi ha detto: “vedi, io rido, anche se ho visto mio fratello colpito da proiettili israeliani. Dobbiamo essere forti e combattere”».
CONTROLLI
Giulio
«Fuori dalla Striscia capitava di passare dai check point o nelle strade divise tra israeliani e palestinesi. Ad esempio per fare un tragitto di 50 metri gli israeliani fanno 50 metri, mentre i palestinesi ci mettono un’ora e mezzo perché devono seguire un tragitto a zig zag. Durante questi spostamenti vedi salire sugli autobus questi ragazzini israeliani, quasi bambini, costretti a tre anni di leva obbligatoria appena ne compiono 18. Israele è il paese con il più alto tasso di coscrizione al mondo. Fanno questi controlli folli che ci sono capitati un paio di volte. Una volta su un bus c’era un signore disabile in carrozzina, di quelle col joystick. Non riusciva a usare bene neanche le mani. I militari gli hanno chiesto di slacciarsi la giacca. Il signore era in difficoltà, non poteva muoversi. I ragazzi israeliani con un mitra supertecnologico in mano, vestiti da militari, che se la prendono con un signore in sedia a rotelle che non riesce a sbottonarsi la giacca e gli fanno pressione in tutti i modi: questo è Israele oggi. Alla fine hanno capito che l’uomo non avrebbe potuto farcela in nessun modo e se ne sono andati. Nel frattempo erano passati minuti lunghissimi con il signore terrorizzato».
«Un’altra volta eravamo su un bus vicino Betlemme. I militari hanno fatto scendere una madre e una figlia. La donna non poteva seguire la bambina, nonostante fosse molto piccola. Aveva al massimo una decina d’anni. La bambina è stata portata in una casetta, interrogata. Volevano sapere dov’era la sua borsa, che mi pare non avesse. La madre era più tranquilla, forse perchè abituata. La bambina dopo il controllo è tornata sul bus, con la faccia completamente spenta, terrorizzata. Appena ha rivisto la madre ha tirato fuori un sorriso a 32 denti. Questi controlli trasmettono molta tensione e un po’ di paura, non sai mai come potrebbero finire. È come se non esistesse una legge che prevede che il controllo deve essere fatto in un certo modo e tu puoi rischiare tot anni di carcere. Lo scopri solo alla fine quale sarà la tua sorte. E questo fa salire molto nervosismo anche a te che vieni da fuori. Vorresti fare qualcosa di fronte a questi soprusi, ma se provi a intervenire vieni subito bloccato. Devi restare fuori da qualsiasi relazione o contrattazione. Non puoi partecipare a queste situazioni».
MEMORIA
Gianni
«Mentre eravamo a Gaza si è celebrato il giorno della memoria. Ma io la memoria l’ho persa. Questo è anche l’aspetto un po’ più banale, dire che chi ha subito questo male poi stia facendo la stessa cosa verso qualcun altro. Però purtroppo è quello che accade. È esattamente quello che accade, anche se in maniera molto più diluita e nel tempo. Fa comunque orrore. Per certi aspetti la giornata della memoria ha un suo senso, un ragazzino nato nel 2000 è bene che sappia gli orrori che il nazismo ha creato. La Shoah è stato un orrore infinito che non va mai sminuito. Ma è assurdo che il popolo che ha subito una ferita così grande, adesso perpetri tutto questo odio verso qualcun altro».
«I palestinesi non possono passare in alcune strade riservate ai soli israeliani. Soprattutto nelle colonie. È pieno di muri ovunque, filo spinato, recinti elettrificati. È tutto molto angosciante. Ci sono ghetti ovunque, ognuno ha il suo ghetto: Gaza, il carcere, le colonie, dove però gli israeliani hanno libertà di movimento, controllo e potere».
Gulio
«Qualcuno ha detto che Gaza è il lager del 2019 perchè non puoi riproporre esattamente la stessa dinamica realizzata dal nazismo, ma effettivamente ci sono una serie di sistemi di controllo e di assedio che hanno qualcosa di simile. Vivere dentro la Striscia è come essere dentro a un carcere. Fuori esiste un sistema di apartheid, che prova anche a separare i palestinesi dagli altri palestinesi. Ti offrono una casa o delle condizioni di vita migliori o dei documenti che ti permettono di girare in zone anche israeliane a patto che tu rinunci a tutta una serie di cose».
FUTURO
Giulio
«Le tre palestre popolari, una di Palermo e due di Roma, insieme a un’associazione siciliana stanno continuando a lavorare insieme al progetto, per cercare di creare un ulteriore momento di scambio lì a Gaza. L’idea è portare del materiale, creare momenti formativi per i tecnici e per gli atleti. Non vogliamo che il progetto si fermi a due semplici date, ma ci interessa costruire una programmazione con cadenza periodica che abbia effetti concreti sul pugilato di Gaza. Oltre allo scambio umano e di esperienze, vorremmo portare lì una metodologia. L’obiettivo da cui nasce questo progetto è usare il pugilato per dire che quel pezzo di terra esiste e che quel popolo non è invisibile. C’è quindi una motivazione politica che va insieme all’idea di fare formazione affinché anche gli sportivi di Gaza possano camminare con le loro gambe, senza bisogno del supporto esterno. Magari questa possibilità a livello sportivo gli permetterà anche di uscire di Gaza e non rimanere lì dentro a vita…».
Gianni
«… spesso dicevano che per loro sarebbe un sogno poter partecipare alle Olimpiadi o a qualcunque altro torneo internazionale importante perché la presenza della bandiera palestinese all’interno di questi eventi sarebbe l’affermazione che il popolo palestinese esiste».
Carlotta
«Ci siamo poste l’obiettivo di continuare ad alimentare un percorso femminile anche all’interno di Gaza. Se ci sarà modo di ritornare organizzeremo degli incontri anche con dei gruppi femminili. In generale la questione femminile è un tema difficile e complesso. Abbiamo conosciuto tante ragazze che hanno studiato, si sono laureate, fanno sport e lavorano. Anche se tutto questo va visto da una prospettiva comunque diversa da quella che viviamo noi e da cui facciamo le nostre riflessioni personali. Sono temi difficili e non basta un viaggio di 10 giorni per avere un giudizio solido. Comunque ho avuto il piacere di conoscere ragazze estremamente interessanti e competenti in quello che fanno».
Foto di copertina di Daniele Napolitano e Valerio Nicolosi