EUROPA
«Una repressione quotidiana». In Bielorussia centinaia di prigionieri politici
Dalle proteste dello scorso anno, il regime di Aljaksandr Lukašėnka continua a mettere in campo arresti, detenzioni arbitrarie e torture. Una fuga di notizie sembra rivelare la volontà di costruire un campo di concentramento per dissidenti, mentre dal basso si attivano iniziative di solidarietà di ispirazione anarchica
I loro volti girano sui social, i loro nomi si trovano negli appelli di chi prova a esprimere solidarietà. Si tratta delle centinaia di detenuti politici bielorussi, che riempiono le carceri di stato e che sono spesso vittime di tortura. Nella piccola repubblica post-sovietica, è passato ormai mezzo anno dalle elezioni dello scorso agosto e dallo scoppio di proteste generalizzate che ne è seguito, ma la repressione da parte del regime di Aljaksandr Lukašėnka (al potere dal 1994): secondo il report dell’osservatorio per i diritti umani Viasna96, che ha sede a Minsk, essa ha infatti raggiunto dimensioni «senza precedenti» e testimonia della «situazione di profonda crisi dei diritti umani in cui versa il paese».
Dalla traduttrice e letterata Volha Kalackaja, prelevata dalla sua abitazione domenica scorsa e per la quale si è mobilitata la scrittrice canadese Margaret Atwood, al consulente dell’emittente “Radio Svaboda” e amministratore del canale Telegram “Belamova” Igor Losik, che sarebbe dovuto uscire di prigione a natale dopo sei mesi di detenzione e che ha dunque iniziato per protesta uno sciopero della fame, dall’attivista anarchico e analista politico Mikola Dziadok, che era già stato arrestato in occasione delle proteste del 2010 e si ritrova ancora da quasi un mese nelle mani delle forze dell’ordine, fino al giornalista Andrei Alexandrov, di cui non si ha più traccia dopo una perquisizione avvenuta settimana scorsa negli uffici del portale d’informazione indipendente più vecchio del paese: sempre stando ai dati raccolti di Viasna96, nell’anno appena trascorso la giustizia bielorussa ha aperto dei procedimenti per motivazioni politiche nei confronti di oltre 900 persone, mentre più di un migliaio di testimoni hanno parlato di torture subite; 477 giornalisti sono stati arrestati e almeno nove di loro si trovano ancora in prigione.
La repressione è tanto trasversale e diffusa quanto lo sono le proteste iniziate già prima della tornata elettorale di agosto, nel momento in cui due dei principali candidati d’opposizione sono stati incarcerati ed è stato loro impedito di correre per la presidenza, e poi definitivamente esplose dopo che il presidente Lukašėnka ha annunciato la propria vittoria con oltre l’80% dei voti. Migliaia di persone sono scese in piazza, sia nel centro di Minsk che in città più piccole e periferiche, mentre la dura reazione delle forze dell’ordine e in particolare delle unità speciali di sicurezza Omon ha lasciato dietro sé numerosi feriti e almeno tre morti (Aljaksandr Taraikouski, Henadz Shutau, Aljaksandr Vikhor). Afferma ancora il report: «L’arresto e l’imprigionamento di manifestanti pacifici nel 2020 è diventato esteso. Nel periodo che va dall’inizio della campagna elettorale fino alla fine dell’anno, si è verificata la detenzione di più di 33mila individui».
Se sospetti di brogli elettorali, proteste di piazza e utilizzo di pratiche violente da parte delle forze dell’ordine non rappresentano certo eventi inediti nella storia bielorussa (ci sono state grandi episodi conflittuali nel 2010 e successivamente nel 2017), forse mai come adesso la loro “onda d’urto” sta raggiungendo anche chi non si interessa di politica e non aveva attivamente preso parte a momenti di contestazione ed espressione del dissenso prima d’ora. «In questo momento la repressione coinvolge tutti», confermano decisi anche dall’Anarchist Black Cross di Minsk, collettivo a supporto dei prigionieri politici di tendenza anarchica attivo da alcuni anni e che sta raccogliendo fondi per aiutare chi è detenuto. «Si può essere colpiti dalla brutalità della polizia non solo se si fa o si dice qualcosa, ma anche semplicemente per una spilla indossata o per una scritta sulla maglietta. Le proteste sono circoscritte ai quartieri periferici e le persone temono a manifestare da altre parti».
L’uso della forza da parte del regime non è dunque stato solo un mezzo per bloccare e contenere il dissenso scoppiato la scorsa estate, ma pare divenire un elemento ormai “normale” e quasi quotidiano nella società. È di qualche giorno fa l’indiscrezione per cui in Bielorussia sarebbe in corso la messa a punto di un vero e proprio “campo di concentramento” per oppositori: Bypol, un’iniziativa indipendente portata avanti da alcuni professionisti giudiziari bielorussi, ha reso pubblica una registrazione audio in cui si sentirebbe il vice Ministro degli Interni Nikolai Karpenkov annunciarne la costruzione. «È assurdo come questa notizia ci abbia lasciato praticamente indifferenti», commentano attivisti e attiviste dell’Anarchist Black Cross. «Siamo talmente assuefatti da non provare più troppe emozioni… Se fosse vero che Lukašėnka stesse realizzando un campo di concentramento per dissidenti, si tratterebbe semplicemente di una conferma di quanto è pervasiva la repressione: le cifre fornite dalle organizzazioni umanitarie sono al ribasso, perché considerano “prigioniero politico” solo chi manifesta in modo al cento per cento non violento. Ma in realtà sono migliaia gli arresti di questo tipo».
A fine novembre, il gruppo musicale di Rostov sul Don (Russia) Kasta ha rilasciato il singolo dal nome Выходи гулять (Esci fuori). Il pezzo ha raggiunto in poco tempo milioni di visualizzazioni ed è diventato particolarmente popolare nella piccola repubblica retta da Lukašėnka, forse proprio perché racconta questa “doppia faccia” della violenza istituzionale: nel videoclip, scene dalla tranquilla vita familiare e “diurna” di un poliziotto vengono messe in parallelo alla glaciale crudeltà con cui, invece, di notte quello stesso poliziotto si ritrova poi a torturare e seviziare. «Vieni a farti una passeggiata, fuori ci sono i soldati e le camionette», cantano i Kasta… il sangue sparso dalla repressione sembra non andarsene più via, non può essere lavato. «Molto spesso la violenza da parte delle forze dell’ordine non ha neanche un motivo preciso», concludono dall’Anarchist Black Cross. «Gli agenti picchiano per scaricare la propria frustrazione, oppure per intimidire. Vogliono spezzare ogni rete di solidarietà e protesta. Noi siamo un piccolo gruppo e facciamo il possibile».
Immagine di copertina da Anarchist Black Cross – Belarus