ROMA
Roma Città Ostile
“Utopie necessarie” per contrastare una società classista e decorosa. Una riflessione a partire dalle panchine ‘anti-clochard’ installate da un comitato di cittadini con il benplacito dell’amministrazione municipale.
In questi ultimi giorni è balzata agli onori della cronaca la comparsa di alcune panchine anti-clochard in una piazzetta di via Giovanni da Procida, nel II Municipio di Roma, governato dal Partito democratico. Si tratta di una pratica rientrante nella cosiddetta “architettura ostile”, che identifica interventi di arredo urbano volti ad allontanare cittadini considerati indesiderati, o secondo la retorica dominante “indecorosi”, e a scoraggiare comportamenti sgraditi. Ad essere indesiderati e poco decorosi in questo caso sono i senzatetto, ad essere sgradito il fatto che dormissero su quelle panchine.
Quello di via Giovanni da Procida – una bella via residenziale nei pressi di piazza Bologna – non è un caso isolato nella Capitale, dove da tempo dissuasori per impedire di sdraiarsi sono stati impiantati in numerose panchine da Torpignattara a Prati.
Se quanto successo a via Giovanni da Procida non è caduto nel silenzio lo si deve soprattutto all’indignazione emersa sui social network, a partire da una denuncia di una residente poi rilanciata dalle pagine di attivisti, gruppi, associazioni e arrivata così sulle pagine dei giornali e nei servizi di alcuni telegiornali.
La stessa Presidente del II Municipio, Francesca Del Bello, è stata costretta a rendere conto dell’accaduto (vedi su Twitter questo thread di Baobab Experience) e ,dopo aver premesso che “restituire sicurezza e decoro agli spazi pubblici è un obbligo per chi governa”, ha puntualizzato che la gestione della piazza era stata affidata dal Municipio ad un gruppo di residenti, per occuparsi del verde e sostituire le panchine, senza aver però dato alcuna autorizzazione all’applicazione di dissuasori anti-clochard su quest’ultime.
I cittadini in questione sono dei condomini di un palazzo in via Giovanni da Procida 31, ma secondo la testimonianza di uno di loro (intervistato da Redattore Sociale) il progetto, presentato all’ufficio tecnico del Municipio e per conoscenza alla Presidente Del Bello, descriveva con precisione l’installazione di tali dissuasori e ha ricevuto immediatamente il nulla osta da parte dell’amministrazione. Le bugie (o le mezze verità) hanno le gambe corte: nonostante nelle ultime ore abbia cercato di negare le proprie responsabilità, Del Bello era ben a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, degli interventi che si sarebbero attuati ma soprattutto, preliminarmente, ha deciso di delegare la gestione di problematiche connesse ad uno spazio pubblico ad un gruppo di condomini della zona.
Proprio questo aspetto merita di essere indagato maggiormente.
Mentre le amministrazioni si ritirano dalla gestione delle città e dei territori, senza risorse e con poco coraggio politico, la gestione dello spazio urbano sembra essere sempre di più privatizzato, anche con l’attribuzione di nuove competenze a gruppi di cittadini, condomini, abitanti che sembrano guardare prima di tutto il loro interesse privatistico.
La creazione di comitati cittadini “per il decoro e la sicurezza” si sta diffondendo sempre più, tanto nella Capitale quanto nel resto d’Italia. Si tratta di gruppi che si prefiggono i fini più diversi: dalla cura del verde, alle problematiche delle buche e dell’immondizia, passando alla battaglia contro i venditori ambulanti, fino ad azioni di contrasto alla presenza di clochard, di insediamenti abusivi. Tutto gettato nel calderone informe del binomio decoro-degrado, che permette di poter agevolmente accostare l’intervento per la sistemazione di un’aiuola con la diversa azione di allontanamento di un senzatetto da un panchina, tramite l’installazione di appositi ‘dissuasori’.
Una partecipazione dei cittadini alla gestione della “cosa pubblica” completamente funzionale alla dilagante ideologia del “decoro”, tramite la quale si consente di condannare socialmente e punire a livello amministrativo comportamenti di persone che hanno come unica colpa quella di essere povere. L’allontanamento dei senzatetto, dei mendicanti, degli indigenti dai nostri quartieri, avviene sia con forme di architettura ostile, che con i Daspo urbani. D’altronde “la città decorosa è una città dove miseria e marginalità non si devono vedere”1.
E non è un caso che altre forme di “partecipazione” dei cittadini siano previste dalla stessa Legge Minniti/Orlando sulla “sicurezza urbana” che fa espresso riferimento al coinvolgimento di comitati di residenti e condomini per “conseguire una maggiore diffusione delle iniziative di sicurezza urbana nel territorio […] attraverso la predisposizione a spese dei privati di sistemi di sorveglianza tecnologicamente avanzati” (art.7) e di “reti di volontari per la tutela e la salvaguardia dell’arredo urbano” (art.5). Vere e proprie milizie del decoro urbano.
Quindi da un lato si inserisce la novità della videosorveglianza condominiale per la “sicurezza urbana”, con possibilità di detrazione dall’IMU e dalla TASI in favore dei condomini che predispongono tali misure; dall’altro si assoldano volontari per la difesa di un non meglio identificato “arredo urbano”. Proprio quest’ultima previsione desta non poche perplessità: se il comportamento dei senza tetto viene considerato come un nocumento per l’arredo urbano, ciò significa che, in nome del decoro, si lasciano intervenire gruppi di cittadini per prevenire tali fenomeni. Ma la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n.226/2010, con riferimento all’allora “decreto sicurezza” di Maroni, aveva evidenziato come associazioni di volontari non si possono occupare in un’ottica repressiva di questioni riguardanti il disagio e l’emarginazione sociale, essendo queste situazioni riconducibili alla sfera delle “politiche sociali”.
Ciò che maggiormente spaventa di queste forme di “partecipazione” dei cittadini è sicuramente la modalità di aggregazione escludente su cui si basano, non a caso la leva dell’attivismo è la tutela del decoro e il contrasto al degrado. Azioni che oltre criminalizzare gli ultimi, vorrebbero placare la percezione diffusa e distorta di perenne insicurezza, finendo invece per alimentarla e creando continue micro emergenze dove non ci sono.
Ci ritroviamo così a vivere in delle città in cui dal punto di vista normativo vi è la possibilità di applicare misure repressive a chi si trova in condizioni di povertà e dal punto di vista sociale si implementano le iniziative dei cittadini volte a tutelarsi dai presunti elementi di disturbo del decoro urbano. Insomma delle città disumane ed ostili, in balia di assetti predatori2 e in cui una “categoria speciale preposta all’ordine ne sanziona un’altra che è votata al disordine”3. Un “disordine” accuratamente costruito e mantenuto da quel gruppo politico dominante che esercita il proprio potere per espellere dalla società chi non ne è mai entrato a pieno titolo.
A pagare sulla propria pelle le conseguenze di tutto questo sono ovviamente i soggetti marginali che sembrano condannati ad un duplice supplizio: l’ essere, in un primo momento, gli “scarti” di un sistema incurante dei loro bisogni e il divenire successivamente l’oggetto di una persecuzione capillare, messa in atto non solo dagli organi di polizia ma anche da cittadini per nulla caritatevoli.
Anziché affrontare le fratture sociali attraverso i necessari strumenti di welfare si è deciso di adottare politiche volte alla criminalizzazione di chi vive situazioni di disagio attraverso Daspo, sanzioni amministrative e forme di architettura ostile. Anziché implementare i legami di solidarietà e cooperazione tra le persone, si è preferito fomentare la guerra tra poveri, “ribaltando la direzione della lotta di classe: non più il basso contro l’alto, ma il basso contro chi sta ancora più in basso”4.
Ogni Daspo ad un senzatetto, ogni sanzione amministrativa a un mendicante, ogni dissuasore posto su una panchina per evitare che un clochard trovi riparo, ogni ordinanza volta a impedire la distribuzione di cibo e bevande a persone in difficoltà, rappresenta una vittoria per chi punta ad una società classista ed escludente.
Per questo motivo tali provvedimenti devono essere contrastati con tutte le nostre forze, attraverso pratiche di disobbedienza quotidiana e un lavoro meticoloso da fare nelle città per ribaltare un’ideologia securitaria ed un’idolatria del decoro fin troppo radicate.
Quindi smontiamo una a una ogni forma di architettura ostile; contrapponiamo al decoro il rispetto della dignità di ogni persona; sostituiamo alla retorica sulla “sicurezza urbana” la necessità di una “sicurezza sociale” ossia la garanzia dei diritti fondamentali; riappropriamoci dei nostri spazi pubblici rendendoli luoghi accoglienti ed inclusivi; moltiplichiamo le pratiche di mutualismo. Nel fare questo “è necessario riconoscere ai più deboli la loro qualità di soggetti del diritto. Si parla di poveri mentre si dovrebbe parlare di vittime della lotta di classe […] e la loro situazione non può essere affrontata con la logica del dono ma bisogna riscoprire gli strumenti dell’organizzazione politica e dell’emancipazione degli oppressi”5.
“Utopie necessarie” che abbiamo il dovere di provare a realizzare.
*Attivista dell’associazione AlterEgo – Fabbrica dei diritti
1 Tamar Pitch, “Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza”, Laterza 2013.
2 Termine ripreso dalla definizione di “assetti predatori” dell’ economista e politologo italiano Maffeo Pantaleoni, in “Considerazioni sulla proprietà in un sistema di prezzi politici”(1911). Pantaleoni, in relazioni all’insieme delle condizioni che caratterizzano i rapporti economici tra gli individui (chiamati “assetti”), distingue all’ interno degli assetti coercitivi (tipici dei rapporti tra lo Stato e gli individui), gli assetti tutori, parassitari e predatori. Negli “assetti predatori” la classe politica dominante esercita il proprio potere per espellere dalla società i più deboli.
3 Michel Foucault, “Sorvegliare e punire”, Einaudi, Torino 1976, pag.304.
4 Luigi Ferrajoli, “Contro le disuguaglianze ci vuole un reddito universale”, intervista di Roberto Ciccarelli su “Il Manifesto”, 14/07/2017
5 Stefano Rodotà, “Solidarietà.Un’utopia necessaria”, Laterza 2014.