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Il ritmo zoppo dell’amore

Da poco pubblicato per la casa editrice Mimesis, “Il sesso, l’amore” (a cura di Federico Leoni e Silvia Lippi), è la conferenza che Alain Badiou avrebbe dovuto tenere a Milano lo scorso anno, ma che poi ha visto la luce solo nella forma di libro. Un’ulteriore tappa di un lungo percorso di interrogazione attorno a quell’incontro asimmetrico di due singolarità sessuate “incommensurabilmente differenti” e sulle conseguenze che comporta per la filosofia

Se l’amore, come affermava con sicurezza Arthur Rimbaud, s’ha da reinventare, è quasi istintivo domandarsi quali dimensioni dovrebbero essere investite da tale processo di reinvenzione o, ancora più istintivamente – resuscitando da un sonno al contempo liberale e libertario quello che probabilmente costituisce il topos più antico della storia del pensiero – domandarsi che cosa sia questo amore per il quale varrebbe la pena investire in un atto tanto tragico, quanto gioioso com’è quello della reinvenzione. Magari non accontentandosi di chiedere «di cosa parliamo quando parliamo d’amore» o, perfino, di implorare di conoscere «la verità sull’amore» e trovarsi di fronte a una fenomenologia delle esistenze, poetica, come quelle di Raymond Carver e Wystain Haugh Auden, o più prosaica, come quella della «guardarobiera nera e del suo romanzo rosa» di Vinicio Capossela.

Nei confini del panorama contemporaneo, il filosofo francese Alain Badiou è, probabilmente, una delle figure che maggiormente si è prodigata nel tentativo di fornire una risposta a questo genere di interrogativi.

Da una parte, infatti, egli ha sempre proclamato la necessità di una difesa dell’amore, di una liberazione di quest’ultimo dalla stretta in cui nel mondo attuale è intrappolato e, di conseguenza, minacciato. La stretta, appunto, tra una prospettiva «liberale» e una «libertaria», le quali «convergono sull’idea che l’amore [sia] un rischio inutile e che sia possibile avere da un lato una specie di vita coniugale preconfezionata che si svolgerà nella dolcezza del consumo e dall’altro accomodamenti sessuali senza impegno e all’insegna del piacere, in un regime di economia della passione» (A. Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza, Vicenza 2013, p. 19). Dall’altra, forse proprio a partire dalla convinzione che difendere e reinventare l’amore sia anche un compito filosofico, egli ha tracciato una connessione strettissima tra amore e filosofia e l’ha posta al centro di tutti i suoi lavori più importanti. Sin dal suo primo Manifesto per la filosofia, Badiou ha, infatti, inserito l’amore tra le quattro condizioni della filosofia – insieme ad arte, politica e scienza –, vale a dire tra quelle forme di pensiero, all’interno delle quali, solamente, possono essere identificati degli eventi, delle verità e dei soggetti e sulle quali si fonda, in un certo senso, la possibilità stessa della (comparsa della) filosofia. Fin da Platone, afferma infatti a più riprese il filosofo francese, la filosofia è condizionata dall’amore («chi è incapace d’amore non può pretendere di filosofare», afferma quest’ultimo, nella Repubblica, in maniera categorica); e non da quell’amore che nell’«espressione “amore platonico” ha finito col significare “amore senza rapporto sessuale”», bensì dall’amore «in cui si annida l’insistenza del desiderio» (p. 13), la dimensione propria della sessualità.

 

 

Nella storia di tale relazione, una tappa fondamentale è rappresentata dall’opera di Jacques Lacan. Al di là del complesso ruolo assolto da quest’ultimo all’interno della riflessione badiousiana, infatti, dal ristretto punto di vista delle condizioni della filosofia, la sua opera rappresenta un evento nell’ordine dell’amore, a tal punto che, secondo il filosofo francese, non esisterebbe «alcuna teoria dell’amore tanto profonda quanto la sua dopo quella di Platone» (A. Badiou, Manifesto per la filosofia, Cronopio, Napoli 2008, p. 81).

Tale è la ragione per cui, per Badiou, interrogarsi sull’amore ha sempre significato confrontarsi con Lacan e, in modo particolare, con la relazione che intercorre tra la nota affermazione dello psicoanalista francese secondo la quale «non c’è rapporto sessuale» e quella per cui l’amore costituirebbe una forma di «supplenza» rispetto a tale assenza.

Nella primavera del 2018 tale confronto avrebbe dovuto arricchirsi di un ulteriore momento di discussione, in occasione della lezione magistrale che il filosofo francese avrebbe dovuto tenere a Milano, invitato dall’Istituto di ricerca per la psicoanalisi applicata. Malgrado Badiou non abbia potuto recarsi a tale appuntamento, il testo che aveva redatto in occasione di quella conferenza è diventato il fulcro di un piccolo libro – Il sesso, l’amore, a cura di Federico Leoni e Silvia Lippi – che, oltre al saggio di Badiou, ospita una serie di contributi, raccolti in un piccolo dossier, in cui una serie di filosofi e psicoanalisti si confrontano con quest’ultimo, sotto il segno di quello che Lacan avrebbe considerato un buon incontro.

Rispetto ai numerosi luoghi in cui Badiou si è pronunciato circa la questione dell’amore, il testo contenuto in questo libro ha il merito di condensare in poche pagine ben articolate una riflessione estremamente complessa, in cui i problemi sono – sin dal titolo, Che cosa deve significare “rapporto sessuale” per poter affermare che non c’è? – presi in esame a partire da due piani differenti, tra loro, tuttavia, inseparabili. Da un lato, quello dell’insistenza sul fatto che l’amore-condizione della filosofia sia un amore sessuato, un amore che «non è la verità soprasensibile che abolisce il desiderio, come suggerisce l’esegesi cristiana», ma che, tuttavia, non può essere nemmeno ricondotto «alla sola esplosione del desiderio, alle feste apparenti della sessualità», come pensano «i materialisti dalla vista corta o i moralisti del genere “non mi faccio ingannare dal teatro dei sentimenti”» (pp. 13-14); dall’altro, quello dell’interrogazione circa il genere di «supplenza creativa» che l’amore pone in essere. Piani inscindibili, dicevamo, dal momento che, secondo Badiou, è proprio a causa della dimensione della sessualità – ambiguamente e problematicamente schiacciata dal filosofo francese sull’«ordine dell’essere-natura», percepito come «luogo dell’indifferenza» che «non conosce della materia che l’imperativo della perpetuazione della specie» (pp. 14-15) – che non c’è rapporto sessuale. Ed è solamente grazie all’amore – «potenza simbolica del Due» (p. 15) – che su tale fondo potrà stabilirsi qualcosa dell’ordine del rapporto.

 

 

Fedele alla sua filiazione – quella della cosiddetta “filosofia del concetto”, per dirla, tra i molti, con Michel Foucault –  e nella convinzione che «per tentare di veder chiaro là dove regna in generale il pathos bisogna seguire la pista del matema» (p. 15), o, come si era espresso altrove,  che «nessun tema richiede più pura logica che quello dell’amore» (A. Badiou, Conditions, Seuil, Paris 1992, p. 257), il filosofo francese comincia col domandarsi quali siano le caratteristiche di una relazione che ha per termini due singolarità, come possono essere un uomo e una donna (senza far corrispondere a tali posizioni alcun carattere biologico, anatomico o essenzialistico). La caratteristica più lampante è quella che riposa sulla struttura antisimmetrica di tale relazione, che si fonda sul fatto che tali singolarità – proprio in quanto singolarità – sono incommensurabilmente differenti. «“Uno” e “uno” che non fanno due», nella misura in cui «nessuna posizione-una include un’esperienza dell’altra» (Conditions, p. 262). Il che, più prosaicamente, implica che ci si debba togliere dalla testa l’idea secondo cui «ciascun sesso possa sapere o apprendere qualcosa sull’altro sesso» (ivi, p. 268) o, ancora più radicalmente, che nell’amore a essere in gioco sia questa possibilità. Niente affatto. La possibilità dell’amore deve fondarsi proprio sull’attestazione principiale di tale incompatibilità, di quel «reale della disgiunzione» (ibid.) che qualifica la relazione tra uomo e donna come impossibile e scongiurare, pertanto, ogni concezione fusionale e oblativa del rapporto, all’interno delle quali i due “uno che non fanno due”, facciano due, facendo Uno, vale a dire fondendosi l’uno all’altro, a prezzo di una «soppressione del molteplice» (ivi, p. 256) che è proprio di ciascuno o di «un’abolizione di sé capace di aprire l’accesso all’altro, […] della scomparsa di sé nell’altro» (A. Badiou, Reinventare l’amore, in B.-C. Han, Eros in agonia, nottetempo, Milano 2019, p. 12).

Un pensiero dell’amore, per essere realmente tale, deve avere il coraggio di assumere questa incompatibilità come condizione e interrogarla. Interrogarla, come fa Badiou, al fine di qualificarla nella sua specificità, mostrando come essa non si fondi su una disgiunzione integrale, per cui non esisterebbe alcun elemento in comune tra la posizione maschile e quella femminile – visione propria di una tesi che il filosofo francese denomina segregativa e che spesso porta con sé una concezione gnostica del femminile come infinità misteriosa e impossibile da comprendere, che finisce per essere solidale con delle procedure di segregazione della donna e di destituzione di quest’ultima dallo spazio pubblico –, ma, ovviamente, nemmeno sulla condivisione di una moltitudine di caratteri, che sarebbe compito dell’amore dettagliare e rendere visibili.

La specificità dell’incompatibilità tra le posizioni sessuate riposa piuttosto sul fatto che almeno un termine non nullo, che Badiou contrassegna con la lettera u, entra in rapporto con esse. Un termine che è «assolutamente indeterminato, non descrivibile, non componibile» e che, pertanto, «non può essere oggetto di alcuna descrizione analitica» (p. 19), ma si limita ad attestare l’appartenenza della posizione maschile e di quella femminile a una stessa Umanità. Umanità che, come Badiou ha insistito più ampiamente altrove, non deve essere intesa in alcun senso umanistico, che attribuirebbe a quest’ultima un carattere oggettivo – ideale o biologico – che non le è proprio, bensì come quello “sfondo” generico che fa da supporto al fatto che, all’interno di ciascuna delle quattro condizioni della filosofia, possano prodursi degli eventi, darsi delle verità ed essere identificati dei soggetti.

 

 

Ecco perché anche l’amore ha a che fare con tale elemento in-significante che, nel suo caso, è reso visibile dal momento dell’incontro. È a partire dall’incontro – sempre contingente e assolutamente indescrivibile – che (ci) si apre (al)la possibilità dell’amore. Come? Mediante la doppia funzione, esercitata al suo interno, da u: come causa al contempo di desiderio e di incompatibilità, ma anche come «punto dal quale si conta il Due, avviando così un’indagine in condivisione dell’universo» (p. 22). Ovverosia, come punto dal quale non ci si dissolve per accogliere l’altro, né si cerca nell’altro, avrebbe detto Lacan, qualcosa con cui colmare la propria mancanza, bensì, attraverso la condivisione con l’altro, si comincia a esperire il mondo in modo nuovo o, come ha affermato Badiou in altre circostanze, a «“vivere” e non solamente tentare di farlo» (A. Badiou, Logiques des mondes, Paris, Seuil 2006, p. 493).

L’amore è, pertanto, l’assunzione, estremamente precaria e difficoltosa, di questa prospettiva, a partire dalle possibilità dischiuse da un incontro. Una prospettiva che, come osserva a più riprese Badiou – ed è forse uno dei pregi maggiori di questo scritto –, è dell’«ordine della fatica» (p. 24), della «zoppia» (p. 23), se si identifica quest’ultima con qualcosa che costituisce, al contempo, un cammino e ciò che impedisce di camminare. Una prospettiva zoppicante, dal momento che l’amore deve barcamenarsi tra un processo di continua espansione verso il mondo, sotto il segno del Due, e il persistere dell’incompatibilità tra le due posizioni. Un’incompatibilità che determina sì l’impossibilità che si possa scongiurare una volta per tutte, magari tramite un calcolo delle probabilità, il rischio del fallimento – l’amore non può evitare, infatti, che il non-rapporto sessuale faccia ritorno –, ma anche la sola possibilità della reinvenzione continua delle forme di una relazione. Un amore che non coincide con la feticizzazione romantica dell’incontro, ma che decide di assumere la prospettiva, ben più faticosa, del trattamento, punto per punto, di tutte le sue conseguenze, nella forma della durata e del processo, che non significa, o almeno non solamente, che l’amore dura, che ci si ama sempre o per sempre, ma soprattutto che «inventa una maniera diversa di perdurare nella vita» (Elogio dell’amore, p. 42).

È attorno a questa concezione dell’amore che si interrogano anche gli altri saggi presenti nel testo, che rappresentano uno dei luoghi più produttivi di discussione sul tema all’interno della letteratura badiousiana italiana e che qui non si ha modo di prendere in esame con l’attenzione che meriterebbero.

 

 

La provocazione con cui Massimo Recalcati si spinge a ricercare, al di là di Badiou (ma anche di Lacan), nel rapporto (e non nella sua assenza) la cifra del reale; l’utilizzo, da parte di Giovanni Bottiroli, delle logiche congiuntive al fine di mettere in discussione la visione rigida della logica promossa da quelle separative e la ripresa della nozione freudiana di identificazione, la quale, non riducendo il rapporto sessuale all’investimento libidico, ma includendo al suo interno, al contempo, momenti di identificazione, consentirebbe di respingere la tesi sull’impossibilità del rapporto sessuale; la sottolineatura, da parte di Franco Lolli ed Enrico Redaelli, nei loro saggi, di quello che, a detta di molti (tra cui il sottoscritto), costituisce l’elemento più debole della riflessione badiousiana – ovverosia una lettura per molti versi limitante dello statuto del godimento e della pulsione – e che, nel contesto di questo libro, emerge dalla sovrapposizione che opera tra la sfera della sessualità e quella della natura e dalla cesura troppo netta che sembra tracciare tra umano e animale; la riprova del carattere antisimmetrico della relazione amorosa, fornita da Silvia Lippi mediante l’interrogazione della struttura e del fine della relazione transferale, la quale non conduce verso una convergenza dell’oggetto, ma verso l’apertura dei desideri, presi nella loro singolarità radicale; la proposta di Federico Leoni di leggere il problema dell’inscrizione del «rapporto nell’elemento del non-rapporto», alla luce di quello, su cui la filosofia non ha mai cessato di interrogarsi, concernente la relazione tra l’evento – nome proprio di quanto si è denominato, di volta in volta, exaiphnes, chora, casella vuota, precursore oscuro… – e la sua scrittura. Tutte queste considerazioni mi sembrano confermare, da prospettive differenti, quanto una ripresa, sulla scia di Badiou, della riflessione lacaniana riguardante l’amore consenta di provare a pensare una serie di questioni che, perlomeno nell’opinione di chi scrive, dovrebbero essere al centro di qualsiasi riflessione filosofica che si voglia realmente tale.

Bisognerebbe allora prendere sul serio la capacità dell’amore di dischiudere una prospettiva radicalmente altra rispetto a quella propria del godimento fallico e della logica dell’eccezione, di cui non hanno mai cessato di nutrirsi e attorno a cui non hanno mai cessato di organizzarsi tanto il Discorso del Padrone e il Discorso dell’Università, quanto l’a noi più contemporaneo Discorso del Capitalista. Provare, su queste basi, a pensare che possa darsi un non-rapporto differente da quello su cui una logica dell’eccezione non può far altro che inciampare, rendendo visibile la propria inadeguatezza. Un non-rapporto che convoca di fronte a sé tutta quella serie di concetti e di strumenti che Lacan ha sentito la necessità di mettere in campo nell’ultimissima fase della sua riflessione, mettendo in discussione, da freudiano, la psicoanalisi freudiana nei suoi fondamenti. Il non-rapporto che descrive prima di tutto il genere di presa sul parlessere di quella serie disarticolata di significanti fatta di uno «sciame ronzante» (J. Lacan, Ancora, Einaudi, Torino 2011, p. 137), di «una serie di punti di impossibilità» (J.-C. Milner, L’amore della lingua, Spirali, Milano 1980, p. 115) che lo psicoanalista francese denomina lalingua e poi, di conseguenza, il tipo di relazione che intercorre tra il parlessere e il corpo che esso ha, il corpo che si gode.

È di fronte a tale non-rapporto, al contempo più originario e in grado di fare fuori una volta per tutte la questione dell’origine, che l’amore può porsi come alternativa alla logica dell’eccezione. E può farlo nella misura in cui decide di averci a che fare, invece di operare nei suoi confronti una forclusione silenziosa. Nella misura in cui decide di prodigarsi nel faticoso lavoro di (ri)scrittura, continua e incessante, delle forme di una mediazione, che rischia costantemente, da un lato, di irrigidirsi, dall’altro, di dissolversi. Un lavoro di annodamento e scioglimento dei nodi. Nella convinzione che, come mostrano bene i frammenti di esistenza descritti da Auden e Carver, ma, forse, ancora di più quelli attorno a cui si sviluppa tutto il teatro di Samuel Beckett, la verità sull’amore risieda in quel tentativo irrequieto, genuinamente gioioso, proprio perché perfettamente conscio della sua grandiosa tragicità, di zoppicare nel Due, di zoppicare insieme.