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MONDO

Regime globale di guerra, movimenti, internazionalismo: intervista a Michael Hardt

Michael Hardt analizza il regime globale di guerra e il declino dell’egemonia americana, interrogandosi sulle possibilità per i movimenti internazionali del presente. Dal dialogo con Hardt emerge uno scenario in chiaroscuro: in un mondo segnato da profondi conflitti e radicale instabilità politica, c’è spazio per immaginare e costruire nuove forme di internazionalismo

Michael Hardt, teorico dei movimenti sociali e attivista, analizza le caratteristiche del “regime globale di guerra” e le sue implicazioni sociali, economiche e politiche su scala internazionale. In questa intervista, Hardt esplora le caratteristiche del disordine che emerge dal declino dell’egemonia statunitense: un vuoto di potere al quale non si accompagna l’emersione di alternative. In questo scenario, tensioni e conflitti su larga scala si susseguono, apparentemente senza via d’uscita. Nonostante l’evidente frammentazione dei movimenti contemporanei, l’idea di “moltitudine” – allo stesso tempo fotografia dell’attuale puntiforme composizione di classi e come progetto politico – continua a essere una fondamentale indicazione di metodo per la costruire di nuovo internazionalismo dal basso, capace di superare i confini nazionali e affrontare le sfide globali del presente.

Il regime globale di guerra è uno dei paradigmi che segnano il nostro tempo. Come molte e molti hanno raccontato, non è caratterizzato dalla mera somma dei conflitti in corso: il regime globale di guerra irradia in maniera crescente la dimensione sociale, economica, politica, su scala mondiale. Con quali approcci è possibile non soccombere a un inevitabile  senso di sconfitta e riacquisire fiducia nei processi collettivi  volti a incrinare questo paradigma?


Ovviamente è difficile. Bisogna dire forse prima che in questi regime di guerra c’è guerra senza fine nei due sensi: dopo 11 settembre guerre infinite americane nel senso di interminabili. Ma oggi abbiamo guerre senza fine in cui non c’è strategia, non c’è scopo. Se penso a una strategia che possa avere Israele non mi viene in mente nulla, se non che voglia ammazzare tutti. Non c’è strategia, non c’è prospettiva di pace. Quindi questo anche rende più difficile immaginare un movimento no guerra però dobbiamo anche inventare una soggettività alternativa, non solo per porre limite a queste guerre e a questo regime di guerra che è ancora più ampio. Praticamente, ripeto semplicemente il problema: un problema di analisi ma anche soggettivo.

Per esempio vent’anni fa con la guerra USA in Iraq c’era una soggettività che veniva già dai no global e che poteva animare non solamente strategie di blocco delle armi, delle cose pratiche, ma anche di avere un sogno, un desiderio, un’immagine di una collettività, di una soggettività alternativa.

Oggi come oggi ci sono più ostacoli, per così dire. Rimangono o ci sono. SI possono indicare movimenti che ci ispirano qui e là, però poi ognuno ha le sue difficoltà. Per esempio, quando parliamo del movimento bellissimo iraniano, quello curdo, anche, “donna, vità, libertà”, loro sono in grande difficoltà. Anche Ni una menos in America Latina, in Argentina, grandissimo movimento, però anche loro in difficoltà. Sarebbe, almeno nella mia esperienza, quando mi trovo disorientato, prendo indicazioni dai movimenti e trovo, anche se non nel mio paese ma in altri paesi, un’indicazione che ha la forza di andare avanti e questo oggi è una cosa che è più difficile che in altri momenti. Quindi, alla fine, non rispondo alla domanda perchè non vedo in particolare la parte suggestiva esistente, che ci indica una strada alternativa. Forse è un mio limite, forse sono io a non vederla, ma questa è la mia sensazione, che mi lascia con un certo disagio.

L’egemonia globale degli USA è in declino e non sembrano emergere altri attori capaci di occupare il centro della scena nel nord globale. Questo disordine può essere un’opportunità per i movimenti? Può essere l’occasione per inventare nuove istituzioni e nuove forme di democrazia?

Dovrebbe esserlo, però, faccio un salto indietro. Quando noi parliamo del declino dell’egemonia americana per me vuol dire che non sono più capaci di creare una pace di dominio, cioè creare un ordine imperialista o anche economico-politico. Questa incapacità non vuol dire che non c’è più la forza della violenza, cioè la forza militare. è sganciata dal progetto egemonico, quindi a volte diventa pericoloso, fanno dei danni. Quando parlo del declino dell’egemonia globale americana non vuol dire che non c’è pericolo, a volte maggiore di quello che abbiamo visto negli ultimi anni. Cioè, è chiaro che in Afghanistan non erano capaci di creare un nuovo governo a loro amico, però danni militari potevano farne a non finire.

E quindi forse questo va insieme con questa idea di regime militare, di regime di guerra, perché c’è una specie di inversione in questo potere del rapporto tra controllo politico e forza militare, perché ci sono quest operazioni militari che non hanno un progetto politico possibile e quindi diventa una distruzione, un massacro, forse proprio nel caso di Israele si può interpretare così.

Tornando alla domanda che è più ottimista, diciamo, è certo che anche quando pensiamo ad altre epoche, che questo disordine, questo potere che funziona meno egemonicamente e più di dominio di forza è abbastanza fragile. Questa è una cosa che c’è, anche se è pericoloso, micidiale. Però ci sarà la possibilità. CIò che non riesco al momento a identificare è la forza soggettiva di cogliere questa possibilità. E devo anche ripetere che è possibile che questo sia un mio limite, che io non sia capace di coglierla, però credo che tanti di noi vogliamo un movimento forte, capace anche di mettere insieme le diverse correnti progressiste, anche di liberazione nella nostra società. È un compito abbastanza difficile e c’è anche un potere abbastanza abile nel bloccarci. Quindi, forse, devo dirlo differentemente, non è che non ci sono soggetti, che non c’è un protagonismo, ma finora non siamo riusciti ad articolare, a cogliere la possibilità di un movimento molteplice, cioè di tante correnti che lottano insieme anche con scopi diversi. Questa a me sembra la grande sfida per noi. Quindi sbagliavo quando dicevo che non c’è un soggetto, ci sono dei soggetti: ma finora, o almeno in questo momento – perché abbiamo avuto momenti in un passato recente in cui siamo riusciti a mettere insieme almeno per un periodo questi diversi movimenti – però in questo momento sembra difficile.

Sì, l’impressione è proprio questa, che ci sia molta frammentazione e che non riusciamo a unire le lotte. Dovremmo cercare di trovare un modo, capire come unirle.

Questo è dato non solamente dai nostri problemi, ma bisogna anche analizzare le forme repressive che ci bloccano.
Per esempio in Turchia, l’ultima volta che ero lì, dieci anni fa, subito dopo Gezi, ciò che era magico a Gezi era che sembrava che la sinistra tradizionale, la lotta curda, il movimento femminista, trans* e queer, erano nella piazza tutti insieme e sembrava per un momento che potevamo lottare insieme, poi negli ultimi dieci anni la repressione è stata impressionante, durissima. Forse è vero che se fossimo stati più forti avremmo potuto resistere a una repressione di questo tipo, però…

Qual è lo spazio per la moltitudine, in questo scenario globale inquieto? È un paradigma ancora utilizzabile per fotografare l’attuale composizione di classe e immaginare nuovi progetti di liberazione? Con quali accorgimenti?

Io ovviamente con tutte le cose che ho scritto con Toni (Negri) ci sono diverse cose che avrei fatto diversamente, ma il concetto di moltitudine no, vi rimango molto legato. Forse anche senza cattive intenzioni, questo concetto non è stato spesso spiegato in maniera più chiara. Ci sono due registri, ognuno ha due livelli: un registro ha un riconoscimento, e da un lato è un riconoscimento della composizione della classe operaia, che la classe operaia non può essere rappresentata da una figura unica tipo l’operaio industriale ma la composizione della classe operaia è molto estensiva. Non solamente chi lavora in servizi, i rider, ma anche il lavoro domestico non salariato. E questa è una ricognizione del paesaggio sociale. D’altro canto, la moltitudine però dovrebbe indicare che non è solo una questione di lotte di classe. Cioè, non voglio parlare per Toni, non è che  vogliamo dire che è finita la lotta di classe, anzi è importante reinventarla. Vedo che c’è un riconoscimento e che la lotta di classe fa  già parte delle lotte dei movimenti.

La lotta di classe deve essere concepita con la lotta femminista, con la lotta queer, con la lotta antirazzista, pro-migranti, quindi non si può fare lotte di classe senza pensare di unirla e metterla insieme con le altre. Quindi tutto questo è moltitudine come registrare la realtà, il paesaggio in cui siamo. Però moltitudine deve essere concepita anche con un altro registro e cioè come progetto, come forma organizzativa.

E in questo secondo senso, secondo registro, come dicevo, la moltitudine non esiste, è una cosa che dobbiamo fare. E farlo, creare un movimento, una specie di lotta di classe, una forma di lotta di classe che comprenda le diverse istanze, i workers Amazon con i metalmeccanici eccetera, questo è già un lavoro significativo e bisogna anche riconoscere alcuni ostacoli, alcune resistenze anche nei sindacati tradizionali e nel movimento operaio,  però non insuperabili.

E poi, d’altra parte, la sfida e il compito più grande è di inventare un modo di articolare le diverse lotte. Questo spesso si fa solamente con, per me, vaghe espressioni di solidarietà e questo per me non basta. Questo mi fa pensare a una femminista americana che negli anni Ottanta criticava i compagni socialisti amici, quelli non misogini. Lei diceva: «non vogliamo la vostr solidarietà come atto di simpatia, voi dovreste essere coscienti che per vincere la lotta anticapitalistica dovrebbe essere anche femminista, è la vostra lotta, non mera solidarietà. Questo mi sembra qualcosa che è vero e aiuta, una cosa che gli studi accademici negli ultimi decenni hanno sviluppato molto bene perché può partire da un’analisi del potere  e di quanto le strutture di dominio, che sono diverse, siano intrecciate e ormai non possono funzionare l’una senza l’altra. Cioè, il patriarcato non può funzionare senza il capitalismo e in particolare il capitalismo funziona attraverso il patriarcato e il razzismo, eccetera. Quindi le analisi del potere spesso fatte in questi decenni nel contesto accademico sono utili: capire questa struttura, però capire la struttura del potere non ci dà immediatamente la forma della lotta, questa è la cosa che dobbiamo cercare noi, non abbiamo delle ricette di come farlo ma vedo spesso un desiderio, spesso non assolutamente soddisfatto, di trovare un modo di svoltare insieme, che implica anche una trasformazione soggettiva. Ci sono stati dei progressi in questa direzione, se pensiamo ai rivoluzionari operai di cinquant’anni fa, per capire la lotta femminista ci voleva una trasformazione generazionale. Però, oggi almeno c’è un senso di obbligo e in gran parte si vede: ci sono uomini che capiscono nell’analisi le strutture di gerarchia di genere, sessuale, sono numerosi al momento. Non dico non ci siano problemi, però almeno c’è una base su cui sappiamo tutti che questa critica è valida e questo è già qualcosa. Non voglio essere troppo ottimista su questo, ma comunque è un punto di partenza, perché prima non c’era alcun tipo di consapevolezza. Il panico della destra per il gender è la reazione a questa aumentata consapevolezza.

Negli ultimi due anni, a cominciare dall’invasione dell’Ucraina attuata dalla Russia e dal ruolo marginale, di fronte alle guerre, delle reti di potere transnazionali, molte e molti hanno sottolineato il prepotente ritorno del protagonismo degli stati nazione. Sei d’accordo con questa lettura? Qual è lo stato di salute dello stato nazione, nel regime globale di guerra?

L’azione sviluppata dalla Russia restituiscono l’immagine di una nazione espansionistica. Anche gli Stati Uniti, nella loro politica estera, provano a riconquistare un ruolo egemonico attraverso la NATO, anche come strategia per rendere subalterno il ruolo dell’Europa davanti al conflitto. La rimilitarizzazione dell’Europa e la rilevante spesa pubblica a sostegno dell’Ucraina sono un tentativo per ristabilire una relazione egemonica tra gli Stati Uniti e l’Europa. Questa tendenza, dal mio punto di vista, non sarà durevole. Ha similitudini con le dinamiche osservate nel 2003 con l’invasione dell’Iraq: l’imperialismo americano sembrava ancora forte, potenzialmente in grado di trasformare il mondo con la loro visione e in ragione della loro egemonia. Eppure, era una forza soprattutto apparente.

Dal mio punto di vista, la dinamica attuale con la Russia mi sembra simile: non mi sembra che siamo davanti alla rinascita del potere imperiale russo. Questa operazione militare mi sembra piuttosto fragile, senza vie d’uscita. In ogni caso, non penso che questi eventi segnino il ritorno degli stati nazionali.

Faccio un altro esempio che va nella direzione opposta. Hanno suscitato scandalo le mappe di Israele mostrate da Netanyahu, con lo stato di Israele che copre l’intero territorio. Di quella mappa mi colpisce la zona “del nemico”, rappresentata senza gli spazi nazionali.

Mi piaceva la lettura che davamo della situazione globale in Impero: ci sembrava importante evitare di leggerla unicamente in base agli stati nazionali, senza però ritenere, allo stesso tempo, che gli stati avessero dismesso ogni ruolo. La chiamavamo costituzione mista. Questo concetto ci permette di cogliere i diversi livelli; è una categoria utile per cercare di capire cos’è il potere globale

È indispensabile pensare agli stati nazionali in una dimensione più grande, che ricomprenda anche la forza capitalistica, che non è soltanto nazionale. Ad esempio, le guerre in corso possono essere lette come conflitti nell’ambito della logistica applicata all’energia. Il gas è una chiave di lettura, così come lo è il progetto di costruzione di un corridoio energetico nel Medioriente.  Il 7 ottobre è stato anche un tentativo di bloccare la realizzazione di questo corridoio. Non è l’unica chiave di interpretazione del conflitto, ma è una prospettiva importante.

La prospettiva di un nuovo internazionalismo dal basso, evocata da te e da altre attiviste e altri attivisti, è molto suggestiva. Qual è attualmente lo spazio politico per l’affermazione di un internazionalismo con queste caratteristiche? In che modo le battaglie che si sono date negli ultimi anni possono indicarci la strada verso una trasformazione sociale globale?

Non è una domanda facile. Quando sono disorientato, come in questa fase, rivolgo lo sguardo ai movimenti. C’è spazio per una nuova forma di internazionalismo, anche se il concetto e le pratiche dell’internazionalismo devono essere ripensate. C’è una tendenza alla traduzione delle diverse pratiche, in molteplici paesi, che in genere partono da movimenti abbastanza forti: ci sono meccanismi di trasmissione di desideri, pratiche, parole d’ordine. Allo stesso tempo, non siamo davanti allo scenario del 2011, con profonde risonanze di movimento tra Tunisia, Egitto, Grecia, Spagna e Stati uniti. Era un movimento caratterizzato da lotte di massa.

Se pensiamo ai movimenti globali attuali, Non una di meno mantiene aperta la tradizione caratterizzata da cicli di lotta transnazionali con una forte attenzione per la traduzione: abbiamo bisogno proprio di questo.

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