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Rivolta o rivoluzione?
In “Lo scisma da un mondo che muore” (MachinaLibro/DeriveApprodi, 2024), Michele Garau discute l’eredità di J. Camatte che, partito da un approccio critico al marxismo, finisce per abbandonare la prospettiva rivoluzionaria e praticare l’esodo dal mondo in agonia del capitale
In questo breve, ma denso, volume Garau torna sui dilemmi dei movimenti anticapitalisti, sospesi fra gestione dell’esistente e alterità radicale, che, nel precedente L’ultrasinistra e il “partito storico” della rivoluzione (Porfido, 2023), aveva indagato attraverso le scelte, e la sconfitta, del Partito comunista dei lavoratori di Germania (KAPD) tra il 1918 e il 1923. Nel nuovo lavoro, l’autore discute il rapporto “spaziale” (il suo collocarsi dentro o fuori) e temporale (in continuità o in rottura) della rivoluzione con il capitalismo ripercorrendo l’itinerario teorico di un pensatore che, nel confronto prima con Bordiga e poi con i gruppi rivoluzionari di fine anni Sessanta e anni Settanta, mette in luce la subalternità del movimento operaio alla società borghese, sul piano culturale come su quello organizzativo.
Lo scopo di quest’analisi, spiega Garau nell’Introduzione, è di enucleare «degli attrezzi fondamentali per un’antipolitica che metta la vita e le sue forme al centro di una critica radicale di questa società e di questo mondo […] senza lasciare intatto alcun elemento di continuità, nessuna sfera separata e nessun rifugio per l’artificialità e la menzogna» (p. 8).
L’autore si concentra sullo sviluppo della teoria camattiana in un arco temporale ristretto: gli anni 1969-1974, quando escono le prime due serie della rivista “Invariance”, di ispirazione bordighista, di cui Camatte fu direttore. È impossibile in questa sede dar conto dei molteplici temi e riferimenti teorici evocati dal libro (cui avrebbe giovato una maggiore contestualizzazione storica e una suddivisione tematica più rigorosa); l’analisi che segue prende in considerazione pertanto solo alcuni elementi, che appaiono rilevanti ai fini dell’attuale dibattito sulle prospettive dell’anticapitalismo (in ciò consiste il merito del libro): la critica della “sinistra”, in particolare del suo produttivismo; il concetto di rivoluzione; le rivolte contemporanee.
Di Bordiga, che incontra – rimanendone colpito – nei primi anni Cinquanta, Camatte accoglie il rigetto di ogni forma di gradualismo: le grigie politiche riformiste come gli esperimenti consiliaristi sono viziati dalla subalternità all’esistente, mossi come sono dall’illusione (quando non dalla mala fede) che sia possibile utilizzare l’ingranaggio capitalistico a proprio favore. Gli aspetti più deleteri dell’introiezione del mondo borghese da parte del movimento operaio classico sono costituiti dal culto dell’organizzazione e dalla mistica dello sviluppo. Sul primo punto – la riduzione del superamento del capitalismo a questione “tecnica” – Camatte, in un confronto che Garau definisce di “rottura dialettica”, va oltre Bordiga, persuaso com’è che
«[…] esisterebbe una sorta di isomorfismo, una convergenza formale tra le modalità associative proprie della “comunità capitale” – la cui superficie si configura sempre più secondo l’apparenza di una guerra tra bande dentro una cornice di unità sostanziale degli interessi – e lo spettacolo politico rappresentato dai residui del movimento operaio e della sinistra rivoluzionaria» (p. 18).
Quanto al produttivismo, i fondamenti vanno ricercati nell’abbandono, da parte del marxismo ufficiale, della prospettiva comunitaria, rimpiazzata dalla fede nell’illimitato accrescimento (quantitativo e qualitativo) delle forze produttive come viatico al comunismo. Il marxismo si è così ridotto a ideologia legittimante della colonizzazione capitalistica del mondo. Bisogna nondimeno risalire più indietro del dogmatismo sovietico se si vuole individuare l’incubazione della teologia sviluppista, che cova, secondo Camatte, nello stesso opus magnum marxiano: l’arcano per cui le forze produttive, forgiate dal capitale per il capitale, dovrebbero dischiudere, una volta arrivate al loro “culmine” (soglia che resta indeterminabile), un processo rivoluzionario non è mai svelato, da Marx.
La ricostruzione camattiana della storia e dell’ideologia del movimento operaio, che è accolta da Garau, solleva diversi interrogativi. Innanzitutto, qual è l’utilità politica, oltre che euristica, di mettere nello stesso calderone esperienze che vanno dal Partito socialista francese ai consigli operai di Gramsci? L’equiparazione impedisce di cogliere il potenziale trasformativo di tentativi di autogoverno che, pur condotti all’interno del fenomeno capitale, hanno rappresentato una sfida tanto alla classe dominante quanto alle organizzazioni tradizionali del movimento operaio. Da questo punto di vista, il precedente lavoro di Garau sull’ultrasinistra tedesca appare senza dubbio più attento alla complessità, sottolineando come quell’esperienza cercò di tenere insieme la spinta all’autorganizzazione, in una società ancora capitalista, con la consapevolezza della necessità di un contropotere armato per fronteggiare la reazione.
In secondo luogo, lo smascheramento camattiano della mistica sviluppista – operazione di cui Garau sottolinea il carattere pionieristico, trascurando però che non è isolata in quegli anni, perché il moderno ambientalismo anticapitalista nasce proprio allora – attribuisce a Marx un meccanicismo che trascura componenti fondamentali della sua teoria; un limite che non viene problematizzato, nel libro. Del resto, le discussioni sull’interpretazione delle categorie marxiane vengono liquidate dall’autore come «bizantinismi». Garau ricorda come per Camatte il processo di valorizzazione del capitale incontri un limite, perché, puntando a rendere superfluo l’apporto dell’attività umana, finisce per eliminare anche il proprio presupposto di esistenza: «l’energia organica della specie» (p. 55). Il mondo che muore del titolo è infatti il capitalismo, che, in una corsa intrinsecamente irrazionale (di cui le organizzazioni del movimento operaio sono complici), precipita gli esseri viventi nel rischio di estinzione.
Questa tendenza all’autodistruzione, tuttavia, era ben presente a Marx, che, nel Capitale, chiariva come lo sfruttamento del suolo da parte dell’agricoltura capitalistica finisse per compromettere in modo irreparabile la sussistenza delle condizioni di produzione del capitale stesso. Da queste analisi hanno preso le mosse le scuole di ecologia marxista, da O’Connor a Bellamy Foster, pur con le differenze fra i due.
Non meno problematica appare la visione camattiana della rivoluzione. Una volta che il capitale ha raggiunto lo stadio dell’antropomorfosi, ossia la «distruzione dell’essere umano precedente, dal momento che [il capitale] ricrea un essere sociale e comunitario – ma anche un tipo di individuo – a propria immagine» (p. 63), viene meno, per Bordiga come per Camatte, qualsiasi possibilità di innescare un processo rivoluzionario dall’interno della macchina capitalistica. La rivoluzione o è uno «scisma» – una rottura totale con l’esistente – o non è; da qui l’inutilità della militanza e della lotta per l’egemonia, che non dischiudono alcun “fuori”, e altresì di qualsiasi prefigurazione teorica della società futura. In breve, il comunismo non può essere preparato; quel che si può fare è vivere come se la rivoluzione fosse già compiuta. Come si possa fare tabula rasa da un giorno all’altro del fenomeno capitale, che ha colonizzato la vita quotidiana delle persone (rivoluzionari inclusi) e non è fatto solo di tecnologia e di coercizione ma anche di una vera e propria antropologia – e Camatte di tutto ciò è un lucido interprete – non è spiegato: per il pensatore francese questo interrogativo è privo di senso.
Alla luce di questi punti ciechi della sua teoria, non sorprende che l’approdo di Camatte sia stato un (alquanto individualistico) abbandono del mondo. Dapprima, sull’onda delle soggettività rivoluzionarie emerse fra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, si consuma la rottura con Bordiga: nella seconda serie di “Invariance”, infatti, Camatte si sgancia dalla teoria del proletariato quale soggetto rivoluzionario esclusivo, per indicare nella pluralità dei soggetti proletarizzati – quale che sia il loro ruolo economico: produttivo, distributivo o di mero consumo – i focolai rivoluzionari. Peraltro, ai suoi occhi anche i gruppi come Potere operaio rimangono invischiati nell’assunto della centralità della classe operaia, senza comprendere che il polo lavoro, lungi dall’essere antagonista al polo capitale, ne alimenta al contrario lo sviluppo. A metà degli anni Settanta, poi, Camatte abbandona la prospettiva rivoluzionaria tout court: solo la diserzione può condannare a morte il capitalismo.
Su questo punto, e, in parte, sull’ambivalenza della nozione di comunità Garau prende le distanze da Camatte, come si vede nelle pagine finali del volume.L’autore da un lato riconosce il lascito che il pensatore francese consegna a «chi coltiva un’inimicizia politica verso il mondo così com’è» (p. 101).
In particolare, di Camatte valorizza un concetto di comunità, che, coerentemente con un’idea di rivoluzione del tutto aliena alla causa del progresso (perché a distruggere l’antico ci ha già pensato il capitale), si lega al recupero di un «campionario di virtualità lasciate inespresse» (p. 102) come la Comune, l’ucraina machnovščyna o i Soviet; sentieri che, nel corso della storia, sono rimasti inesplorati non secondariamente per colpa del marxismo ufficiale.
Dall’altro lato, Garau non nasconde il rischio di essenzialismo che si cela nell’anelito a una forma di comunità in sintonia con l’universo, tanto più se questa aspirazione viene coltivata ritirandosi dal mondo. L’abbandono non può bastare a chi ha fame di cambiarlo, commenta l’autore; più feconda suona la fiducia di Cesarano (del quale viene ricordato un commento sarcastico su Camatte, ridottosi a coltivare, in senso non figurato, il suo orticello) nella reversibilità dell’antropomorfosi del capitale. Come uscirne, allora?
Con parole incisive, l’autore esprime la sua sintonia con le proteste degli ultimi anni, stigmatizzate dalla sinistra (quale?) come apolitiche o, peggio, antipolitiche e ben esemplificate dai gilets jaunes. Si tratta di momenti di rottura che, scavalcando gli apparati ideologici e burocratici, traggono linfa dai bisogni e dai rapporti non codificati dell’esperienza quotidiana.
Attraverso questo cortocircuito tra il particolare e il globale, dal cielo plumbeo della mediazione e delle istituzioni la politica ridiscende sulla terra. Sono, queste, le pagine più stimolanti del libro, anche se lasciano molti interrogativi aperti. Come possiamo, ad esempio, fare in modo che la politica sulla terra ci rimanga? Confidando, come fa Garau, nella capacità del comunismo, «il movimento rivoluzionario del bisogno materiale» (p. 125), di procedere da sé – magari con la spinta di una rete di “cospiratori”?
Risuonano qui i vizi del pur vituperato marxismo – la visione deterministica e la fiducia nella superiorità di quella che di fatto appare come un’avanguardia – esacerbati dalla convinzione che qualunque confronto con la “sinistra”, inclusa quella di movimento, sia inutile, perché essa non est digna. È uno strano modo di porre le basi per una nuova comunità.
Immagine di copertina: Valentina Fusco
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