approfondimenti
ROMA
Roma, città eccedente. Intervista a Walter Tocci
«È in atto un passaggio dal momento dello sdegno a quello dell’indignazione». La redazione di DINAMOpress ha incontrato l’ex-vicesindaco Walter Tocci, autore di “Roma come se” (Donzelli, 2020) per parlare del futuro della capitale
Negli anni Cinquanta, la sinistra romana (nonostante il dissenso più o meno esplicito delle segreterie nazionali) declina creativamente i riferimenti teorici marxisti, adattandoli alla situazione concreta di una città in mano alla rendita fondiaria, individuando nel soggetto proletario delle borgate l’equivalente dell’operaio industriale nelle città del nord. Un investimento politico, sociale e culturale (spesso di vera e propria costruzione mitopoietica) che definisce la scena e gli attori dello scontro di classe fino alla soglia degli anni Ottanta, quando le trasformazioni urbane, economiche e demografiche cambiano definitivamente il campo di gioco.
Quelle stesse trasformazioni che oggi sembrano confermare l’egemonia della rendita (non solo immobiliare ma anche finanziaria) come un blocco di potere al centro del governo della città. Oggi le vecchie rendite (Stato, speculazione edilizia, patrimonio simbolico) si sono esaurite e purtroppo anche la capacità contestativa della sinistra si è ridotta. Quali sono, oggi, i soggetti (possibili) della trasformazione nella città-regione post coloniale e se (e come) definiscono un nuovo statuto della partecipazione politica?
Avete ragione, il movimento popolare delle borgate era ispirato da riferimenti marxisti applicati creativamente alla questione urbana. Però si potrebbe utilizzare anche la chiave interpretativa a voi cara della potentia spinoziana, come groviglio di bisogni e aspettative che resiste al potere e genera nuove passioni. Ho avuto il privilegio di conoscere quella stagione di lotte, seppure nella fase declinante degli anni Settanta, e conservo un ricordo vivissimo di quella energia politica che si innalzava sopra la miseria delle borgate, di quella emancipazione che immaginava il futuro pur nell’indigenza quotidiana, di quei diritti conquistati camminando nel fango e nella polvere. Era un movimento che spostava le montagne: a Roma non c’è mai stata, né prima né dopo, una simile potenza di trasformazione.
È scaturita dall’incontro tra la grande politica del breve Novecento e l’eccedenza dell’umanità romana di più lunga durata. L’eccedenza è un’energia che trabocca qualsiasi contenitore normativo, è l’eccezione che cerca un’adesione immediata alla vita, è una manifestazione per eccesso del belliano «volgo spropositato». Non va idealizzata, è l’humus della solidarietà ma anche dell’appropriazione, della generatività ma anche della dissipazione. Che gli esiti opposti appartengano allo stesso ceppo antropologico riescono a spiegarlo solo il cinema e la letteratura, valorizzando la spiccata narratività del paesaggio umano e fisico di Roma.
(commons.wikimedia.org)
Da quasi mezzo secolo, però, con il venir meno della grande politica questa eccedenza ha perso potere e si è dispersa, si è frantumata. È diventata porosa, e di conseguenza assorbe come una spugna le tendenze dominanti, ma nel contempo dai suoi pori risale lo scontento che pervade il discorso pubblico e plebeizza perfino gli strati borghesi, come dimostra il successo del neoromanesco nei media e nel marketing.
Nella mancanza del lavoro e dei suoi diritti si affiancano senza alcuna mediazione sia il risentimento sia la subordinazione, cova l’esasperazione verso l’establishment, ma non si accende il conflitto sociale. La fine dell’altrove temporale dell’emancipazione ripiega nella ricerca di un altrove spaziale, sia in positivo nei luoghi delle creatività sociale sia in negativo nelle ossessive recinzioni securitarie. La mancanza di rappresentanza politica è surrogata dall’immedesimazione nelle “vite degli altri” proposte dalla fiction mediatica e consumistica, prima i personaggi dello sport, dello spettacolo, del reality e oggi anche i leader politici. Tra questi la gente apprezza chi la spara più grossa, perché ha la sensazione che finalmente qualcuno è in grado di gridare al suo posto.
Sono almeno quarant’anni – da quando è finito il movimento delle borgate – che l’eccedenza popolare è alla ricerca disperata di una rappresentanza politica. Tutte le nuove tendenze sono state percepite prima dalla periferia e solo più tardi dai quartieri borghesi: il potere sbardelliano che liberò gli istinti proprietari degli ex abusivi, il riformismo accattivante della sinistra, la destra sociale, il grillismo, il leghismo. Le infatuazioni sono sempre più brevi, vengono rapidamente surclassate dalle successive. Alle ultime è stata affibbiata l’etichetta di populismo, ma sono solo surroghe dell’assenza di popolo. Anzi, sono una sterilizzazione politica dei conflitti sociali, che vengono sublimati nella lotta alla Casta e allo Straniero.
Da sinistra, invece, non vengono neppure le surroghe, ma solo il refrain “torniamo in periferia”, per lo più declamato da chi non c’è mai stato. Tutto ciò però mostra anche una possibilità. L’eccedenza di umanità non è domata, è ancora in grado di sviluppare una potentia di trasformazione della città. Riconoscere e mobilitare questa energia popolare è l’unica via per la rinascita della politica di sinistra.
Tu scrivi: «Chissà se il mormorio sociale si trasformerà in un nuovo discorso pubblico: raccontare Roma come se potesse ancora stupire se stessa e il mondo. Se vogliamo essere realisti, oggi non si può fare di più che immaginarlo». Il ricorso all’utopia che segna questo libro è speranza o non rassegnata disperazione?
La speranza, quando è autentico sogno di una cosa, è connessa alla disperazione. Ernst Bloch se ne intendeva dell’utopia e la fondava sulla fame, sul disperato bisogno del pane della vita. Con le debite proporzioni, mi pare di scorgere in città una tendenza a scacciare la disperazione. Se è vero che essa non produce ancora un movimento, lascia però affiorare alcune tracce. Dovremmo lavorare per prolungarle, ampliarle e connetterle, fino a indicare un percorso.
In una delle prime opere blochiane, le Tracce (Spuren, ed. 1930) presentano la stessa forma della speranza (Hoffnung): in quanto «occasioni insufficienti di pensiero» e di azione mettono in luce che «qualcosa manca nel presente».
Le possiamo trovare nel formicolio delle esperienze sociali, non solo per un nostro interesse ideologico verso ciò che viene dal basso, ma perché esse sono più protese al futuro, proprio mentre le classi dirigenti rimangono prigioniere del passato. Da un lato la consapevolezza della sfida antropologica che viene dal mondo migrante e dall’altro l’ossessiva ripetizione delle emergenze sbarchi; la creazione di nuove economie civili e i vani tentativi di ripristinare le vecchie rendite; l’invenzione del nuovo mutualismo sociale e l’incapacità di gestire perfino i residui del vecchio Welfare.
Tutto ciò negli anni passati era maturato nelle avanguardie sociali, ma durante la pandemia ha trovato una risonanza nel sentire diffuso della gente. Il piccolo virus è riuscito a svellere l’ideologia dell’individualismo proprietario degli ultimi quaranta anni. È in atto un rischiaramento a livello popolare, le narrazioni dominanti hanno perduto l’innocenza, si riscopre la necessità di sortire insieme dalle difficoltà della vita, nella tempesta globale si cerca la zattera dei beni comuni, a cominciare dal servizio sanitario pubblico e territoriale. Non durerà molto: se questo sentimento solidale non troverà una rappresentazione politica potrà anche capovolgersi in nuove forme di egoismo sociale.
(Antonello Sotgia)
Le tracce si vedono anche nella dimensione intellettuale. C’è un fiorire di studi sulla città, soprattutto di giovani ricercatori, spesso precari, con una marcata vocazione sociale. In alcuni casi le ricerche escono dall’ambito accademico e influenzano il discorso pubblico, basta pensare al successo delle Mappe della Disuguaglianza di Lelo, Monni, Tomassi. Nei contenuti c’è stato negli ultimi anni uno scollinamento. Vengono meno i pamphlet sul disastro della città. Gli autori e i lettori si sono stancati di ritornare sempre sui soliti guai. Si era raggiunto l’apice nel 2018 con la riedizione laterziana dell’invettiva Contro Roma pubblicata da Moravia e altri letterati nel 1974.
Invece, i saggi pubblicati negli ultimi anni si interrogano sul futuro della città, pur evitando ingenue aspettative che sarebbero incongrue a Roma, dove perfino il cinema di fantascienza ha rischiato il grottesco, come dimostra Raimo in Roma non è eterna. Il compito di esaltare la sofferenza è passato dalla saggistica alla narrativa, che sempre più lo assolve nel senso dell’irredimibile, come La città dei vivi di Nicola Lagioia.
È in atto, a mio avviso, un passaggio dal momento dello sdegno a quello dell’indignazione. Sembrano simili, ma sono sentimenti molto diversi. Il primo è accecato dal disprezzo del suo oggetto, non ne vede le tensioni interne e neppure le possibili dinamiche, e di conseguenza rimane attaccato al presente. Al contrario, l’indignazione vede le differenze, prende parte nei conflitti e immagina le alternative; per esempio la campagna di Cederna contro i Vandali in casa riuscì a salvare l’Appia antica; il convegno su I Mali di Roma del 1974 schierò il mondo cattolico a favore del movimento di emancipazione delle borgate.
Al di là del giudizio di valore e degli insuccessi pratici bisognerebbe riconoscere al grillismo la dignità di una potente rappresentazione politica, altrimenti non si spiegherebbero i consensi oltre il 60%, superiori a quelli di ogni altro fenomeno politico romano. È stata la massima rappresentazione dello sdegno. La sua vittoria non poteva far altro che instaurare la dittatura del presente. Nei primi anni dell’amministrazione era inibito qualsiasi ragionamento sul futuro della città. E persino i suoi oppositori si sono adeguati scegliendo le buche come principale argomento polemico. È prevalsa l’idea che la crisi di Roma fosse tanto grave da rendere prioritari solo i provvedimenti urgenti e minimali.
Proprio questo approccio ha aggravato tutti i problemi. Potrei dimostrare, anche tecnicamente, che il collasso dell’Atac e dell’Ama è derivato dal rifiuto di pianificare a medio termine i trasporti e il riciclo e lo smaltimento dei rifiuti. In mancanza di scelte strategiche, i provvedimenti contraddittori hanno ingarbugliato la gestione, fino allo sfinimento dei servizi.
Con la retorica del fare le piccole cose vengono a mancare la lucidità e la tensione per realizzare sia le grandi sia le piccole cose. Al contrario, solo una visione progettuale, anche se non sarà realizzata in toto e anzi verrà modificata in corso d’opera, fornisce il quadro di coerenze necessario per le scelte a breve termine. Se non stabiliamo una meta non siamo in grado neppure di capire dove fare il primo passo.
Quando non è ingenuo, il realismo è sempre frutto di un’intenzione, anche senza scomodare Husserl. Quindi, vi ringrazio della citazione del brano che dice: «Se vogliamo essere realisti, oggi non si può fare di più che immaginare» il futuro. Però, per me è decisiva la frase successiva: «Neppure il fare di meno sarebbe prova di autentico realismo».
(Pasquale Liguori)
Le grandi trasformazioni urbane richiedono capacità di progetto, di costruzione di altri immaginari e strumenti nuovi per amministrare i territori. Nel libro, per realizzare quanto descrivi dettagliatamente, si immagina una trasformazione totale delle istituzioni attraverso la «creazione di una nuova Regione della capitale che unifichi tutti i poteri legislativi, amministrativi e rappresentativi», lasciando ai Comuni, fra i quali ci sarebbero anche gli attuali Municipi, l’amministrazione della vita quotidiana. Attualmente la pianificazione del territorio è demandata ai piani regolatori comunali. Quali nuovi strumenti sono ipotizzabili per disegnare la città che garantiscano la cooperazione e partecipazione dei cittadini alle decisioni che riguardano le loro vite e siano in grado di evitare la competizione e i conflitti d’interesse, assicurando uno sviluppo omogeneo ed equilibrato dell’intera regione? Come si può riportare l’urbanistica a essere la disciplina capace di rappresentare l’interesse pubblico, ribaltando quella che sembra essere diventata la regola unica del pianificare: rendere tutta la città disponibile alla rendita?
Si presenta un’occasione storica. Con l’esplosione della bolla nel 2008 si è sfiancata la belva immobiliare. Nel lungo Novecento ha devastato la campagna romana, ha consumato brandelli di territorio, realizzando uno dei più estesi sprawl europei, ma nell’ultimo decennio ha perso l’aggressività, a causa del crollo dei prezzi delle costruzioni soprattutto in periferia. E quindi potrebbe essere addomesticata come un animale da soma adatto a trainare il carro dei beni comuni. Si dovrebbe devolvere gran parte della valorizzazione immobiliare a favore degli investimenti pubblici, generalizzando una regola già prevista nel piano regolatore per il caso particolare di variante urbanistica.
Si dovrebbe reinvestire nei beni comuni almeno il 66% della rendita determinata dalle trasformazioni, invece del misero 6-7% ottenuto nei grandi insediamenti degli anni Novanta, come Bufalotta e Ponte di Nona. La crescita del valore della città andrebbe a favore dei cittadini, invece di essere estratta dall’idrovora finanziaria globalizzata.
Se si perde l’occasione di domarla, la bestia potrebbe tornare aggressiva quando riprenderà il ciclo internazionale. Non è solo una questione di riparto dei valori immobiliari, bisogna potenziare la capacità dei cittadini di influire sulle trasformazioni dell’habitat. A tale obiettivo andrebbe mirata la riforma istituzionale. A me pare necessario eliminare l’attuale Comune e trasferire i suoi poteri e le sue risorse in alto verso la Città Metropolitana – e poi la Regione Capitale – per realizzare il governo strategico dell’area vasta, e in basso per trasformare gli attuali Municipi in Comuni, come nuove istituzioni di prossimità.
In questo momento nella Città Metropolitana gli uffici tecnici hanno avviato, con l’ausilio delle università e nella disattenzione del ceto politico, l’elaborazione del piano strategico seguendo un approccio mai visto a Roma, ma diffuso a livello internazionale. Non un piano astratto e normativo, ma un insieme di politiche che esaltano processi già in atto nell’innovazione sociale: agricoltura periurbana, sviluppo locale nelle periferie, piattaforme collaborative, cambiamenti climatici e officine municipali.
Quando era assessore Giovanni Caudo svolse una lunga campagna di consultazione nei Municipi che avrebbe portato a ripensare dai quartieri il piano regolatore, se la consiliatura non fosse stata bruscamente interrotta dalla defenestrazione del sindaco a opera del suo partito.
(commons.wikimedia.org)
Sono solo due piccoli esempi di come dovrebbe cambiare la politica urbanistica. Ma per domare la bestia occorre di più, non basta neppure l’istituzione dei Comuni, bisogna arricchire la democrazia urbana con nuove istituzioni di quartiere, membrane generative tra governo e partecipazione, luoghi anfibi tra il formale e l’informale.
Si possono fare alcuni esempi: le scuole aperte giorno e sera, come centri civici dell’apprendimento sociale della trasformazione urbana; i mercati rionali come nodi del ciclo vitale di alimentazione dalla campagna e di riconversione ecologica del sistema metropolitano; le officine municipali come luoghi di socializzazione dello smart-working, di ricomposizione dei lavori precari e di attivazione di lavori di qualità nei servizi urbani, incrociando anche le esperienze di nuovo sindacalismo, dalle vostre Clap al sindacato di strada promesso da Landini.
A proposito del realismo, questa urbanistica dal basso è oggi più vitale di quella della classe dirigente. È stato stimato che giacciono nei cassetti comunali circa 600 strumenti urbanistici sedicenti “attuattivi” (piani di recupero, zone 0 e toponimi, progetti di rigenerazione, Print, Prusst ecc.), senza aprire neppure un cantiere, e meno male bisogna dire per alcuni casi. È esaurito il vecchio modello basato sulla proliferazione normativa e l’alimentazione della rendita.
Negli stessi anni però grandi quartieri popolari (Ostiense, Pigneto, Torpignattara, Centocelle, Tufello ecc.) sono stati trasformati attraverso processi osmotici e informali dagli stili di vita dei giovani, da produzioni culturali autogestite, da nuove forme di mutualismo. Certo, anche con effetti negativi, come la gentrification che espelle i residenti. Ma se tali processi fossero sostenuti da nuove politiche pubbliche, si potrebbe guidare una trasformazione più inclusiva e di alta qualità urbana.
Durante la presentazione del sito “Roma Ricerca Roma” hai ricordato l’esperienza politica di Renato Nicolini e la sua capacità di connettere le avanguardie che venivano dalla stagione degli anni Settanta con un nuovo sentimento popolare, generando così un nuovo immaginario urbano. Oggi a Roma esistono una grande quantità di collettivi di studio e ricerca sulla città, così come molte esperienze di sperimentazione culturale o di autorganizzazione mutualistica, spesso nei territori più periferici. In che modo a tuo parere, questo insieme variegato e disconnesso di realtà può contribuire a un’immaginazione differente della città e a un nuovo statuto della partecipazione politica?
Sì, negli ultimi tempi mi capita spesso di ricordare Renato, con sentimento e ragione. Mi incuriosisce anche la rielaborazione della sua opera da parte di tanti giovani che non lo hanno conosciuto, e forse proprio per questo lo comprenderanno meglio di noi.
Altro che effimero, è stato uno dei più grandi politici della Roma del secondo Novecento; ha aperto un sentiero nuovo, purtroppo interrotto, nel rapporto tra politica e cultura. Alla fine degli anni Settanta era ormai esaurito il vecchio modello “Intellettuali e Popolo”, cioè l’alleanza tra il movimento di emancipazione delle borgate e le rivoluzioni dei saperi della sociologia, dell’urbanistica, della medicina, della pedagogia, dell’arte contemporanea, del cinema e della letteratura. Nicolini capisce che non esistono più quegli “intellettuali” e quel “popolo” e inventa una nuova relazione tra le avanguardie culturali di quegli anni e l’eccedenza dell’umanità romana. Si crea un nuovo riconoscimento dei cittadini tra loro e verso la città.
Sotto le volte della basilica di Massenzio si ritrova, forse per l’ultima volta, il popolo romano, non più quello del movimento di emancipazione, ma quello della nuova eterogeneità sociale che proprio in quegli anni si dispiega nei processi produttivi e nella vita metropolitana, e che in seguito non sarà più ricomposta da nessuna politica. Da quel breve riconoscimento scaturisce un nuovo immaginario ludico inteso come diritto alla città, che poi si diffonde in Italia e incontra le nuove tendenze della cultura europea, in particolare francese: La condizione postmoderna di Lyotard esce nel 1979, uno degli anni più belli dell’Estate Romana.
Purtroppo il Pci non comprese a pieno la sua invenzione – immaginate se Nicolini fosse stato eletto sindaco dopo Petroselli, come alcuni proposero nelle segrete stanze – e anzi ne frenò lo sviluppo, rimanendo vincolato all’esangue modello nazional-popolare. Quel ritardo ha lasciato in eredità alla sinistra romana l’incomprensione dei linguaggi giovanili e alla lunga l’esaurimento del rapporto fecondo tra politica e cultura, sostituito nei momenti migliori da mere “politiche culturali”.
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Il sentiero interrotto di Nicolini, però, oggi riappare nella foresta urbana ed è percorso da nuovi viandanti politici e culturali. Guardo con curiosità all’alleanza che si va consolidando tra ricercatori sociali e attivisti urbani. In tutte le esperienze di base che avete richiamato c’è un intreccio tra condivisioni di saperi e generatività sociale. Non è più solo la vecchia partecipazione rivendicativa, ma siamo di fronte a un’inedita elaborazione di cultura urbana.
Si potrebbe tentare anche un’analisi sociologica della discontinuità col passato. I vecchi intellettuali vicini al Pci – professori, urbanisti, sociologi, cineasti, letterati – vivevano nei quartieri borghesi ed erano spinti dall’ideologia verso la periferia. Al contrario, oggi i protagonisti sono lavoratori intellettuali precari che, proprio per i bassi redditi, vivono in periferia e mettono i loro saperi a disposizione dell’azione collettiva. Non per un’ideologia esogena ma per una ricerca endogena alla vita urbana.
Ne scaturisce una nuova relazione tra politica e cultura, certo più debole e frammentata di quella precedente, ma anche più autentica e incontenibile. Avete ragione, emergono esperienze che preludono a un nuovo statuto della partecipazione politica. Mi chiedete in che modo possano crescere, ma non so dare una risposta esaustiva.
Negli ultimi tempi, esse hanno camminato contro vento a causa del malgoverno comunale, basti pensare alle continue minacce di sgomberi e di canoni esorbitanti. Le difficoltà pratiche le hanno spesso costrette sulla difensiva, tuttavia mi pare sia cresciuta anche la voglia di fare forza comune per incidere sul discorso pubblico e sulle scelte amministrative. La coalizione per il regolamento dei beni comuni, al di là del giudizio sullo strumento, ha proposto una prima rappresentazione di un’altra città. La piattaforma programmatica elaborata dal Movimento POP è forse il miglior contributo al dibattito elettorale. E anche noi come Associazione Roma Ricerca Roma cerchiamo di connettere gli studi sulla città con le pratiche sociali.
Nel complesso però stiamo parlando di avanguardie culturali che ancora non hanno trovato un’intensa relazione con l’eccedenza dell’umanità romana, come riuscì invece nel dopoguerra all’intellettualità dell’emancipazione e alla fine dei Trenta Gloriosi all’immaginario nicoliniano.
Oggi è molto più difficile ma, se in forme inedite le avanguardie contemporanee incontreranno l’energia popolare, cambierà il discorso pubblico su Roma.