ITALIA

Revenge porn «isolare gli uomini che condividono video e foto, non le donne»

La condivisione non consensuale di foto e video sessualmente esplicite è un reato nuovo che si stenta a riconoscere come violenza di genere. Intervista a Giulia Vescia, avvocata che collabora con la casa delle donne Lucha Y Siesta. Verso il 25 novembre giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne

Si dice “revenge porn” quando video e foto intimi vengono condivisi in chat di amici. Nell’ultimo caso salito alle cronache la moglie di uno degli amici ha riconosciuto la maestra d’asilo dei propri figli nei video e ha girato il materiale alla preside della scuola, che ha licenziato la vittima, impiegata in una scuola di Torino. Lei coraggiosamente ha portato in giudizio chi ha diffuso e condiviso video e foto senza il suo consenso, e la preside della scuola per il licenziamento.

Pochi giorni fa è stata scritta una lettera da più di duecento giornaliste, politiche, ricercatrice che ringrazia la maestra: «Grazie perché non sei stata zitta, come tanti avrebbero voluto. Grazie perché non ti sei arresa e a chi ti ha detto che avresti dovuto provare vergogna hai risposto rendendo pubblica questa storia, in cui a vergognarsi dovrebbero essere tutte le altre persone coinvolte». La diffusione non consensuale di foto e video intime è un problema che rientra nella più ampia questione della violenza di genere, sui cui in tante si stanno mobilitando verso il 25 novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne. Il movimento femminista Non Una di Meno organizza per quel giorno e per sabato una serie di iniziative sia online che per strade e piazze (qui l’evento).

Abbiamo intervistato Giulia Vescia, avvocata, che si occupa appunto di violenza di genere e ha collaborato alla scrittura dell’esposto per i casi riguardanti la diffusione non consensuale di immagini intime nelle chat di Telegram dello scorso maggio.

 

Quello che comunemente viene definito revenge porn è la condivisione non consensuale di foto e video intime, in che modo questo comportamento è sanzionato dal nostro codice?

Questo reato esiste da poco più di un anno. È stato introdotto nel nostro codice con l’approvazione del Codice Rosso, pacchetto approvato nel 2019 all’unanimità dal Parlamento per contrastare la violenza di genere in tutte le sue varie sfaccettature. L’articolo 612-ter, di cui si è iniziato a discutere in seguito al suicidio di Tiziana Cantone, parla di «diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate» e punisce con la reclusione da 1 a 6 anni chi dopo averli realizzati o dopo averli ricevuti consegna, pubblica o condivide questo materiale dal contenuto sessualmente esplicito senza il consenso di una delle persone coinvolte o di entrambi.

Ovviamente questo reato è aggravato qualora i fatti siano commessi da un ex compagno o un ex marito che nel momento in cui la storia finisce decide di pubblicare il materiale sessualmente esplicito, che la coppia aveva consensualmente deciso di produrre nel momento in cui la relazione era in itinere.

 

La diffusione non consensuale di immagini intime è dilagante, eppure pochissimi di questi casi vengono denunciati e portati di fronte al giudice. Perché?

Pochi vengono denunciati, e quelli che lo sono diventano dei casi eclatanti perché esiste ancora un atteggiamento molto giudicante nei confronti della donna che si presta alla realizzazione di questo materiale sessualmente esplicito. Quindi la donna si sente in una posizione di isolamento, una posizione di inferiorità, una posizione difficile per poter prendere coscienza e dire «io ho subito un reato lo voglio denunciare».

Difatti tutti i casi noti sono saliti alle cronache non tanto perché sono stati condivisi video e foto sessualmente espliciti senza consenso, ma perché la donna ha subito delle conseguenze pesantissime a seguito della condivisione di questi materiali. Tiziana Cantone si è suicidata, la maestra di Torino è stata licenziata, e le donne coinvolte nelle chat di Telegram a maggio sono state identificate come donne poco raccomandabili e di facili costumi perché avevano deciso di produrre e realizzare del materiale nei loro momenti più intimi.

Purtroppo la condivisione non consensuale di materiale intimo viene ancora oggi difficilmente riconosciuta come violenza di genere. Per questo le donne si sentono molto deboli nel momento in cui decidono di denunciare e molte alla fine rinunciano. Questo accade spesso anche nei casi di stupro e altre violenze di genere, ma negli anni, anche grazie all’azione dei movimenti femministi, si è lavorato molto per diminuire la colpevolizzazione della vittima.

 

Quali sono i numeri di questo fenomeno? 

Purtroppo quando si parla di violenza contro le donne è sempre difficile fare una stima, non possiamo contare su numeri certi perché molte donne non denunciano. Ma tantissime donne ancora oggi fanno tanta fatica a tirare fuori questo vissuto per poi doverlo difendere nelle aule di tribunale, perché ammettere di aver realizzato dei video sessualmente espliciti ti espone a un giudizio devastante.

Quindi gran parte di questo fenomeno è sommerso, e fare delle stime è veramente molto complesso. È chiaramente in espansione, soprattutto in seguito alla diffusione dei social media, e più recentemente di chat come Telegram, che non controlla in alcun modo i contenuti condivisi sulla piattaforma. Ma anche perché gli uomini che agiscono questo tipo di comportamento si muovono in un clima di impunità totale, mentre si mette sempre sotto accusa la donna che ha realizzato i video o le foto.

Anche in questo ultimo caso di Torino, l’ex partner che ha condiviso il video si dovrà fare un anno di servizi socialmente utili, mentre lei viene licenziata e dovrà affrontare delle cause molto lunghe e pesanti per essere eventualmente reintegrata. Alla fine chi sembra punita è la donna, e questo legittima il comportamento di questi uomini.

 

 

Non solo si parla poco di questi casi, ma anche male. La stessa definizione di revenge porn è molto problematica, dato che non possiamo accettare che si parli di vendetta né di materiale pornografico…

È molto importante comprendere che la donna ha prestato il consenso a realizzare quel materiale intimo. Ma il suo consenso si è fermato alla realizzazione e non alla condivisione, e di questo nessuno parla. La realizzazione non è la condivisione è necessario far comprendere questa differenza.

Il consenso non è dato una volta e per sempre, ma deve essere dato in ogni momento della relazione. Io nella mia relazione intima posso dare il consenso a una miriade di comportamenti che però voglio che rimangano intimi. Nel momento in cui questi comportamenti vengono resi pubblici senza il mio consenso io devo essere tutelata socialmente, non additata come colpevole.

È, inoltre, importante che all’interno di queste chat di calcetto chi riceve i video o foto, non si limiti a chiudere la chat e far finta di non aver visto, ma interrompa attivamente la condivisione. La norma sotto questo punto di vista è ben scritta, perché punisce anche persone terze che condividono il materiale.

 

Interrompere la catena e non perpetrare una cultura dello stupro per cui azioni violente degli uomini sono accettate socialmente…

Non solo sono accettate socialmente, ma alimentate. Infatti, chi, in queste chat, non ride del materiale condiviso senza consenso viene stigmatizzato come poco simpatico, bigotto, chiuso. Mentre, invece, prendere posizione in quanto uomo all’interno di queste chat è importante perché inizia a isolare l’uomo che ha condiviso non consensualmente video o foto e non la donna. Purtroppo per fare questo c’è bisogno di un grande cambiamento culturale.

 

Immagine di copertina da archivio di DINAMOpress