approfondimenti
CULT
In ricordo di Harold Bradley, “predicatore” di musica e diritti
Si è spento settimana scorsa il fondatore dello spazio trasteverino del “Folkstudio”, figura di prim’ordine che ha partecipato alle lotte per i diritti civili in Usa e animato le culture musicali “alternative” nel nostro paese. Un ricordo di chi ci ha collaborato da vicino
Harold Bradley è stato un artista e un personaggio affascinante e poliedrico, figlio di un’epoca di grandi trasformazioni, e nella sua lunga parabola esistenziale ha gettato dei semi nella nostra cultura musicale che, pur riconosciuti, sono a mio parere molto più importanti di quanto questo presente distratto ci permetta di percepire e che saranno maggiormente apprezzati forse in futuro. Ed è soprattutto per questo motivo che proverò, pur nei limiti della brevità di un articolo, a riassumere alcuni temi importanti legati alla sua figura e la sua opera, soprattutto per quello che concerne il mio vissuto personale, ma non solo quello.
Cercherò quindi di dare senso e struttura a ricordi personali e a riflessioni sulla nostra storia collettiva che in questo momento si affollano dentro di me, ispirati dalla sua recentissima perdita e dalla partecipazione all’intenso e toccante saluto che abbiamo fatto alla sua memoria il 30 aprile alla Chiesa degli Artisti a Roma.
Harold nacque a Chicago nel 1929, in una famiglia che lui definiva «arcobaleno», in cui scorreva sangue africano, europeo e nativo. A Chicago crebbe e compì i suoi studi, conseguendo una laurea in arte figurativa e facendo in tempo a realizzare una breve ma folgorante carriera ai vertici del circuito nazionale del football americano, vincendo titoli importanti con i Cleveland Browns.
Questa mitica squadra di Cleveland era famosa anche per essere composta tutta da giocatori neri e rappresentava quindi anche un simbolo vincente della comunità afroamericana in una città dove essa era praticamente la maggioranza assoluta, in un contesto in cui lo sport e la musica diventavano terreni in cui praticare forme di riscatto sociale per i neri americani, che si erano insediati con enormi sacrifici alla periferia di contesti urbani come quello e che vivevano una situazione di segregazione di fatto. La parità dei diritti civili era ancora di là da venire, per non parlare dei diritti sociali.
Immagine di Erik Dost (da commons.wikimedia.org)
Una comunità così oppressa e marginalizzata poteva reagire con un forte unità al suo interno, come storicamente fece, ma allo stesso tempo era fatalmente esposta ai più comuni fenomeni di degrado sociale, come la criminalità e, in quegli anni, al consumo delle droghe pesanti. Harold mi raccontava che sin da giovane, anche nella sua squadra di football, i suoi compagni lo chiamavano «the preacher» per i suoi sermoni contro l’uso delle droghe cui li sottoponeva spesso e volentieri.
Si era schierato da subito con quella parte della sua comunità che intendeva resistere al richiamo dell’abisso e voleva praticare quei valori sociali di coesione e di rispetto per la vita anche a dispetto di una società che faceva di tutto per negarglieli, una posizione che culminerà nel pensiero e nella prassi di leader come Martin Luther King.
Harold si trovò poi a trascorrere la maggior parte della vita adulta in Italia, ma non dimenticò mai queste sue radici culturali, che furono il suo punto di forza e determinarono in modo definitivo la sua personalità artistico musicale, ispirata a una missione di divulgazione della storia e dei valori rappresentati dal linguaggio popolare neroamericano. Come un ambasciatore della musica afroamericana iniziò a cantare a Perugia, dove si era trasferito alla fine degli anni ’50 per perfezionare i suoi studi di arte, approfondendo la tradizione italiana che amava tutta (da quella classica alle propaggini più contemporanee), e lì conobbe la moglie Hannelore, con la quale si trasferì a Roma nei primi anni ’60.
E a Roma, in via Garibaldi a Trastevere, Harold nel 1963 aprì il suo studio di pittura che divenne in breve tempo un punto di riferimento informale e cosmopolitico per artisti e musicisti che vivevano nella capitale o che erano di passaggio. La forma del club maturò naturalmente di lì a poco.
Era nato per caso, ma non a caso, il Folkstudio, il primo centro di cultura musicale alternativa rispetto a un panorama ufficiale o mainstream, come diremmo oggi, che a quei tempi contemplava nel suo orizzonte solo la tradizione classica colta e la canzone melodica e sentimentale che proponevano strutture con grande vetrina televisiva nazionale come il festival di Sanremo, (che ci perseguita anche oggi).
Certamente bisogna anche aggiungere che forme come il jazz e il folk venivano episodicamente avvistate dal pubblico italiano, perché la televisione di quei tempi, pur nei limiti del suo grigiore bacchettone e democristiano, assolveva al suo compito culturale di servizio pubblico molto, ma molto di più di oggi.
Non vi erano però fisicamente dei posti in cui si poteva vivere la viva realtà performativa di queste forme musicali, i cui luoghi di fruizione naturale non erano i teatri, con la loro rigida separazione spaziale tra pubblico e artisti, ma i piccoli club, dove la comunicazione umana era molto più stretta e inscindibile da quella spettacolare.
(immagine da commons.wikimedia.org)
Il club era quella particolare dimensione a misura d’uomo dove l’artista trovava un pubblico scelto di iniziati , un ambiente preciso nel quale ogni concerto diventava un evento esistenziale che lasciava una profonda traccia di musica e anche di rapporti umani che nascevano lì per lì, o che vi si consolidavano.
Il legame profondo di Harold con le radici della musica neroamericana inoltre portarono per la prima volta a Roma in forma permanente i codici e i rituali dell’empatia fisica e ritmica dei blues, dei worksong e degli spirituals antichi, e il pubblico romano iniziava grazie a lui a superare certe barriere culturali che aveva dentro e imparava a coinvolgere il corpo nell’ascolto e a battere il tempo con le mani “in levare”, come lui raccomandava sempre.
Tutto questo costituì, anche se in una nicchia cittadina, una ventata di novità e di autenticità in un ambiente come quello italiano che, non dimentichiamolo, stava sempre scontando un ritardo culturale dovuto all’asfittica chiusura di vent’anni di fascismo e il bisogno di aprirsi a nuovi linguaggi era forte e vitale.
In questo senso il Folkstudio fu il primo club italiano, e nacque per iniziativa di un uomo che veniva da quel nuovo mondo in cui nascevano non solo delle forme musicali nuove come il jazz e il blues, ma persino un’attenzione nuova e rivoluzionaria alle radici popolari delle musiche del pianeta.
E quest’ultimo è uno dei punti che mi sta più a cuore sottolineare e documentare. Il Folkstudio infatti viene soprattutto ricordato come la fucina artistica nel cui alveo si formò un’importante generazione di cantautori dei primi anni ’70, e parlo dei vari Venditti, De Gregori, Gaetano.
Ma questo avvenne dopo, nella gestione di Giancarlo Cesaroni. Senza nulla togliere a questa stagione e ai suoi protagonisti, bisogna dire che l’esperienza del Folkstudio di Harold Bradley, che va dal 1963 al 1968, non solo getta i semi più importanti per ciò che accadrà dopo, ma è direttamente collegato a fenomeni culturali più ampi di cui il cantautorato nostrano è stato un prodotto importante, ma di certo non l’unico. Ridurre tutto a questo ci riporta sempre di fronte allo specchio impietoso della superficialità con cui viene trattata la musica e i suoi significati sociali in questo paese.
Il Folkstudio di Harold rappresentò un faro, una porta aperta in quegli anni verso chiunque esprimesse musica popolare da tutto il mondo e da noi diede spazio a figure come Otello Profazio e Giovanna Marini che rivisitavano e valorizzavano il nostro folk regionale, solo per citare i nomi più importanti. Bisogna dire che tutto ciò non nasceva dal nulla, ma era il prodotto di un momento e di un movimento epocale che veniva da lontano.
Il fenomeno del Folk Revival ad esempio fu un elemento di importanza capitale nella musica del Novecento, e vale la pena citarlo per capire qualcosa delle ramificazioni culturali che portano al mondo che creò Harold nel primo Folkstudio, altrimenti si rischia di ridurre tutto a una dimensione di cronaca dei bei tempi andati in cui c’era quella passione musicale che oggi non c’è più o è molto ridimensionata.
L’America degli anni ’40 era un paese che aveva prodotto delle arti nuove che venivano dalla strada, e che esprimevano la forza innovativa dei linguaggi che nascevano dal basso e si chiamavano blues, jazz, tip tap, folk, spiritual.
Iniziava a farsi strada l’idea antiaccademica per cui non si poteva più dividere l’arte e soprattutto la musica nelle solite categorie (colta ed extracolta), ma bisognava studiare con pari dignità i linguaggi che venivano dal basso. Tutto è storicamente legato alle idee socialiste, nonché all’attivismo e alla passione di un uomo che diede un impulso eccezionale sia come studioso che come organizzatore a questa nuova visione culturale, che produsse una grande stagione di concerti di blues e di folk americano in tutto il mondo, oltre a sollecitare l’accademizzazione di una materia come l’etnomusicologia che entrava finalmente negli atenei universitari.
Alan Lomax (immagine da commons.wikimedia.org)
Quest’uomo si chiamava Alan Lomax. Preso di mira dal governo del proprio paese in quel periodo di paranoia anticomunista della storia americana che va sotto il nome di Maccartismo, Lomax si trasferì in Gran Bretagna, spostando le sue ricerche in quel territorio, in cui identificava aspetti importanti dell’humus della musica americana.
In quegli anni però compì anche un lungo viaggio in Italia, dove realizzò un biennio di importanti ricerche sul campo riguardo i nostri stili regionali.
Queste ricerche, oltre a conferire all’Italia il ruolo di terzo paese legato al Folk Revival, incoraggiò in ambito accademico figure come quella di Diego Carpitella, collaboratore di Lomax, che per primo ebbe a presiedere la nascente facoltà di etnomusicologia all’Università di Roma, e sollecitò la formazione e la motivazione di artisti e ricercatori come Giovanna Marini, la grande signora della canzone popolare e politica italiana, che era di casa al Folkstudio ma che si esibì anche al Greenwich Village, gomito a gomito con Pete Seeger, Bob Dylan e altri nomi importanti del folk rock americano.
E questo non per delimitare il ruolo di Harold a quello di organizzatore, per quanto benemerito, di uno spazio che ha dato voce a questo mondo in grande fermento. Partire da questo retroterra è importante anche per capire il suo personale e originale profilo artistico.
Harold Bradley era un discendente diretto della parte neroamericana di questo filone di folk, altamente politicizzato e legato alle storie e ai bisogni della gente, che era rappresentato da quello che è universalmente considerato il maestro di Dylan, Woodie Guthrie, dal già citato Pete Seeger (molto seguito invece da Bruce Springsteen) e da uno degli artisti più amati da Bradley, l’afroamericano Leadbelly.
Leadbelly era una figura enciclopedica della musica popolare afroamericana delle origini, in grado di cantare blues, ballate folk, prison songs, worksong e spiritual, e Lomax lo considerava a tal punto da esporsi di persona per farlo graziare e scarcerare nonostante il suo pesante curriculum giudiziario.
Divenne uno dei simboli del Folk Revival. Non è difficile ritrovare nella voce di Harold gli echi dello stile di Leadbelly, del quale tra l’altro interiorizzò il ruolo di divulgatore della cultura neroamericana e delle storie della sua gente.
Harold però aveva anche un forte carisma teatrale, aiutato anche dalla sua imponente fisicità, che rimandava a cantanti-attori come Paul Robeson, che negli anni ’60 era un’importante e fiera figura di artista e avvocato neroamericano impegnato in prima linea nelle lotte per i diritti dei neri. Harold mi parlò molto della sua ammirazione per quest’uomo. E Harold stesso ebbe dei ruoli importanti come cantante e attore in teatro, primo su tutti Shakespeare in Harlem con i testi del grande letterato afroamericano Langston Hughes, nel quale inscenava anche un colorito sermone che rimase per tutta la sua carriera nel suo repertorio e che è stato citato anche nella sua cerimonia funebre.
Langston Hughes (da commons.wikimedia.org)
Harold aveva un carisma anche tuonante a volte, ma era un uomo di una gentilezza estrema. Il pubblico lo amava e si faceva portare dove lui voleva. E lui lo portava a conoscere luoghi, suoni e forme apparentemente lontani, ma che esprimevano dei sentimenti e un’etica universali, e pedagogizzare il pubblico su questi valori era il suo principale impegno.
Era qualcosa a metà tra un predicatore e uno storyteller, un figlio di quella stagione di grande unità e solidarietà che tutta una parte del mondo fece propria nella direzione dei diritti civili e sociali della gente, un movimento epocale che al di là di differenze e sfumature culturali e politiche mise l’idea della gente oppressa in primo piano.
E questo è uno degli aspetti di cui dobbiamo più ringraziare quello strano secolo chiamato Novecento. Harold era uno strano religioso, cristiano, protestante e allo stesso tempo aperto alle diverse culture e confessioni religiose.
Il suo rapporto con la musica religiosa, con gli spirituals antichi che cantava e che ha insegnato a tanti come me, era sempre profondamente connesso con l’aspetto più combattivo e comunitario, quello delle lotte per i diritti civili che portavano alcuni di questi brani a essere cantati nelle prime file delle manifestazioni antirazziste, brani come Freedom. Harold aveva sempre molto a cuore questo aspetto e non lo disgiungeva mai da quello sacro e spirituale. Fu proprio l’urgenza del palesarsi di questi fermenti sui diritti civili che lo portarono, nel 1968, a tornare a Chicago e a occuparsi di tematiche sociali come artista e insegnante di disegno anche nelle carceri.
Da lì in poi il Folkstudio poteva far sbocciare i frutti che lui aveva piantato. Ma ci sono altre due cose da citare sul “suo” Folkstudio per avere un quadro completo. Una si chiama “Folkstudio Singers”, una creatura sua ma che fu poi portata avanti da altri, i grandissimi cantanti e ballerini Archie Savage e i fratelli Hawkins. I Folkstudio Singers furono in assoluto e per molti anni, l’unico gruppo spiritual gospel di neroamericani residenti in Italia, divulgatori di una musica che fino alla fine degli anni ‘80 arrivava solo una volta all’anno sui palchi di Umbria Jazz.
Personalmente ricordo ancora l’impressione che mi fece quando ero bambino un piccolo servizio su di loro al telegiornale, con Savage che cantava Michael row boat ashore. Si trattava di suoni totalmente inediti per l’epoca, semi che ingeneravano curiosità culturali profonde che si sarebbero in seguito legate ad altre scoperte.
Questo fu il ruolo di Harold. Dirci che certe cose esistevano e si potevano amare come e anche più di ciò cui eravamo abituati. Pensiamo ad esempio al jazz. Il Folkstudio fu il primo spazio in cui si potevano esprimere stabilmente i jazzisti romani. Non solo.
Non c’era una divisione in parrocchie a compartimenti stagni come avvenne poi in seguito. Si potevano esprimere tutte le correnti stilistiche e i più disparati punti di vista artistici e non è un caso che al Folkstudio un bel giorno arrivò Massimo Urbani, il maggiore talento jazzistico di tutti i tempi che il nostro paese abbia mai avuto, portato da Mario Schiano, che aveva il suo spazio lì per il suo free jazz informale e folkeggiante. Ma c’era stato molto spazio per tante interazioni di jazz moderno e classico, in particolare negli anni ’60 grazie ad artisti come Marcello Rosa e Francesco Forti.
Trastevere (da commons.wikimedia.org)
E fu proprio Francesco Forti a battezzare la prima esibizione di Harold nel 1987, quando tornò a Roma inizialmente per una breve vacanza, per poi restarci fino all’ultimo. Francesco, oltre a essere un musicista, era un giornalista e un conduttore radiofonico di jazz alla radio nazionale ed era stato forse il mio più importante pigmalione musicale. Quando in quell’anno Giampiero Rubei, grande e storico organizzatore del jazz italiano incaricò Francesco di tenere 5 lezioni all’Università di Roma La Sapienza sui vari stili storici di questa musica, mi chiese di partecipare alla prima serata, quella dedicata agli stili originari della musica neroamericana.
Francesco mi avvertì due giorni prima che bisognava accompagnare su due brani Harold Bradley, una grande responsabilità anche quella. E così conobbi Harold, direttamente sul palco. Con me al piano e Francesco al sax e al clarinetto c’erano il compianto Pino Sallusti al contrabbasso e mio fratello Antonio Donatone. Harold si ricordò sempre di questa esibizione, così come del fatto che in quel momento io ero bloccato dal servizio militare ed ero riuscito a liberarmi esclusivamente per quel concerto.
Qualche tempo dopo si fece dare il mio numero, mi contattò e mi disse che avrebbe avuto sempre presente il mio talento e che, finito quel periodo difficile per me, avremmo sicuramente fatto qualcosa insieme. Ma questo non può stupire più di tanto chi lo conosceva, era uno dei tratti caratteristici della sua grande umanità.
In ogni caso da lì a breve divenni uno dei suoi più assidui accompagnatori. Insieme abbiamo suonato nelle più svariate situazioni, da posti molto piccoli al Giubileo degli Sportivi allo Stadio Olimpico di Roma in Eurovisione davanti a papa Woytila. In quella dirittura finale degli anni ’80 Harold fece in tempo a intercettare anche quel momento di grande spinta del fenomeno della musica dal vivo in Italia che lui stesso aveva propiziato con l’avventura del Folkstudio e con la sua generosità e il suo irrefrenabile attivismo fece di tutto e di più fino a che la sua grande energia lo sorresse.
Ebbe anni di grande esposizione nei festival con la Jonas Blues Band , una versione ricca e pulsante di quel gruppo con l’addizione dei i fiati che valorizzava al massimo la vocalità ormai matura e adatta a qualsiasi contesto di Harold. Creò i Bronzville American Gospel, nei quali il sottoscritto suonò il piano spesso e volentieri.
Suonò per tante situazioni sociali e solidali, suonò per Nelson Mandela ( cui assomigliava tra l’altro anche fisicamente), incoraggiò tanti di noi che rappresentiamo l’ambiente adulto attuale di questa musica oggi, ci trasmise i valori espressivi, etici, culturali e scenici di quest’arte, ci insegnò a indossare un vestito elegante e a servire sempre con onestà il pubblico. Come faceva lui, che dava sempre il massimo, sia che suonasse all’Auditorium, sia che suonasse in un buco, rimanendo sempre gentile con tutti, e sempre connesso con il lato solare e positivo dell’esistenza.
Mi è capitato di accompagnarlo a casa alle 5 del mattino dopo una serata fuori Roma e di vederlo, non pago di quello che già aveva vissuto, attaccare bottone col panettiere che aveva appena aperto la sua bottega.
Perché amava la vita e amava le persone, dava loro importanza, si ricordava i nomi e le loro storie. Non tutti hanno capito la sua grandezza artistica, secondo me. In Italia si passa spesso da un estremo all’altro e, se fino ad un certo punto anche per un fatto ideologico tutti davano grande importanza alle radici popolari della musica, dagli anni ‘80 in poi molti hanno cominciato a snobbare queste forme, usando le stesse costruzioni mentali preconcette ma basate su presupposti opposti. Io vi posso dire che Harold Bradley è stato un grande interprete di blues, spiritual e folk, il più grande che abbiamo avuto in Italia.
E posso dirvi, se la mia esperienza ha un valore, che nella jam session che si tenne per ricordare Tony Scott, un altro grande musicista che abbiamo avuto a Roma, Harold fu capace di cantare una delle più belle e intense versioni di Lush life (una delle song jazzistiche più ricercate che siano state mai scritte) che io abbia mai sentito in vita mia.
Pinuccio Sciola (commons.wikimedia.org)
L’ultima volta che sono andato a trovarlo a casa sua insieme alla mia compagna ci ha voluto mostrare un documentario su Pinuccio Sciola, il grande artista sardo che portò il muralismo in Italia negli anni ’60 e che aveva concentrato la sua ricerca sulle cosiddette “sculture sonore”. Negli ultimi tempi aveva ripreso il filo della sua ricerca in campo figurativo e sognava un’opera realizzata con materiali di riciclo. Non è riuscito a realizzare questa sua ultima aspirazione
Ma una vita anche anagraficamente lunga non potrà mai bastare a un’artista che si sente più parte di un’eternità che del tempo preciso che gli è assegnato di vivere.
E gli uomini come lui non muoiono veramente ma rimangono parte di questo flusso senza fine e continuano a darci cose che avranno lo stesso valore se non di più, a patto che sapremo dargli importanza nel futuro. Io posso dirvi che il suo suono rimarrà sempre con me e mi ispirerà sempre.
L’autore dell’articolo è bluesman, pianista, cantante ed è stato collaboratore di Harold Bradley
Immagine di copertina da commons.wikimedia.org