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Rest in Jazz

Lo scorso aprile è uscito in sala il film Back to Black, diretto da Sam Taylor-Johnson e basato sulla vita della cantautrice Amy Winehouse. Dall’analisi di questo nuovo prodotto cinematografico e del precedente documentario di Asif Kapadia, si vuole mettere in luce il valore artistico e umano di una donna rivoluzionaria

No spoiler, il finale lo conosciamo tutti: alla fine lei vive per sempre.

Il film d’esordio di Sam Taylor-Johnson del 2009, è Nowhere Boy, un ritratto dell’adolescenza di John Lennon abbastanza accurato, anche se prevedibile, talvolta sfocato e poco audace. In fin dei conti, raccontare la vita privata di Lennon è un compito insidioso e per nulla semplice. La regista tenta nuovamente la strada del biopic con Back to Black, questa volta ripercorrendo la storia di Amy Winehouse.

Dopo aver visto il film, si avverte un senso di vuoto, probabilmente perché un superficiale demerito di Back to Black è quello di aver disatteso innumerevoli aspettative. Andando più a fondo, sembra quasi che la rappresentazione proposta dal film si muova nello strenuo tentativo di un ridimensionamento dell’immaginario su Amy Winehouse, quale si era andato definendo con il documentario del 2015 di Asif Kapadia. Le cause di questo vuoto, sono le tante mancanze a cui il film del 2024 ci costringe.

Non mi soffermerò sugli aspetti attoriali e vocali, sull’impraticabilità di rivestire un ruolo così gigantesco per qualsiasi attrice, anche per la poco nota Marisa Abela, la quale interpreta con sommo impegno ogni brano di Winehouse, dopo lunghe sessioni di canto e un sempre malsano dimagrimento imposto dalla regia. Tuttavia, questa è l’industria dello spettacolo e l’importante non è mai la salute. Vorrei, invece, mettere in luce quelli che io considero le grandi assenze e gli spigoli smussati di quest’ultimo film, perché è proprio ciò che è stato trascurato la parte più preziosa di questa storia.

Back to jazz

Nel marzo del 2011, agli Abbey Road Studios di Londra, Amy Winehouse e il cantante statunitense Tony Bennett incidono uno dei brani simbolo del genere jazz, Body and Soul. In quell’occasione, davanti a una Amy visibilmente emozionata di duettare con uno dei suoi idoli musicali, Bennett le fa notare, riferendosi al suo canto che “migliora ogni volta. […] Sono come te, ogni volta è diverso”. Lei concorda “Sì, non è mai la stessa cosa per due volte”. Ed era proprio così. Amy era un contralto con un timbro caldo e sporco, possedeva destrezza d’improvvisazione, un’incredibile capacità di movimento nel fraseggio jazz sulla melodia principale, spostandosi spesso tra note gravi e ingrossate e note acute. Una voce di petto unica, dal tono quasi sguaiato, a volte rauco, sempre penetrante. Un’ispirazione, per lirismo e vocalità. Un’attitudine che rendeva le sue esibizioni live sempre diverse.

Tanti anni fa, un mio amico mi fece notare che il tono della mia voce era stato considerato dai suoi amici aggressivo e impetuoso. Non nego che dopo un primo momento d’indifferente sufficienza, m’indignai. Perché il mio tono era stato considerato feroce? E come è possibile che io non ne avessi minimamento percepito la gravità? Ero convinta di aver utilizzato il mio solito tono di voce, quello che mi porto dietro da sempre. Per quale ragione in quella situazione non era andato bene? Dopo aver chiesto al mio amico le ragioni di un giudizio tanto inclemente, lui mi rispose: «Ma cosa ti importa! Lasciamoli stare nella loro pacatezza borghese, a parlare con le loro voci fievoli».

Quest’episodio, apparentemente inconsistente, fece, tuttavia, aprire una finestra sul mio passato e pensai a tutte le volte che mi era stato detto di abbassare la voce, di parlare con un tono più composto. Ripensai anche ai miei incubi ricorrenti, i peggiori dei quali sono quelli in cui vengo colta da afonia.

Si considera la voce umana come una sorta di ponte tra il corpo e lo spirito (body and soul, appunto) che si fa carico di tutto il nostro portato emotivo. Non dubito che la mia voce possa essere terrificante, a volte. È vero, inoltre, che la voce femminile trasmette scomodità e turbamento quando è troppo udibile, o quando esce fuori dai canoni. Se pensiamo a Betty Carter, grandissima improvvisatrice e compositrice, non aveva di certo una voce rassicurante, ma fu proprio quel timbro soffiato e tendenzialmente calante, unito alla padronanza dello scat, tutto incentrato sulla ricerca dei suoni giusti, a farne una grande e inimitabile interprete.

Ricordo che osservando Amy Winehouse, apprezzavo quell’attitudine provocatoria, la mancanza di filtri, quel senso di liberazione che mi trasmetteva il suo timbro. In fin dei conti, un po’ era merito del jazz, un genere spontaneamente collegabile a un ideale di liberazione e libertà, emancipazione, riscatto. Un po’, il fatto che fosse una donna a servirsi di quel genere, contribuiva a demolire un altro pezzetto di quel pantheon dei giganti della musica tipicamente maschile che aveva sempre mantenuto un’ombra di pregiudizio di genere.

Sotto alcuni aspetti Amy Winehouse è riuscita nel difficile compito di creare qualcosa che si pensava non fosse più possibile. Con il suo jazz ibrido e innovativo, restituisce al mondo degli anni 2000 la musica dei ’50, permeata però di una nuova linfa vitale, fatta di contaminazioni moderne.

Sulla scena internazionale, Winehouse si inserisce all’interno di una nuova ondata di musica soul britannica. Una British soul invasion, anche detta Female invasion poiché il british soul degli anni 2000 è caratterizzato da molte artiste che spopolano nelle classifiche americane (Joss Stone, Leona Lewis, Paloma Faith, Florence Welch, Adele e molte altre).

Ma, al principio di tutto c’era il jazz e questo il film Back to Black lo ripete spesso, per lo più associandolo all’influenza del padre, personaggio qui fortemente “riabilitato”, rappresentato come figura amorevole e vittima delle abitudini autodistruttive della figlia. Un ritratto, insomma, incompatibile con le altre verità che emergono su questo particolare rapporto padre-figlia che nel documentario di Kapadia appare, invece, in tutta la sua disfunzionalità. Tuttavia, ciò che più mi delude della narrazione di Sam Taylor-Johnson su Amy e il jazz è l’assenza nella storia del rapporto che la cantante aveva con i musicisti della sua band, i quali la accompagnarono dall’inizio della sua carriera fino alla morte. Debole il riferimento alla sua evoluzione musicale e artistica, assente il duetto con Tony Bennett. Viene meno, insomma, la rappresentazione di quel rapporto peer to peer, da pari a pari: una definizione che la musicista Maria Pia De Vito, in un’intervista su jazz e femminismo, utilizza per spiegare il grande successo di Ella Fitzgerald e Billie Holiday in un mondo musicale fortemente maschilista. Il jazz è fatto di interconnessioni tra elementi paritari in dialogo tra loro da cui genera il suo grande potenziale rivoluzionario. Nel jazz «esiste una cosa che si chiama interplay», spiega la cantante, «il musicista fa esercizio di indipendenza e autoperfezionamento mentre è in dialogo continuo con gli altri elementi del combo». Questo erano Ella Fitzgerald e Billie Holiday, come anche Sarah Vaughan o Carmen McRae: professioniste riconosciute per il loro talento,«profondamente indipendenti e capaci di essere dentro il tessuto della musica e non solo stelle davanti a una ritmica». Allo stesso modo Amy Winehouse non era relegabile al ruolo rassicurante di esecutrice canora, prevedibile, senza scosse.

Fame is a losing game

Il film di Taylor-Johnson racconta in maniera fin troppo didascalica il percorso di Winehouse dal successo alla caduta, scivolando in una narrazione sommaria, veloce, a tratti caricaturale, sacrificando momenti salienti, per far posto ad altri che prendono il sopravvento sulla trama: le scene con il padre e con l’ex-marito Blake, altro personaggio maschile che in questo film appare riabilitato, assolto e compatito.

A questo punto il confronto con il documentario di Kapadia è inevitabile: nel film del 2015 abbiamo visto una Amy Winehouse brillante e carismatica, dotata di senso dell’umorismo, che interagiva con amici, familiari e colleghi: mi è difficile non pensare alle scene in cui, colta dalla gioia o dal dolore, abbraccia i suoi musicisti sul palco. Le immagini dei Grammy Awards del 2008, quando Tony Bennett pronuncia il suo nome quale vincitrice, mi commuovono ancora oggi: un enorme beehive coperto di fiori, il suo sguardo incredulo, poi l’abbraccio ai membri della band. Purtroppo, sembra quasi che la scelta di quest’ultimo prodotto cinematografico sia stata, probabilmente, quella di spingere su una certa rappresentazione caricaturale, enfatizzata. In sostanza, mi è sembrato di osservare la storia narrata dai tabloid nel periodo di maggior accanimento: una donna immatura, preda dei suoi istinti, incapace di dominare le proprie emozioni, fragile e insicura, stravolta dalla dipendenza affettiva (principalmente maschile) senza che la sua identità, e purtroppo la sua visione artistica, venisse realmente approfondita.

Amy Winehouse non voleva la fama e questo il film Back to Black e il documentario di Kapadia lo mostrano in diverse scene. «Non sono una cantante… sono una cantante jazz», dirà Amy al produttore Salaam Remi, come a voler ribadire che la sua rivoluzione si sarebbe compiuta nei piccoli club di Camden, quelli in cui si sentiva felice di cantare, in un contesto libero da celebrità e pressioni di mercato.

Body and Soul

La cosa meravigliosa di Amy Winehouse è proprio il fatto che non fosse una celebrità, una pop star o un’immagine da tabloid. Non un angelo, né un diavolo. Un essere umano imperfetto, disordinata e poco “femminile”: rumorosa, sfacciata. Personalmente, non posso che sentirmi complice nell’imperfezione. In fin dei conti, come potrebbe non essere così? Amy Winehouse è diventata famosa nell’era dell’onnipresenza di Internet e la sua vita esposta sui social ha creato tra lei e il pubblico una connessione particolare, in alcuni casi simbiotica. L’altra faccia della medaglia è quella distruttiva: di fronte a questa immagine femminile poco rassicurante, la musica rischia di passare in secondo piano.

Vorrei ricordare un altro documentario, uscito sempre nel 2015 dal titolo Kurt Cobain: Montage of Heck. Un capolavoro sulla difficile vita dell’artista dei Nirvana. Tuttavia, guardando entrambi i film biografici, c’è qualcosa di disturbante. Come nota la scrittrice Molly Beauchemin, da una parte Montage of Heck propone una rappresentazione ossequiosa di un artista la cui dipendenza dalle sostanze è descritta come accessoria al suo grande talento. Dall’altra, abbiamo una donna in preda a profonde e visibili difficoltà, ridicolizzata e calunniata. In Amy di Kapadia è impossibile rimanere impassibili nell’ascoltare George Lopez alla cerimonia dei Grammy, che dopo l’annuncio della vittoria di Amy, esclama «qualcuno la chiami e la svegli alle 6 del pomeriggio per farglielo sapere», per poi definirla in modo sprezzante «un’ubriacona».

Quel che emerge scorrendo il passato di Amy attraverso il film di Kapadia è che i giornalisti, i tabloid e persino i media più rispettati abbiano svenduto il suo corpo e la sua anima con un’aggressività svilente e pericolosa. Una svalutazione delle lotte personali delle donne, profondamente radicata nella società e dalle mille sfumature razziali e di genere. Esempi di trattamento simile a quello subito da Amy ne abbiamo tantissimi, da Janis Joplin a Billie Holiday, Whitney Houston e molte altre. In sostanza, gli uomini hanno il diritto al tormento; le donne no.

Nel mondo dell’arte le donne vengono ancora viste come intruse, il cui talento è dovuto al proprio manager maschile, produttore, fidanzato famoso o marito. Senza dimenticare che la disparità di genere, che attraversa tutti i settori dell’occupazione, è particolarmente presente nell’ambito dell’industria creativa. I dati mostrano come ancora oggi le donne siano poco rappresentate, ostacolate nella carriera, escluse dalla contrattazione. Questa impostazione continua a fare del femminile non il soggetto, ma l’oggetto dello spettacolo, il nucleo del gossip. Le donne che hanno successo sconvolgono le convenzioni e il mondo anticipa la loro caduta. Ed è proprio sulla caduta pubblica del corpo di Amy che si è giocata la partita più spietata: quella che l’ha accompagnata alla morte.

È il 18 giugno del 2011. Siamo a Belgrado e Amy è letteralmente costretta a salire su un palcoscenico che non voleva calcare. Si commuove, crolla. Ma il pubblico le fa pressione e inizia a fischiarle contro. Lei si cinge in un abbraccio. Irrimediabilmente sola, nonostante la folla brulicante, spinta ai suoi limiti disumani da una cultura di avidità e consumismo.

È difficile pensare alle scene pubbliche della vita di Amy senza interrogarci sul fatto che il consumo della sua sofferenza ci rende, in un certo senso, complici della sua morte. Il documentario di Kapadia e il film di Sam Taylor-Johnson, probabilmente alimentano questa romanticizzazione della tragedia. Kapadia usa le riprese dei paparazzi, Sam Taylor-Johnson le riproduce, ma entrambi illustrano la stessa oscurità che i media hanno catalizzato, guardando il suo corpo fragile e soffermandosi sulla sua autodistruzione.

Nonostante tutto, inizialmente Amy aveva rifiutato la riabilitazione e tale rifiuto divenne il suo più grande successo: Rehab, il cui testo, incredibilmente toccante se letto postumo, portò il suo primo manager Nick Shymansky a dire: «Aveva scritto questo grande successo, innegabilmente brillante, […] tutto il mondo ballava al suo ritmo, mentre in realtà lei stava scrivendo di una decisione che cinque anni dopo l’avrebbe portata alla morte».

Il grande merito, fortemente trascurato dai due lungometraggi, rimane la potenza che Amy ha infuso nell’autonarrazione, nella scrittura intima. Quella stessa potenza che hanno avuto poi quei movimenti travolgenti di rivendicazione, simbolo dell’autonarrazione che sono stati il #MeToo, Black Lives Matter, Non una di meno, che abbattono gli stigmi di genere, sessualità e razza.

Amy Winehouse aveva inaugurato una nuova ondata di giovani cantautrici che scrivono e cantano le proprie realtà. Un contributo infinitamente prezioso, se pensiamo al significato riscritto nell’ultimo secolo della voce femminile: non più fragile voce da sfruttare, ma un urlo altissimo che prende forma con ogni canzone, autoritratto, poesia, romanzo in grado di sconvolgere e abbattere le convenzioni. In questo senso Amy Winehouse è vivacità, innovazione, sensatezza; mentre l’unica, sconvolgente follia autodistruttiva è continuare a parlare a voce bassa.

In copertina: frame dal film Back to black (fair use)

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