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CULT
Rendere visibile l’invisibile
Recensione a Informal Market Worlds. The Architecture of Economic Pressure, Nai010, 2015.
“The poor always pay back”
Che cosa vuol dire mettere la periferia al centro? Quali conseguenze epistemiche, scenari teorici e implicazioni sociali comporta? Cosa viene messo a fuoco? Anzitutto, balzano agli occhi i mercati informali del mondo, scrive puntualmente Helge Mooshammer nell’introduzione di Informal Market Worlds – The Architecture of Economic Pressure, un lavoro collettivo con cui ripensare la relazione tra la società e le sue istituzioni alla luce delle disuguaglianze globali. Un volume intenso, che preserva i tratti del dibattito vivo tra differenti mondi e interroga le istituzioni dell’arte, dell’accademia, e l’attivismo politico nelle metropoli.
Una raccolta polifonica con interventi di Teddy Cruz, Alejandro Echeverri, Keith Hart, Ananya Roy, Saskia Sassen, AbdouMaliq Simone, Gayatri Spivak, Jean-Philippe Vassal tra gli altri, uscita da poco per la casa editrice olandese Nai010 indirizzata a un lettore non accademico.
Fin da subito questo lavoro chiarisce che informale non significa semplicemente fuori dalla regolazione statale e monetaria: quale forma dello Stato, si domanda Keith Hart, può regolare un mondo dell’economia oggi essenzialmente senza legge? Semmai, l’economia informale è la chiave per accedere ai circuiti dei mercati capitalistici, nord-sud come sud-sud, dove avvistare simultaneità e intersezioni, aggrovigliamenti e legami, implicazioni e giustapposizioni nella mutazione dei luoghi produttivi, avamposti e postazioni nelle metropoli globali cresciute nei processi di esternalizzazione con cui operano i mega-nodi.
Ma di cosa parliamo esattamente quando diciamo mercati informali? Si ha effettivamente l’impressione di trattare uno spazio economico, sociale e istituzionale fortemente ambiguo, dove molte delle categorie della sociologia del lavoro diventano afasiche e le sfumature possono ingannare.
Se volessimo tracciarne la storia, i mercati informali segnano quella strategia di lungo termine che ha permesso, in particolare al colonialismo europeo, di aprire nuovi mercati espandendosi geograficamente e segmentando popolazioni.
Nei suoi romanzi Joseph Conrad ci ricorda come questi nuovi mercati siano stati costruiti mantenendo una parte della popolazione globale in una condizione inferiore. Non è un caso che l’economia informale, tutt’oggi, abbia una connotazione negativa. Informale, allora, non è un’isola felice, semmai il medesimo continente dello sfruttamento pervaso da avverse condizioni di povertà e abuso. Una condizione che spesso è imposta dalle istituzioni economiche internazionali come strumento di “orchestrazione verticale” socio economica. Eppure, allo stesso tempo, l’informalità ha quella capacità di organizzarsi in forme autonome e indipendenti.
Durante la seconda guerra mondiale, descrive bene Keith Hart nel suo intervento, l’economia coloniale è stata in parte sostituita dall’aggressiva creazione di un sistema bancario offshore: un’operazione che ha messo l’informal economy al cuore della finanza globale. In questo senso, possiamo dire che il ruolo dei mercati informali, o altri mercati, è implementato nel funzionamento e nell’istituzione di quelli formali. La City di Londra ha rimpiazzato i guadagni dell’impero coloniale perduto con un altro impero, quello dei paradisi fiscali: questo è un dato di fatto oggi ben documentato da Nicholas Shaxson. Tale operazione si è accompagnata alla liberalizzazione delle regole del gioco, alla loro deregolamentazione violenta. Così si sono aperte le nuove frontiere dell’accumulazione che integrano in maniera diseguale, capaci di esternalizzare i rischi quanto i costi legati alle speculazioni.
Anche per questo è difficile distinguere nettamente formale e informale, i cui rapporti sono dannatamente intrecciati. Saskia Sassen legge in questo processo la formazione di nuove concentrazioni di ricchezza attraverso un’accumulazione originaria dalle complesse operazioni, resa possibile da innovazioni specializzate come la logistica dell’outsourcing e gli algoritmi della finanza. In particolare, questa accumulazione si dà nella trasformazione delle growing zones mondiali in extreme zones adatte all’aggressiva espansione di modi di estrazione del profitto.
Uno dei fenomeni che ha accompagnato la crisi globale è indubbiamente lo scioglimento della cosiddetta economia reale, che ha sussurrato la parola disoccupazione in ogni angolo, che l’ha scritta su ogni pagina di giornale – questi cimiteri delle idee.
A seguire, aggiustamenti alle economie nazionali, privatizzazioni delle imprese pubbliche, rafforzamento della proprietà privata, deregolamentazione del lavoro. Questo ha spinto un grande segmento della popolazione globale nel regno dell’informalità – scrivono AbdouMaliq Simone e Rika Febriyani – su cui si avanzano oggi pretese di interventi regolativi.
Saskia Sassen, invece, si domanda quale sia lo spazio degli espulsi che cresce e diventa progressivamente differenziato, lo spazio degli invisibili nel momento in cui le dinamiche di espulsione proliferano in ogni parte del pianeta.
È forse venuto il momento, in Europa e non solo, di abbandonare la categoria di disoccupato e trovarne di nuove per rendere visibile l’invisibile: c’è decisamente molto di più nelle trame dell’economia rispetto a quanto questa desueta nozione sia in grado di intercettare. Sono i luoghi dove potenzialmente fabbricare o inventare altre economie, storie alternative a quella del neoliberalismo, originali forme dell’appartenenza. Ma qui sta l’ambiguità del discorso che rivela la posta in palio dell’urgenza che stiamo affrontando.
Anche il capitale, secondo Ananya Roy, vede in questi stessi circuiti informali animati in particolare dalla figura sociale del povero, l’enorme laboratorio dove individuare i modelli futuri di business neoliberale. Secondo Ananya Roy l’informale che caratterizza i circuiti economici degli strati inferiori della piramide sociale apre a una nuova epistemologia della povertà: se Sassen si domanda che tipo di mercati altri è possibile immaginare lavorando nell’economia informale per andare oltre il paradigma neoliberale della crescita e dell’accumulazione di ricchezza, il caso indiano ci racconta di come le stesse multinazionali fanno di questi luoghi le nuove sorgenti di valore. I capitalisti prendono appunti dai poveri, dalle loro pratiche sociali.
Le comunità etniche, le relazioni famigliari e i legami sociali, affermati attraverso vari riti di solidarietà, vengono messi al centro in quanto elementi operativi nei mercati informali. I poveri sono integrati nei circuiti dell’accumulazione del capitale che trasforma questa povertà in una risorsa produttiva. Pensiamo al micro-credito: la merce che viene trattata, scambiata, prodotta, venduta e valorizzata è il debito.
“Il povero ripaga sempre i suoi debiti”: questo il mantra della microfinanza secondo Asif Dowla e Dipal Barua, uno strano assemblaggio che articola multinazionali con organizzazioni umanitarie no profit, volontari e istituzioni finanziarie. Siamo di fronte a una riarticolazione complessiva di soggetti e territori una volta designati come ad alto rischio, oggi considerati la nuova frontiera dell’economia.
Un altro caso simile, sempre riportato in questo volume, è l’“inclusive growth” sperimentata nelle megalopoli indiane, un’inclusione attraverso il mercato, una forma di accumulazione. Il caso più lampante è il progetto “slum free city” dove il capitale e il governo urbano vogliono costruire “intense emancipatory zones” trasformando la capacità di self-organization degli slum in urban asset, patrimonio urbano per creare inclusione sociale attraverso istituzioni come la proprietà.
Con questo libro per le mani si sente la necessità di un lavoro analitico e descrittivo analogo dei casi studio riportati di Jakarta, Bangalore, Medellin ma della regione dell’Europa nelle sue direttrici sud-est, di un sud sempre più impoverito e un est sempre più Europa centrale. Si ha la netta sensazione che questa condizione di informalità stia caratterizzando sempre più le stesse economie occidentali e le città europee che abitiamo. È urgente interrogare i processi di valorizzazione, di estrazione e le tecniche di comando nelle metropoli europee per poter ripensare l’architettura delle istituzioni economiche e sociali, così come delle amministrazioni urbane: l’informalità si rivela essere il terreno politico di conflitti da abitare e organizzare.