MONDO
Rojava, l’invasione di Afrin raccontata dalla copresidente del cantone
Hevi Mistefa, copresidente del cantone di Afrin, racconta l’invasione della città e quello che è accaduto dopo.
Sono sette anni che la guerra in Siria continua imperterrita. Si credeva che con la fine di Daesh e dello Stato Islamico anche il conflitto si sarebbe interrotto, ma pare che gli interessi delle potenze regionali ed internazionali abbiano avuto la meglio.
Le alleanze e le strategie progrediscono, si creano e si dissolvono determinando repentini cambi di piano. Le geometrie, sempre più variabili e meno prevedibili, si abbattono sui civili che, inermi, continuano a subire abusi, violenze, brutalità e torture.
In un quadro in continuo mutamento, l’unica zona che era riuscita a rimanere avulsa dalla guerra era il cantone di Afrin, area nel nord ovest del Paese, facente parte dell’attuale Federazione della Siria Democratica, basata sul paradigma del confederalismo democratico.
Il 20 gennaio 2018, le forze dell’esercito turco hanno invaso questa regione: un attacco che viola qualunque tipo di convenzione internazionale, trasgredendo le norme del diritto internazionale umanitario.
Nel nostro viaggio nelle terre del Rojava, abbiamo incontrato la copresidente del cantone di Afrin, Hevi Mistefa.
«Grazie per essere qui – ci dice – è importante dare una voce alla popolazione di Afrin. Una voce da diffondere ovunque nel mondo per raccontare gli orrori che sta compiendo Erdogan. Prima dell’invasione turca e di quella islamista, Afrin era l’unica zona in Siria che non era mai stata colpita dai sette anni di conflitto, preservando delle relazioni stabili con la Turchia lungo il confine.
Il 20 gennaio 2018 l’esercito turco e le forze islamiste dell’FSA (Esercito Libero Siriano) hanno attaccato il cantone di Afrin. La resistenza delle FDS (Forze Democratiche Siriane) ha fatto sì che nella prima settimana gli invasori non siano riusciti ad avanzare neanche di un metro».
Continua: «Per questo, Erdogan ha cambiato strategia: inizialmente ha attaccato i civili nei villaggi, provocando un esodo di centinaia di persone verso la città. Successivamente, dopo averla circondata, ha stretto Afrin in una morsa: ha tagliato l’acqua e l’energia elettrica, ha bombardato scuole, ospedali, case e siti archeologici. L’obiettivo era chiaro: cacciare i civili dalla città.
In quelle settimane moltissime persone hanno perso la vita sotto i bombardamenti aerei, in particolare donne e bambini. Voglio ricordare in particolare 2 famiglie intere a Mabata e Gilbre. Per evitare un massacro di civili sotto i bombardamenti delle forze aeree turche abbiamo deciso di far evacuare la città. Ora siamo costretti a vedere il saccheggio delle nostre case da parte delle bande islamiche armate da Erdogan.Ma la nostra resistenza continua anche nei campi profughi di Shehbaa dove hanno trovato rifugio più di 100mila sfollati da Afrin (177mila in totale secondo fonti della Mezzaluna Rossa Kurda). Molti bambini e molte donne sono morti durante la marcia durata 3 giorni per percorrere i 20km che separano Afrin da Shehbaa. Nessuna organizzazione internazionale è intervenuta per aiutarci, lasciando morire gente disidratata a causa della mancanza di beni essenziali come acqua e di latte per i bambini.
Shehbaa in passato era controllata da DAESH e negli anni della guerra ha subito danni strutturali pesantissimi che ora rendono ancora più difficile la nostra vita lì: dalle centrali elettriche, agli ospedali, alle strade tutto è stato distrutto. Come se non bastasse, nella loro brutalità, Daesh ha lasciato centinaia di mine nascoste e diverse persone stanno perdendo la vita proprio a causa di ciò. In questa situazione il 16 marzo decine di migliaia di persone sono arrivate a Shehbaa. L’amministrazione di Afrin ha cercato come meglio poteva di organizzare due campi per accogliere gli sfollati: tra il primo a Berwadan, e il secondo a Selvdery, sono circa 1300 le famiglie ospitate.
Un piccolo ma importante risultato che siamo riusciti a realizzare è una clinica dove le donne possono partorire sotto controllo medico.
Comunque, la situazione resta drammatica e i pochi presidi medici non riescono a rispondere a tutti i feriti e malati. Non ci sono medicine e chi soffre di malattie croniche non può essere curato. Si sono riscontrati diversi casi di tubercolosi e non abbiamo nulla per tenerla sotto controllo. L’unico modo per far pervenire il materiale sanitario nella zona di Shehbaa è attraversando la zona controllata del regime di Assad, che però permette raramente il transito».
Sembra di capire che a Shehbaa si stia sviluppando una vera e propria forma di resistenza. Ci può raccontare qualcosa a riguardo?
«Abbiamo organizzato la nostra presenza, attraverso le nostre unità militari ed altresì l’attività politica e diplomatica. Le persone si sono organizzate e si sono riunite per stare tutte assieme. Vogliono tornare ad Afrin e sono molto determinate a farlo. Continuano a ripetere, ogni giorno, che sono pronte a rimanere a Shebaa anche per un lungo periodo, ma il loro desiderio è rientrare nelle proprie case. La Russia ha iniziato a portare del cibo nei pressi del campo, ma le persone lo hanno rifiutato perché sono ben consapevoli che sulla loro vita la Russia ha dato il via libera alla Turchia per invadere Afrin in cambio del ritiro dei gruppi islamici dalla Ghouta.
La situazione risulta davvero molto complessa e Erdogan cerca di alimentare il conflitto tra arabi e curdi con un processo volto al cambiamento demografico di Afrin. Da giorni, infatti, le famiglie dei jihadisti che vivevano nella zona di Ghouta si stanno trasferendo, occupando le nostre case ad Afrin e, contemporaneamente, le persone che vivono nei villaggi circostanti sono state forzatamente allontanate dalle forze occupanti. È incredibile quanto sta accadendo!».
Cosa pensate possa accadere in futuro?
«La guerra in Siria dipende sempre dagli accordi tra diverse potenze internazionali con chiari interessi sul nostro territorio. Durante i 58 giorni di resistenza abbiamo inviato appelli a chiunque: dalle istituzioni dell’Unione Europea alle organizzazioni umanitarie. Ma non abbiamo ricevuto nessuna risposta. In ogni parte del mondo si continuano a organizzare marce e manifestazioni facendo pressione sui diversi governi. Ma se gli Stati continueranno a mantenere questo silenzio, se non fermeranno Erdogan, la minaccia non sarà solo per la popolazione di Afrin, ma per tutti. Noi non abbandoniamo Afrin, sappiamo che un giorno sarà liberata!».
Le puntate precedenti del reportage di Ya Basta Bologna nel Rojava: