EUROPA
«Ricordare significa lottare». Giornate di solidarietà per l’antifascismo russo
Nell’anniversario dell’uccisione degli attivisti di sinistra Stanislav Markelov e Anastasia Baburova, il movimento antifascista russo lancia un appello di sostegno internazionale
Quando il dovere della memoria diventa una dolorosa urgenza per il presente: il movimento socialista russo (Российское социалистическое движение), organizzazione fondata nel 2011 che raccoglie molte delle forze di sinistra radicali del paese, ha lanciato un appello per la settimana dal 19 al 24 gennaio in cui invita a compiere gesti e iniziative di solidarietà nei confronti di antifascisti e antifasciste della Federazione nell’anniversario dell’assassinio dell’attivista di sinistra Stanislav Markelov e della giornalista e anarchica Anastasia Baburova (entrambi uccisi nel 2009 a colpi di pistola da militanti neonazisti).
Si tratta di una ricorrenza che, da dodici anni a questa parte, ha sempre visto svolgersi manifestazioni e presidi di stampo anti-militarista, anti-razzista e anti-capitalista, soprattutto a Mosca, ma che in questo momento acquisisce chiaramente una diversa sfumatura per via dell’aggressione da parte dell’esercito di Putin alla vicina Ucraina che è iniziata lo scorso 24 febbraio.
Non solo può essere utile ricordare, infatti, che Baburova era di origini ucraine: nata nel 1983 nella città di Sebastopoli in Crimea, si era avvicinata al movimento anarchico e aveva intrapreso lotte di stampo ecologista (come la partecipazione a manifestazioni contro l’abbattimento della foresta Khimki, nella “cintura” verde della capitale russa) per poi lavorare a periodico “Novaja Gazeta” e occuparsi proprio di inchieste sulle organizzazioni di estrema destra in Russia. Soprattutto, a causa della guerra in corso, molti antifascisti e molte antifasciste hanno deciso di emigrare per scampare alla repressione statale che si sta abbattendo sul movimento pacifista e più in generale sull’opposizione politica (l’associazione indipendente per i diritti umani Ovd-Info calcola oltre 16mila arresti per “posizioni contrarie alla guerra” dallo scoppio del conflitto a oggi): è di poche settimane fa, per esempio, la notizia della detenzione e del pestaggio del politico socialdemocratico e sindacalista Mikhail Lobanov, che si era ripetutamente espresso contro l’“operazione speciale” voluta da Putin.
L’appello di quest’anno ha dunque una forte connotazione internazionale e internazionalista: uno sforzo di solidarietà europea, mentre l’intero continente sembra sprofondare sempre più in un conflitto di lunga durata che in questo momento trova la sua linea del fronte nella regione del Donbass.
In questo senso, è significativo che anche sigle ed esponenti della nuova sinistra ucraina – come il gruppo antiautoritario Solidarity Collective, impegnato fra le altre cose a sostenere le forze armate del proprio paese, o il movimento Sotsialny Rukh – hanno ripreso l’appello. Altre manifestazioni si sono svolte presso l’ambasciata russa a Berlino. «Oggi, mentre il regime di Putin ha invaso l’Ucraina e ha scatenato una repressione senza precedenti contro i suoi stessi cittadini che si oppongono alla guerra, la data del 19 gennaio assume un nuovo significato», scrivono i socialisti e le socialiste della Russia nel loro appello. «Allora il pericolo era dovuto a gruppi neonazisti, che operavano spesso grazie alla connivenza delle autorità. Oggi, l’ideologia e la pratica delle forze di estrema destra è diventata l’ideologia e la pratica dello stesso regime russo, che si sta rapidamente trasformando in un regime fascista nel corso della sua invasione dell’Ucraina».
(proteste del 2014, da commons.wikimedia.org)
Controrivoluzione preventiva
Mentre nell’ultimo anno sui media italiani e occidentali si è discusso molto delle componenti di estrema destra presenti nella società ucraina e nell’esercito di Kyiv, meno si è forse sottolineato come la connivenza con forze neonaziste e ultranazionaliste sia una matrice non di poco conto nel consolidamento del sistema di potere putiniano in Russia. L’omicidio di Stanislav Markelov e Anastasia Baburova del 19 gennaio 2009 venne effettuato da Nikita Tikhonov e Yevgenia Khasis (arrestati a novembre dello stesso anno), militanti che il processo ha indicato come legati al gruppo di estrema destra Russky Obraz (“Immagine russa”). In qualità di avvocato, Stanislav Markelov aveva assistito antifascisti, sindacalisti e attivisti ecologisti che molto spesso erano vittime della violenza esercitata dalle forze neonaziste e ultranazionaliste: la sua uccisione rappresentava verosimilmente una vendetta per questa attività.
Ma non era, purtroppo, un caso isolato: intimidazioni, pestaggi e appunto omicidi mirati avevano già raggiunto anni prima personalità “celebri” come la giornalista Anna Politkovskaja, che lavorava per lo stesso giornale di Anastasia Baburova (la quale fu tra l’altro definita ella stessa “erede della Politkovskaja”), oppure l’etnologo e difensore dei diritti delle minoranze Nikolai Girenko così come in seguito si abbatteranno su tanti altri attivisti, giornalisti e difensori dei diritti umani, tra cui per esempio Natal’ja Ėstemirova, che aveva invece collaborato con Stanislav Markelov.
In generale, stando ai dati del Sova Center, fra il 2000 e il 2017 in Russia si sono verificati 495 attacchi mortali da parte di gruppi e sigle di estrema destra nei confronti di attivisti e attiviste di sinistra, membri della comunità Lgbt, migranti, in cui hanno perso la vita 458 persone (un numero che lo storico e ricercatore Johannes Due Enstad, in questa analisi, asserisce essere «incomparabilmente superiore a quello di tutti gli altri paesi a ovest di Mosca»).
Russky Obraz, con la sua ala “militare” Born (il cui leader Ilya Goryachev, giornalista e attivista conservatore, è sospettato di aver avuto contatti col Cremlino), Russkoe Natsionalnoe Edinstvo (“Unità Nazionale Russa”), Slavyanskoe Edintsvo (“Unità Slava”, che fra gli altri ha assassinato il giovane antifascista Alexander Ryukhin), fino ai “famigerati” Schulz-88 che fra il 2001 e il 2004 hanno condotto diverse azioni violente soprattutto contro migranti e minoranze etniche: sono alcuni dei collettivi della galassia di estrema destra che hanno agito sul territorio russo. Il tutto in un clima, se non di impunità, quantomeno di tendenziale lassismo da parte dello stato e dei suoi rappresentanti.
(il simbolo di Nashi, da commons.wikimedia.org)
Anzi, in un tentativo crescente, ancorché complesso e talvolta contraddittorio, di cooptazione e strumentalizzazione delle forze di estrema destra in chiave di consolidamento del regime. Come sostiene il politologo Robert Horvarth (autore di due importanti studi sull’argomento, Putin’s Preventive Counter-Revolution e Putin’s Fascists): «[il regime di Putin] ha utilizzato in primo luogo la minaccia neonazista per giustificare l’adozione di leggi contro l’estremismo, una richiesta di lungo corso da parte dei liberali russi. Alla fine, però, queste misure legislative sarebbero state usate per perseguire le forze democratiche del paese. Secondariamente, il Cremlino adottò la strategia del “nazionalismo sotto controllo”, un tentativo di cooptare e mobilitare militanti ultra-nazionalisti, inclusi i neonazisti, come contrappeso alla coalizione anti-putiniana composta da democratici e forze della sinistra radicale che stava emergendo in quel momento».
In seguito alle cosiddette “rivoluzioni colorate” della Georgia (2003) e del Kirghizistan (2005) ma soprattutto dopo la “Rivoluzione Arancione” in Ucraina del 2004, fra gli apparati di potere e i media governativi russi si diffuse una forte isteria per la possibilità che simili processi potessero prendere piede anche all’interno della Federazione e mettere così in discussione il governo di Putin.
È in questo contesto che – attraverso il lavoro propagandistico e di agitazione sociale da parte di alcuni “tecnologi politici” vicini al Cremlino come Vitalij Tretʹjakov, Vyacheslav Nikonov, Sergej Markov o Gleb Pavlovskij – vengono create formazioni come quella di Nashi, movimento giovanile filogovernativo che aveva il compito di mobilitare la società civile dal basso verso il sostegno al governo di Putin e soprattutto di contrastare, spesso con la violenza fisica, manifestazioni e iniziative antifasciste o dell’opposizione politica. Similmente, anche se in maniera più indipendente, agiva anche la Gioventù Eurasiatica fondata dall’ormai “celebre” Aleksandr Dugin. Ma soprattutto è in questo contesto che, a livello ideologico, vengono elaborate narrazioni e teorie sulle “minacce esterne” e sui tentativi di “smembramento della Federazione Russa” da parte dell’Occidente che ritroviamo ancora oggi, talvolta esposte anche da esponenti di primo piano del governo.
Riassume sempre Horvarth: «Stando al copione disseminato con monotona costanza da tecnologi politici, giornalisti e responsabili della sicurezza pro-Cremlino, la sovranità della Russia doveva essere protetta contro la minaccia imminente di una rivoluzione ispirata dall’Occidente i cui leader avrebbero imposto il proprio “dominio esterno” sulla popolazione indifesa. L’identità dei “cattivi” variava a seconda dei pregiudizi e del campo di competenza dei commentatori. I tecnologi politici tendevano a enfatizzare la minaccia posta dai diplomatici e dalle associazioni filantropiche. I responsabili della sicurezza si focalizzavano sulle macchinazioni delle agenzie di intelligence. Ma, a ogni modo, c’era un vasto consenso fra i protettori del regime che la minaccia rivoluzionaria arrivava dall’esterno».
In altre parole, a partire dal 2004/2005 il sistema di potere putiniano – attraverso riforme costituzionali, leggi repressive, creazione di movimenti giovanili di agitazione sociale e cooptazione di gruppi di estrema destra e neonaziste – ha messo in atto una sorta di “controrivoluzione preventiva” che ha fortemente indebolito il movimento antifascista e gli oppositori del paese e che, da un punto di vista simbolico, è culminata nell’assassinio di Stanislav Markelov e Anastasia Baburova del 19 gennaio 2009.
Da quel momento, per la sinistra russa così come per la sinistra di buona parte dello spazio post-sovietico «ricordare significa lottare» (come recita lo slogan dedicato alla giornata di commemorazione ed esposto su vari striscioni): la memoria di chi ha incarnato il dissenso verso il regime di Putin, delle sue parole e delle sue azioni, è anche la memoria di lo specifico sistema di potere russo si è costruito e di come è andato via via incancrenendosi fino a “esplodere” in una guerra d’aggressione plateale e sanguinaria come quella mossa in questo momento nei confronti del popolo ucraino.
(Sergey Rodovnichenko, da commons.wikimedia.org)
Politica degli spettri
Perché, se è vero che Putin e le élite a lui vicine certamente “leggono” quanto accade sullo scenario internazionale e agiscono di conseguenza, è altrettanto vero che il carattere paranoico e ultra-conservatore del suo regime si è andato forgiando anche se non soprattutto in opposizione ai “contropoteri” messi in atto dalla società civile e alle manifestazioni di dissenso interne al paese. Molto spesso, anzi, sopravvalutando e sovraccaricando di significato ogni piccolo segnale di divergenza e di critica. In parziale antitesi al concetto di “controrivoluzione”, ha scritto infatti l’attivista e politologo Ilya Budraitskis nel suo Dissidents among dissidents con parole che potrebbero ora suonare profetiche:
Le misure anti-terrorismo e le restrizioni delle libertà civili e politiche successive al 2004 (che risentivano molto anche dello shock della strage di Beslan e della seconda guerra cecena), la cooptazione di gruppi di estrema destra e gli omicidi mirati nei confronti di giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani, la successiva svolta repressiva dopo le proteste di piazza Bolotnaya del 2011/2013 con l’introduzione di leggi contro la “propaganda gay”, contro gli “agenti stranieri” e di depenalizzazione della violenza domestica, l’annessione della Crimea e l’istigazione della guerra del Donbass del 2014 (in cui, peraltro, hanno giocato un ruolo alcune delle sigle di estrema destra sopramenzionate), insomma, hanno rappresentato un continuo e schizofrenico “arroccarsi del potere putiniano su se stesso”, in una lotta contro spettri rivoluzionari che erano spesso frutto della sua immaginazione e che, per esempi, nelle recenti e deliranti parole di Lavrov assumono l’aspetto di una «soluzione finale elaborata dall’Occidente contro la Russia».
Talvolta, però, come nel caso di Stanislav Markelov e Anastasia Baburova questi “spettri” hanno nomi e corpi concreti, strappati alla vita dalla violenza di stato. E sono questi nomi e corpi assieme a quelli di chi, nella lotta, li ricorda – ora costretti all’esilio, incarcerati o ridotti al silenzio – che potrebbero ancora turbare i sogni di conquista del Cremlino.
Il sito Posle.media ha ripubblicato e tradotto un testo di Stanislav Markelov che si può trovare qui
Domenica 22 gennaio si terrà una diretta Facebook sul tema con Ilya Budraitskis del Movimento Socialista Russo a questo link
Immagine di copertina: elaborazione grafica originale da commons.wikimedia.org