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MONDO
Rendering Gaza
Un video generato con l’intelligenza artificiale trasforma Gaza in un miraggio patinato di grattacieli e lusso, rilanciato da Trump come promessa di ricostruzione. In questo corto animato, l’oscenità diventa scena: la guerra si dissolve in simulazione, l’occupazione si camuffa da progetto immobiliare. Ma più che sostituire la realtà, queste immagini la ampliano, rimuovendo i morti e riscrivendo il campo di battaglia.
Il 7 febbraio scorso l’account di ultradestra israeliano Nazi Hunter genera un video in stile tourism promo con l’intelligenza artificiale. Possiamo desumere che i prompt inseriti fossero molto simili alle parole incendiarie usate da Donald Trump pochi giorni prima: ripulire Gaza dalle demolizioni, costruire grattacieli e resort di lusso sul mare, portare benessere e un business immobiliare da miliardi di dollari. Le immagini, accompagnate da una musica pop che inneggia a un futuro dorato, producono uno straniante incontro tra Dubai e Hollywood, tra l’isola artificiale di Jumeirah Bay e la monumentalità della notte degli Oscar. I tunnel, simbolo dell’infrastruttura di Hamas, diventano il passaggio verso il nuovo panorama della post-ricostruzione, in cui le donne ballano per il piacere dello sguardo maschile, i bambini corrono mano nella mano verso il futuro, le banconote piovono dal cielo e Musk, Trump e Netanyahu sono felici in vacanza.
Il 26 febbraio Donald Trump lo condivide sul suo account e, nel giro di un battito d’ali, il mondo connesso via social media vede la Striscia di Gaza diventare “la Riviera del Medio Oriente”. Trump l’aveva detto, il video lo fa vedere. Detto altrimenti, un’oscenità si fa scena, trasformando l’indicibile in visibile, in qualcosa che può essere immaginato.
Sebbene non siamo davanti a un software di modellazione 3D, ma a un sistema di intelligenza artificiale che genera, manipola o migliora contenuti visivi, Gaza diventa un render. Così il mondo di Trump – il suo stile, la sua estetica, il suo progetto predatorio – prende forma attraverso le atmosfere e i dettagli visivi del paesaggio, i colori e le tonalità scintillanti di un rendering animato che rende omaggio al tycoon dell’immobiliare formatosi tra Brooklyn e il Queens.
Irrompono allora alcune prime domande: la tecnologia simulativa dell’intelligenza artificiale può essere usata dall’ex Presidente degli Stati Uniti per dire che Gaza – quella dei palestinesi, degli oltre 45.000 civili morti e dei gazawi sopravvissuti – non esiste? Può Donald Trump istigare al trasferimento forzato del popolo palestinese e all’espropriazione di quel territorio nel contesto di un genocidio, manifestando complicità con i crimini commessi da Israele verso un popolo bombardato negli ultimi 15 mesi e che da decenni vive sotto un’occupazione illegale e un sistema di apartheid?
Se la fantascienza, in virtù di un patto con il pubblico e delle regole che la costituiscono come genere narrativo, può mescolare finzione e realtà – immaginando, per esempio, un mondo in cui il nazionalsocialismo ha vinto la Seconda guerra mondiale e governa il pianeta – il breve video rilanciato da Trump non è un semplice esercizio di immaginazione. È, piuttosto, un feroce progetto in cui le immagini, intrecciando artificiosamente costruzione e mistificazione, diventano strumenti con cui la guerra stessa viene combattuta.
Facciamo allora un passo indietro. Perché un video del genere esprime molto più di un’operazione propagandistica?Chi studia o lavora con le immagini sa bene che, da che mondo è mondo, queste hanno contribuito a costruirlo. Il secolo scorso ha già conosciuto – noi abbiamo già conosciuto – un’espansione dell’immaginario attraverso il cinema, una sua duplicazione e moltiplicazione attraverso le forme di produzione sociale e mediatica di mondi finzionali. Questo continua a essere vero anche oggi, con l’avvento degli algoritmi generativi. Eppure, qualcosa si sta ulteriormente complicando: le immagini generate al computer disarticolano sempre più il rapporto mimetico con il mondo, sostituendolo con modelli per la realtà. E questi modelli, anziché garantire trasparenza, nascondono le asimmetrie del potere dietro la loro apparente neutralità.
È passato più di un decennio da quando Harun Farocki, cineasta e studioso della cultura visuale, il cui lavoro ha spesso avanzato una critica radicale della “rappresentazione” come paradigma dominante nel campo delle immagini, scriveva: «L’era della riproduzione sembra essere terminata e l’era della costruzione di un nuovo mondo non è solo all’orizzonte – è già qui». Farocki alludeva all’immagine sintetica come a un diverso tipo di creazione: un universo grafico che abbandona il regime dell’illusione per aprire quello della simulazione. Le immagini, diceva, non vengono più create per trarre in inganno esseri umani e animali – come nell’aneddoto della competizione tra Zeusi e Parrasio – ma operano secondo una logica completamente nuova.
E questo, aggiungeva, ha a che fare con la trasformazione dei regimi di guerra, con il ruolo delle immagini nella percezione del conflitto, con il nostro rapporto estetico con il visibile e con la sua funzione politica.
Cosa guardiamo allora veramente quando vediamo questo video di 40 secondi? Se si tratta di immagini non destinate a riprodurre qualcosa, ma a partecipare attivamente alla costruzione di una realtà in cui lo sguardo umano è del tutto secondario rispetto al loro funzionamento, siamo di fronte a propaganda o a una tattica di guerra? Probabilmente entrambe le cose, fuse in un progetto speculativo di ricostruzione (come Trump stesso aveva già dichiarato, definendo Gaza una «location fenomenale»), giocato sul tavolo della geopolitica.
Che l’intelligenza artificiale sostituisca la realtà è allora una questione mal posta. L’urgenza sta piuttosto nel riconoscere che queste immagini operano come parte di un assemblaggio bellico: invece di ridurre il conflitto, lo ampliano. E, forse in modo più radicale che mai, si organizzano oggi anche esteticamente per cancellare i morti dalla scena.
L’immagine in fair use è un estratto del video.
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