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Immanuel Kant, Furio Jesi e la foglia di fico
Nell’anniversario dalla morte, un attraversamento delle teorie e riflessioni dell’autore di “Cultura di destra”, Furio Jesi, a partire dalle conflittualità del presente come Black Lives Matter
C’è uno scritto di Kant assai curioso. Il passeggiatore di Königsberg, un omino che ha raggiunto la fama in terza età grazie alla Critica della ragione pura, spende una decina di pagine a commentare le gesta di Eva e Adamo nella Genesi, ma neanche li nomina. In realtà quelle pagine, dal titolo modesto e un po’ affettato di Inizio congetturale della storia degli esseri umani, finiscono per dire un paio di cose scomode. Già, perché Kant, benché attentissimo a sfuggire alla censura prussiana, legge esplicitamente il peccato originale come la prima scelta di libertà. È il male, certo, ma è libertà.
Mangiato il frutto del peccato, come noto i due rei si videro nudi e si vestirono di foglie. Ecco, per Kant, un’altra libertà: l’ulteriore passo della ragione fu proprio indossare la foglia di fico. Quel coprirsi, dice, fu simbolo di una rinuncia e insieme di un desiderio da protrarsi grazie all’abito. Non vedo, vedo di più. Si scoprì che il desiderio è meglio non consumarlo tutto e subito, accoppiandosi come bestie, ma che si espande e prolifera se il suo oggetto si nasconde. Coprendosi, rinunciando e mettendo a valore il desiderio – un esercizio di ascesi capitalistica, in fondo – l’individuo scoprì di potersi comportare in modo che, diremmo ai bambini, è “educato”. Cioè incline a «infondere negli altri rispetto per noi attraverso i buoni modi (nascondere ciò che potrebbe generare disprezzo)». Questa virtù – questa libertà – Kant la chiama contegno, “costumatezza” – Sittsamkeit – e la pone all’inizio della storia dell’essere umano come creatura morale, all’inizio della cultura. Coprirsi, rimandare la soddisfazione, come fondamento della cultura. C’è da chiedersi, davvero, che vergogna dovesse rappresentare quel corpo da coprire. Perché proprio quella libertà di nascondere fosse per Kant l’inizio dell’inizio. Principio del principio della civiltà. Era il 1786, la vigilia della Rivoluzione.
Oggi, mentre la chiacchiera social nell’era del nostro immobilismo vede innalzarsi le temperature (solo virtuali, per carità) per la questione saccheggio sì-saccheggio no, statue sì-statue no e simili, leggere la posizione del vecchio, vecchissimo Kant può essere utile.
Perché stiamo dibattendo, ancora una volta, della foglia di fico e occorre capire, come Kant, cosa voglia dire davvero. Rivoltarsi contro il razzismo istituzionale diventa, nella discussione pubblica, una questione di “costumatezza”. Nel senso che copriamo la vergogna e prolunghiamo il desiderio – nel nostro caso un desiderio solo negativo, quello di non parlare del problema, di non turbare un ordine di comando e obbedienza che ci va benissimo. Per questo si operano i distinguo. Per questo si richiamano i contesti – spiegare i monumenti con la didascalia, per storicizzare, dare istruzioni al pubblico discente. Con editoriali e cicalecci, la borghesia s’affretta a impartire lezioni di storia, copre con la foglia di fico della sua cultura egemonica una barbarie che non può negare. Ma proprio mentre si diffonde uno strano odore di malacreanza attorno alla foglia di fico (“non è questo il modo”, “ben altro”, “capisco tutto ma”), proprio in quel momento ci si accorge che si parla solo di simboli. Ed è qui che serve riaprire le pagine di Furio Jesi, che moriva esattamente quarant’anni fa, il 17 giugno 1980.
Intelligenza trasversale, archeologo a quindici anni, poi storico delle religioni e corrispondente di Karl Kerényi sui temi del mito, poeta e germanista raffinato, e ancora sindacalista e tardi, tardissimo accademico per chiara fama quando aveva solo la terza media, Jesi aveva pochi anni di ordinariato alle spalle (a Palermo) quando morì trentanovenne per il più banale degli incidenti domestici – l’esplosione della caldaia nella sua abitazione di Genova. Impossibile riassumerne i meriti. Per questo il biglietto da visita corrente è noto: Furio Jesi, “genio”. Ma anche il genio ha una condizione sociale. Di ottimi natali, con ampia biblioteca a disposizione, prima della tardiva incorporazione accademica Jesi anticipa molti aspetti dell’intellettuale precario odierno – progetti editoriali attuati o immaginati, traduzioni disparate, monografie accanto ad articoli, volantini e manuali per le scuole, confusione tra livello didattico e scientifico, disseminazione. Scarsi compensi. Oggi, grazie alle riedizioni di alcune sue opere fondamentali (Germania segreta, Spartakus, Materiali mitologici, il pluricitato Cultura di destra, sempre per la cura decisiva di Andrea Cavalletti – con Enrico Manera e i Wu Ming tra le figure cui dobbiamo l’iniziazione delle nuove generazioni a Jesi, al di là della cittadella dei germanisti), il canone-Jesi può dirsi ben affermato in un’area ristretta a cavallo tra letteratura e militanza. Se le sue formule sul “mito tecnicizzato” e la “macchina mitologica” sono entrate nel bagaglio culturale di alcuni, è stato però anche notato (da Gabriele Guerra, recensendo Germania segreta) come talune opere necessitino di revisioni critiche, di attenzione filologica. Scritte con urgenza e impeto giovanile (e un certo amore per la parola che trovò forma letteraria, ancor più poetica), scontano bibliografie datate o fallaci proprio mentre affondano il colpo grazie a suggestioni imprevedibili.
E se Jesi è assurto quasi a Benjamin italiano – per l’amore che tra i primi ha nutrito per il critico berlinese, per l’influenza su di lui esercitata da Scholem e da Buber –, come Benjamin non merita i processi di santificazione da cui Cavalletti ha messo in guardia. Va letto, criticato.
Va usato con sguardo storico avvertito. Ma appunto usato, a partire dalla propria posizione attuale.
Per esempio per parlare di rivolte e di foglie di fico, cose di questi giorni. Separati e inassembrabili, siamo spettatori di rivolte contro l’inossidabile privilegio bianco, contro la sua traduzione in chiave di violenza politica (Trump) e poliziesca. A corollario, ben rilanciate dai media, vediamo anche rivolte contro simboli (la merce, le statue). Sono rivolte in cui la strada cittadina ridiventa familiare, ma la cui organizzazione sfugge a una sintesi – che non somigliano certo ancora a una rivoluzione. Serve, dunque, rileggere lo Jesi di Spartakus, che associando Brecht a Thomas Mann e Theodor Storm aveva esposto il nesso tra rivolta e simboli, rivelando i modi e l’atmosfera personale nell’agitazione dell’istante politico in cui l’io si fa noi, fa cose “con“ gli altri. Eppure, aveva detto Jesi, proprio per il suo carattere d’istante la rivolta – l’archetipo a cui pensa è quello spartachista – tende troppo a confondersi con eroismo e sacrificio. A usare questi lemmi come parole d’ordine, a prepararsi un futuro di memoria sacrificale.
Ma è un altro testo, più tardo di Spartakus che nacque nell’alveo del Sessantotto, a darci una chiave ulteriore per oggi. A farci tornare alla foglia di fico e alle sue radici – meno grottesche di quel che pare. Si tratta del Bachofen del 1973, pensato come un’introduzione a una delle grandi imprese di Jesi, la resa italiana del Matriarcato (compiuta infine da Giulio Schiavoni). Dilettante d’autore, indagatore en amateur, patrizio non accademico, Johann Jakob Bachofen ebbe come maestro von Savigny, osteggiato da Hegel ma padrone assoluto della dottrina del diritto di lingua tedesca. E certo dilettante d’autore e “amatore“ fu anche Jesi. Ma tra i due non era in gioco un desiderio mimetico, quanto un motivo di fascinazione particolare. Di argomento dirompente, il Mutterrecht – il diritto materno – fu l’opera in cui il giurista svizzero riversò una cultura sterminata per analizzare forme antropologiche arcaiche – eteriche, poliandriche, non patriarcali. Ebbene: in quel testo breve e inedito riportato alla luce ancora da Cavalletti, prima ancora che per le tesi sull’origine dell’istituto familiare che finirono per interessare Engels e il marxismo, Jesi si sofferma a lungo su un termine tedesco, Gesittung, che riporta alla kantiana Sittsamkeit.
Gesittung è un lemma che torna ovunque in quel libro enorme: «La parola Gesittung nel tedesco più corrente significa qualcosa di simile a “buona creanza”», chiosa Jesi. E aggiunge, per far capire come dietro la buona creanza vi sia una concrezione ideologica che ha le sue radici anche in Kant: «di là della buona creanza sta il “viver civile”, un simbolo semantico che oscilla tra la correttezza di rapporti dei protagonisti dell’intérieur borghese e la solennità testamentaria della Kultur».
Quando si parla di “buone maniere”, dunque, si parla seriamente di simboli.
Il conservatore Bachofen, con la sua passione per la “terra” (terra come proprietà e come luogo dei morti, come recipiente del «corredo funerario di “cose”») svelava a Jesi le dinamiche di quella borghesia che Bachofen guardava con degnazione. Quel che fa Bachofen, per Jesi, è «far maturare dinanzi all’osservatore la crisi di un modo di vivere oltre che di conoscere, di una “Gesittung” oltre che di un “Wissen”». Ma c’è di più: proprio perché Bachofen mostra questa crisi con “buona creanza”, lo fa attraverso il diritto. Lo fa cioè attribuendo agli istituti del diritto una valenza simbolica, e di qui spalancando sotto al diritto un abisso. Proprio per questo intreccio col simbolo, infatti, «il diritto positivo è una macchina mitologica che produce simboli e così facendo mina se stessa, nella misura in cui di là dal simbolo “positivo” si apre la voragine del simbolo “naturale”. Se il primo rinvia ad altro da sé, il secondo non rinvia ad altro che a sé». E quindi se il diritto è un simbolo, la buona creanza «si appalesa innanzi tutto come rinvio alla barbarie». Guardando con “buona creanza” agli istituti, descrivendone lo stile “simbolico” con un linguaggio ritmico invariabilmente ripetitivo, Bachofen mostra il fondamento mitico del diritto, «la dimensione in cui l’autorinvio dei simboli risulta essere primordiale». Il diritto come simbolo attinge solo a sé, alla sua essenza “barbarica”, insiste Jesi.
La “buona educazione” come argine alla barbarie dunque è una questione interna al linguaggio giuridico – all’istanza che pone questo diritto e dice quel che è civile e quel che è barbaro. È la lingua che si parla nel momento stesso in cui si appone la foglia di fico: la foglia è cioè la norma di condotta che dà la linea e definisce barbarie rivelare la nudità (i genitali nella Genesi, il nostro razzismo, il nostro colonialismo oggi). Certo, a suo modo è la vecchia fiaba del re nudo.
E nel linguaggio che parla della rivolta – anche quello deprimente del nostro giornalismo – emergono come detriti i “tic” della conservazione simbolica: “così non si fa”.
Buona creanza è quella funzione di “costume” che fa dire a Eva e Adamo di non doversi più vergognare, perché hanno un abito, un’abitudine alla forma. Gesittung non è etichetta dunque, è il modo stesso della civiltà. Chi sposta la foglia di fico tocca il fondamento di una civiltà intera. Sarà sempre e soltanto barbaro. Almeno finché dura la civiltà, finché la barbarie è repressa.
Perché poi quando la barbarie avviene davvero, i distinguo non valgono.
Quando infine la Rivoluzione ebbe luogo – e durò a lungo, anni e anni di giustizia sommaria a sanare secoli di servaggio –, lo stesso Kant che aveva “inventato” la foglia di fico prese una posizione molto dura: non solo, nove anni dopo l’inizio, ritenne la Rivoluzione un evento tale da suscitare entusiasmo negli spettatori – una tesi destinata a una fama sovradimensionata –, ma giustificò la decapitazione di Luigi XVI senza mezzi termini: «il governo che lo volesse graziare farebbe con ciò torto al popolo». Se il vecchio monarca fa il ribelle, la nuova sovranità deve punirlo come un criminale.
Il vecchio Kant, che del fondamento del diritto sapeva tanto quanto del suo fine, sapeva che pure la barbarie sarà rivendicata. Che di fronte all’ingiustizia materiale, il nuovo essere sociale sarà barbaro – deve balbettare. E certo la sua apparenza sarà deforme, sinistra, “screanzata”. Se non lo fosse, d’altronde, farebbe torto al popolo.