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EUROPA

“Refugees welcome”: in Germania dieci anni dopo tra amnesie coloniali e lotte dei rifugiati

Nel 2012 a Oranienplatz venne allestito un campo di protesta permanente. Dieci anni dopo il movimento dei migranti e rifugiati si è ritrovato in quella stessa piazza per organizzare il Baustelle Migration, un festival di cinque giorni, a cui ha partecipato anche Angela Davis, per riflettere sulle politiche migratorie razziste e coloniali europee e tedesche

Il 6 ottobre di dieci anni fa un gruppo di una settantina di rifugiati raggiungeva Oranienplatz, nel cuore del quartiere berlinese di Kreuzberg. Alle spalle c’era una marcia durata un mese e lunga più di 600 chilometri, cominciata quasi dall’altro capo della Germania, a Würzburg, tipica cittadina medievale nella Bassa Franconia, una delle tante rase quasi completamente al suolo nella seconda Guerra Mondiale e ricostruite quasi uguale, quasi nulla fosse successo.

Nel gennaio del 2012 Mohammad Rahsepar, rifugiato iraniano, a Würzburg ci si era impiccato. Per protesta e disperazione: era rinchiuso da mesi in quello che nel linguaggio neutro della burocrazia tedesca si chiama Gemeinschaftsunterkunft, alloggio comunitario, e nel tedesco colloquiale invece lager, un campo di detenzione per centinaia di persone che attendono il verdetto sulla propria richiesta d’asilo. Togliendosi la vita, Mohammad Rahsepar aveva riportato l’attenzione sulle condizioni in cui erano costretti i richiedenti asilo nella Germania del secondo governo Merkel e spinto rifugiati in diverse città bavaresi a protestare.

La marcia da Würzburg a Berlino, organizzata mesi dopo, era tutt’altro che simbolica. Nell’attraversare in lungo il paese, da sud a nord, i richiedenti asilo praticavano disobbedienza civile, rompevano materialmente il Residenzpflicht, l’obbligo a non lasciare il comune a cui si è stati assegnati, e si riprendevano in mano il diritto al movimento

Da allora Oranienplatz è legata alla storia del movimento berlinese dei rifugiati e alla sua lotta contro le politiche migratorie europee e tedesche. Dal 2012 al 2014 il movimento ci ha allestito un campo di protesta permanente, centro di informazione e rivendicazioni politiche dei rifugiati, ma anche di supporto per chi in città non sapeva dove stare. Come il gruppo di persone che, sbarcate tempo prima a Lampedusa e fuggite dall’Italia, riuscì nel 2013 a raggiungere Berlino. Da Oranienplatz sono partite manifestazioni, scioperi della fame, trattative con le autorità cittadine, occupazioni – della Porta di Brandeburgo, del foyer della commissione europea a Berlino, di una ex-scuola di Kreuzberg, la “Gerhart-Hauptmann”, durata anche questa fino al 2014. Da qui è partito il Refugees Bus Tour che ha spezzato ancora una volta le leggi e l’isolamento imposto dall’obbligo di residenza da sistema dei lager, e ha permesso al movimento di entrare in contatto con altre persone rifugiate in Germania.

Il campo è stato poi sgomberato a seguito di vuote promesse, false soluzioni e raggiri mirati di Verdi e SPD, ma Oranienplatz per rifugiati e molti berlinesi è restato simbolo di protesta e resistenza, di solidarietà, empowerment e auto-organizzazione migrante; per le istituzioni federali e cittadine, invece, una spina nel fianco, testimonianza dell’incapacità di risolvere anche solo una delle questioni poste dal movimento. Che nel corso di questi anni sono
difatti rimaste le stesse: abolizione del Residenzplicht e delle restrizioni sulla libertà di movimento; abolizione dei lager; stop immediato delle deportazioni; diritto al lavoro e allo studio.

Per questo in occasione dei dieci anni trascorsi da quel 6 ottobre 2012 l’Oplatz-Bewegung, il movimento di Oranienplatz, si è ripreso ancora una volta la piazza. Questa volta per organizzarci il Baustelle Migration, il cantiere migrazione, cinque giorni aperti a tutti di eventi culturali e politici, dibattiti, workshop e spettacoli. Tra i temi in programma: guerra, giustizia climatica, persone queer e trans in migrazione, border regime europeo, razzismo e abolizione della polizia.

E tra gli interventi anche quello di Angela Davis, venuta già nel 2015 a Kreuzberg per portare il suo supporto: «Il movimento dei migranti e dei rifugiati in tutto il mondo rappresenta il movimento e la sfida del XXI secolo» disse allora

Lo ricorda durante la conferenza stampa, organizzata la mattina del 6 ottobre con alcuni volti storici dell’Oplatz: Napuli Langa, la donna sudanese che nel 2014 salì e visse per 5 giorni su un albero a Oranienplatz per protestare contro lo sgombero; Adam Baher, che insieme ad altri resistette invece per 9 giorni sul tetto della scuola Gerhart-Hauptmann alla polizia che voleva entrare; Jennifer Kamau, co-fondatrice dell’International Women* Space (IWS), gruppo femminista nato proprio durante quell’occupazione per creare uno spazio dove confrontarsi su sessismo, misoginia e patriarcato all’interno del movimento.

Sono le donne dell’IWS che hanno voluto Angela Davis di nuovo a Berlino. La sera, quando tiene il suo speech a Oranienplatz, ci sono così tante persone ad ascoltarla che il traffico intorno alla piazza deve essere deviato. Quel 2015 in cui arrivò a Kreuzberg per incontrare il movimento – dice la Davis – era stato l’anno della Primavera femminista brasiliana. E traccia poi una linea che dalla centralità delle femministe nere, indigene e queer in America Latina porta fino a Berlino – da Marielle Franco, Erika Hilton (prima donna nera trans eletta alla Camera nello stato di San Paolo, Brasile), Francia Marquez (attivista nera, vice-presidente della Colombia) alle compagne dell’International Women* Space:

«Queste vittorie segnano una nuova era. Perché anche la leadership del movimento migrante e dei rifugiati qui in Germania è una leadership femminile, intersezionale, antirazzista, anti-capitalista, femminista»

Un passaggio che colloca questo movimento nella più ampia cornice globale dei movimenti anticoloniali contemporanei e che aiuta inoltre a metterlo a fuoco rispetto alle lotte che si danno oggi a Berlino. Negli anni a seguire lo sgombero di Oranienplatz, attiviste e attivisti rifugiati sono diventati infatti un pezzo importante del mosaico intersezionale e anticoloniale che si sta formando anche qui in città: nuovi gruppi di migranti, queer e non, di giovani neri, latino americani, palestinesi, curdi, che controbilanciano il nocciolo storico e duro di militanza antifa, bianca e tedesca. E che riportano a galla quelle che Angela Davis definisce “amnesie coloniali”, il rimosso che ogni stato dell’Occidente colonialista si porta dietro. Germania compresa. Difatti Residenzpflicht e sistema dei lager – denuncia da tempo il movimento dei rifugiati – rimandano alle pratiche di limitazione, controllo e segregazione della popolazione indigena applicate nelle colonie. Così come il ruolo delle gangs in uniform, come vengono definite le pattuglie di agenti durante il dibattito a Oranienplatz su razzismo e abolizione della polizia.

Per avere un’idea più concreta, c’è il report pubblicato proprio in questi giorni dall’associazione KOP, acronimo di Campagna per le vittime della violenza razzista della polizia: più di 300 casi esemplari, catalogati nella sola Berlino dal 2000 al 2022. Scorrendolo ci si trova davanti tutta la scala della brutalità in uniforme, dal racial profiling, ai controlli arbitrari, agli arresti immotivati, alle botte. Passando per i morti ammazzati, l’ultimo dei quali il 14 settembre di quest’anno: Kupa Ilunga Medard Mutombo, un 64enne che soffriva di schizofrenia e doveva essere portato in una clinica psichiatrica. Insieme all’ambulanza sono arrivati gli agenti, lui si agita e loro lo pestano a sangue. Uno gli preme anche il ginocchio sul collo, come accadde a George Floyd. Gli ultimi due suicidi nei lager a Berlino risalgono invece all’anno scorso: Alpha Oumar, 27enne dalla Guinea che temeva di essere deportato, e Salah Tayyar, dal Ciad, la cui richiesta di asilo era stata dopo anni rifiutata. Perché, se con la pandemia le deportazioni erano leggermente calate, nella Berlino a guida socialdemocratica si sono mantenute a livelli pre-Covid.

Proprio su polizia e prigioni Angela Davis ha voluto chiudere il suo intervento a Oranienplatz: «Bisogna smetterla di parlare della possibilità di riformare. Si è parlato troppo a lungo di riforma. Dopo un po’ ci accorgiamo che si è provato ancora e ancora a riformare queste istituzioni. E ogni volta che si raggiunge una riforma, l’istituzione diventa ancora più razzista o anche più repressiva. Dobbiamo cercare nuove soluzioni», ha ribadito. Solo così la Germania, e l’Europa tutta, potranno forse cominciare un giorno a risvegliarsi dalla loro amnesia coloniale.

Foto di copertina di Montecruz via Flickr