cult

CULT

Rock, letteratura e il vuoto attorno

Secondo Liborio Conca in “Rock Lit. Musica e letteratura: legami, intrecci, visioni” (Jimenez, 2018) il rock è letteratura per le masse. Dagli anni ’60 al post-grunge, musica e letteratura si prendono per mano, pronunciano parole e accordano suoni

La festa va avanti

New York, 1984: sembra una sfilata. «Al Limelight la festa va avanti». In un club nascosto in un palazzo di Chelsea va in onda un raduno di famosi. Apparentemente, è il party del decennio. William Burroughs, per tutti Bill, colui che si fece perseguitare da una scimmia per quel gioco di aghi ficcati in vena che restituì in veste di memoir, Bill maestro neo-dada di cut-up, è un sopravvissuto, fa 70 anni e si decide di celebrarlo in grande stile. Ci sono i suoi fan storici (Patti Smith, Frank Zappa, Lou Reed) e nuove leve (Madonna, i Police – Burroughs li ignora, con quel nome poi). Una scena alla Don DeLillo di personaggi in maschera e in sequenza. Le loro canzoni sono altrove. Volteggiano. Ma no, non nel vuoto.

«La prima volta che ascolti la canzone c’è solo la canzone. Dietro quelle voci e quelle note però non c’è il vuoto». Dice tutto l’inizio del libro, dotto ma godibilissimo, di Liborio Conca – libro dai toni plurimi, che alternano il saggismo raffinato, l’aneddotica gustosa del miglior giornalismo musicale e gli incisi autobiografici un po’ alla Foster Wallace disseminati nelle note, nelle parentesi. Rock Lit è una trappola dolce. Inganna. Perché non è solo un testo che indaga il sottotesto, quello letterario onnipresente nella migliore musica rock (e tanto peggio per la peggiore). Non è solo la ricostruzione, nel primo capitolo, dei debiti che almeno tre generazioni hanno contratto con Burroughs, né l’aria di famiglia, nel secondo, tra certo rock e certa letteratura Southern, né solo l’elegia, nell’intermezzo, del più anfibio di tutti – più di Dylan, sì – Leonard Cohen, nato poeta, poi piegato al rock per un pugno di dollari e perché l’esordio ad anni 33 fu spaventosamente bello. Né Rock Lit è solo la scoperta, nel capitolo III, che anche gli artisti inglesi amoreggiano coi loro scrittori, che Orwell o Keats o fanno breccia in Thom Yorke o negli Smiths. Né è solo il viaggio dell’ultima sezione, dedicata alle Visioni, quando Dylan prende l’autore per mano, e Belle and Sebastian mimano Salinger, Springsteen echeggia Steinbeck.

Fosse questo, Rock Lit, se il discorso si riducesse a scovare quanti riferimenti sono celati nei testi dei giovani che hanno frequentato le strade o le art school sulle due sponde dell’Atlantico nell’ultimo mezzo secolo, avrebbe un raggio d’azione avvincente ma limitato. Ma Rock Lit non è una carrellata di citazioni. Propone un percorso di brani che lentamente scava nelle viscere del lettore che è anche ascoltatore. Perché durante il percorso affronta il problema del vuoto, ovvero, che dietro le canzoni non c’è il vuoto. Anche se, e questo è inquietante, inizialmente sembra proprio così: che aleggino nel nulla.

 

Per le masse

Rock Lit ammette subito le difficoltà di chi con qualche “base” – (le basi ti mancano le basi) – si trovi a cercare un senso ulteriore al semplice godimento dell’ascolto. Di quando ci scopriamo ostinati a ripetere note e ritornelli, strofe e fraseggi di quelle che certamente sono solo canzoni. Non tormentoni, perché non è questo il medium esplorato da Conca – non è il performativo assoluto di Kylie Minogue – «I can’t get you out of my head» – che fu spiegato in un libro noioso del geniale Paul Morley (tradotto in italiano col titolo pietosamente fedele di Metapop).

I am just a singer of songs, diceva Cash. Il problema è che il rock parla letteratura, la canta. La propone a un pubblico che difficilmente ci arriverebbe. E non parliamo dei famosi di oggi che sui social fanno mostra di leggere pagine “alte” (suscitando curiosità e sopracciglia alzate). Ma di figure grandi – alcune enormi – che nel rock hanno propagato il verbo della cultura highbrow, per farla diventare versi che tutti ricordano.

Letteratura per le masse, dunque. È così che nel 1978 Kate Bush diventa l’unico tramite per Cime tempestose. Così Morrissey nel 1986 si fa un’autostrada verso Wilde. E Patti Smith, quando nel 1975 descrive i cavalli dell’eroina usando Rimbaud, spaccia sinestesie ai giovani punk. Tra cui Michael Stipe che, racconta Rock Lit, parla in lingue dentro a un microfono in un’era in cui Internet non esiste e i testi o li cogli o non saprai mai quali sono. E che subito raccoglie l’invito alla lettura di Patti Smith: compra i libri, li usa, li musica. Anche lui un giorno duetterà con Burroughs in Star/Fuck me Kitten.

 

Il volgare ti cambia la vita

E quindi è vero: i libri cambiano la vita dei cantanti. E cambiano quella dei loro fan, che poi magari si innamorano delle connessioni per scriverci su post, articoli. Persino libri. Le righe dei pochi che anticipano il futuro vengono rese presente per i molti. E contenuti alti, complessi, ineffabili arrivano per li rami alla cultura bassa. Quindi, viene da pensare, è una semplificazione che riesce. Quindi la volgarizzazione è un complotto che funziona.

Ma qui bisogna porsi una domanda semplice. Che c’entra in parte con lo scandalo ai lincei e la stoltezza per i musicanti che fu quel dannato Nobel per la letteratura a Robert Zimmerman dettosi Dylan perché lesse Dylan Thomas e molto altro (Verlaine and Rimbaud, tutto il beat possibile, Eliot e, svela Conca, anche Čechov, nonché Petrarca, o Cavalcanti, o forse Tommaso da Celano – chi è mai il famoso poeta italiano di Tangled Up in Blue?). Funziona tutto in questa ‘traduzione’ continua? Dylan, Conca lo spiega bene, ha accolto il Nobel con malcelato fastidio. E nella faticosa lettera di accettazione ha fatto capire che, oltre ad aver letto molto, i suoi erano versi di canzoni. Il fastidio del più grande araldo della contaminazione è la spia di qualcosa che non torna. Non tutto fa brodo. Non tutto porta acqua al mulino della mediazione totale nel brodo culturale. Nel divertimento (come la storia di Humpty Dumpty dal Medioevo ai Travis passando per Lewis Carroll), nelle scoperte che reca ai lettori (che Camus sia dentro le liriche di Robert Smith lo sanno in molti, di Kafka molti meno), Rock Lit fa arrivare un altro messaggio, più profondo, più duro.

 

 

I demoni agli incroci

A un certo punto, dopo aver svelato quanto Carroll vi sia dietro I am the Walrus dei Beatles più psichedelici, dopo i colori lisergici della dispersione del segno nel non-sense di Lennon (Goo goo g’joob), Conca torna al «cuore scuro, nero» del rock inglese per parlare di “anime morte”, da un brano dei Joy Division che fa eco a Gogol. E naturalmente, prima di parlare di Ian Curtis, deve notare che «lungo questa strada rockletteraria abbiamo incrociato la morte per suicidio non poche volte» (141). Per riprendere le atmosfere d’un altro libro (Di cosa parla veramente una canzone, di Raffaele Calvanese, uscito per Scatole Parlanti), fatto di racconti ma dominato, ossessionato da un quotidiano di suoni e di testi «mai scordati, sempre trattenuti» dai personaggi, è vero che questi oggetti sonori indefiniti di tre-quattro minuti veicolano oltre che forme e stili e nevrosi anche quella riluttanza alla vita, quella malinconia e mestizia che si sbaglierebbe a definire giovanili, che però a volte, in certi istanti di fortuna, prendono un suono e una voce.

È qui, in questa presa di parola, che le distinzioni alto-basso, lowbrowe highbrow, cedono il passo. Non c’è resto in questa traduzione, c’è un incrocio totale dove la parola musicale che si appropria di una trama, di un verso, si fa parola di fuga, di sofferenza, di evasione, e vive una vita tutta sua che redime di continuo chi l’ascolta, mentre spesso danna chi scrive, come un Faust qualunque.

 

 

Nella colonia musicale

Conta la selezione del proprio demone. Per questo, quando divengono musica, non sono contenuti alti l’affogare di una classe nel lavoro in miniera o nei campi narrato da Breece Pancake, le follie sinestetiche di Flannery O’Connor e William Faulkner, l’avvicinarsi di Burroughs alle crisi d’astinenza. È solo un patto coi propri demoni, che qualcuno racconta intonando. Una volta immerse nella pasta viva delle note e di voci tormentate o candide, le canzoni fanno mostra di autonomia, di “vuoto” attorno. Ma è un trucco. Perché mentre le dita corrono rapide a cercare i cd tra gli scaffali o i video su YouTube, Rock Lit ti mostra una casa di spettri, un ossario di voci che accumulano repliche in vitro di pagine, di incipit, di versi sonanti. Nick Cave, Vic Chesnutt, i celebri Curtis e Cobain, non sono semplificazioni del messaggio letterario dei loro Blake o McCarthy. Dentro le loro vicende, le molte vette e i tempi bui, dentro l’abisso finale – c’è chi si spara dopo aver detto “It’s no good”, chi si impasticca il giorno di Natale – c’è riscritta la parabola della colonia penale di Kafka. La legge in forma di lettere – quelle che benedicono la vita mal vissuta – trova prima un corpo, poi un suono in cui incidersi, e lascia la presa proprio mentre si fa codice per altri, anonimi, assenti nella scena del delitto.

 

 

Il codice di un’alleanza. Come in quell’epoca confusa del post-grunge, nei Novanta, quando di giovani problematici dalle strane letture “alte” ne sparivano a decine, disorientando autori e fruitori. Alcuni allora trovarono rifugio nelle pagine di altri libri conosciuti per sentito dire, senza “basi”, senza ordine. Nelle chitarre distorte e nella cantilena monocorde di Tears on Fresh Fruit – nel primo album degli Sparklehorse – Mark Linkous fece vibrare una manciata di versi che rimano il suicidio di Breece Pancake e sono sofferenza pura venduta a masse scarne: «Cerchiamo solo di essere liberi dai nostri corpi, i nostri stomaci pieni di liquore, i nostri polmoni pieni d’acqua». Il grottesco dolente della pagina si fece storpiatura consapevole, artificio musicale, ripetizione. Linkous scompare quindici anni dopo.

 

 

Ma non è solo l’abisso a esser messo a tono in questa traduzione. Qualcuno ci trova anche la propria somiglianza deforme con la grande storia atroce. Come Jeff Mangum dei Neutral Milk Hotel, che legge per caso il Diario di Anne Frank e la sogna, ne fa una storia di metempsicosi e spettri, s’inventa un “re carota” per parlare di Shoah come realtà presente e viva, sparge ceneri da un Aeroplane over the Sea. Mangum non è la macchietta ingenua a stelle e strisce che scopre la storia, ma colui che la ingloba talmente, la inscrive nei suoi pezzi con tale impeto da scegliere il silenzio subito dopo. Non registra più nulla.

Non è affatto un binomio, Rock Lit. È un tentativo di definire l’affollamento di demoni all’incrocio. Un incrocio dove si vende l’anima per dire la vita mentre la si perde. E quella parola resta lì. Scritta, ma da ascoltare.